1892 Nagel
È ritornato Nagel a sbarcare fra noi, di recente. Ma io gli volli bene, ragazzo, in una vecchissima traduzione Sandron, intitolata a vanvera: «Era pazzo?». Candido dubbio, che allora m’appassionò; come m’appassionò seguire, avanti e indietro, i passi di questo bighellone esistenziale, vestito di giallo, con la sua custodia di violino piena di biancheria sudicia e il cuore fradicio d’amore. Nuovissimo eroe, per i suoi tempi, nelle cui ciarle febbricitanti e scontrosi misteri e vagabondaggi della mente monologante si origlia con precocità (cinque anni appena dopo gli Allori di Dujardin) il brusio interiore caro alle orecchie del Novecento.
La mattina dopo Johan Nagel si svegliò quando Sara bussò alla porta e gli portò i giornali. Li scorse rapidamente e, uno per uno, li buttò a terra appena letti. Una breve notizia riguardante Gladstone, costretto a letto per due giorni da un raffreddore ma ormai di nuovo in piedi, la lesse per due volte di seguito, scoppiando poi in una risata. Quindi si portò le mani dietro la nuca e, parlando frattanto da solo, a voce alta, s’abbandonò alla seguente ridda di pensieri:
È pericoloso avventurarsi nel bosco armati di temperino. S’inciampa, è inevitabile, goffamente e la lama si conficca in tutt’e due i polsi. Come mai Karlsen non andò... Del resto, è pericoloso anche andare in giro con una boccettina di medicinali nella tasca del panciotto. Puoi cadere per strada, il vetro va in frantumi e le schegge penetrano nel corpo e il veleno nel sangue. Non c’è strada che non presenti pericoli. Come? C’è tuttavia una strada senza ostacoli: quella che percorre Gladstone. Vedo l’espressione giudiziosa e accorta di Gladstone quando avanza per strada: come evita ogni passo falso, come l’accordo tra lui e la Provvidenza lo protegge. Ora anche il raffreddore è superato. Gladstone vivrà fino a crepare di salute.
Pastore Karlsen perché affondasti la faccia nel fango? Deve dunque sussistere il dubbio se fu per nascondere le contrazioni della morte o perché costretto dalle convulsioni? Scegliesti il momento come un bambino atterrito dalle tenebre: una splendida giornata, un mezzodì; e in mano stringevi un commiato. Povero Karlsen, piccolo Karlsen!
E perché poi scegliesti il bosco per la tua piccola grande impresa? Lo conoscevi? Era per te più importante d’un campo, d’una strada, d’un lago? Tutto il giorno il fanciullo errò nel bosco, là, là, là! Ecco, per esempio, i boschi di Vardal sulla via di Gjòvik: starsene lì distesi e appisolarsi e dimenticare tutto, spaziare in alto con lo sguardo, penetrare il cielo, porco mondo, eheh! Così da scoprire più o meno cos’è che si sussurra sul tuo conto, lassù. Eccolo là, dice la cara mamma, se non viene quassù me ne andrò per la mia strada. Così dice, e ne fa un problema. Eheh! rispondo io, e dico: sst, non disturbarmi, non disturbarmi. E lo dico a voce così alta da attirare l’attenzione di un paio di angeli: le carissime Iairi Datter e Svava Björnson.
Perché mai me ne sto qui disteso, e di cosa diavolo rido? Arroganza? Solo ai ragazzi dovrebbe essere concesso di ridere e alle fanciulle molto giovani, poi a nessun altro. La risata è una forma d’appetito, un nauseante e vergognoso suono gutturale; è sollecitata da varie parti del corpo in reazione al solletico. Cosa diceva una volta il macellaio Hange, proprio lui, quello dalla risata sonora che lo imponeva sempre all’attenzione? Diceva che nessuno che abbia compiuti i cinque...
Com’era graziosa sua figlia! Il giorno in cui la incontrai per strada portava un canestro in mano, aveva perduto i soldi per la spesa e piangeva. Mamma carissima, dall’alto del tuo cielo vedesti che non possedevo un solo scellino con cui rincuorare la bambina? Che mi strappai i capelli, lì per strada, perché non possedevo nemmeno un centesimo? Poi passò la banda: la bella diaconessa effettivamente si voltò per lanciarmi una fulgida occhiata. Poi me ne tornai a casa in silenzio, scuotendo il capo, amareggiato per la fulgida occhiata che m’aveva lanciato. Ma un uomo dalla lunga barba, con un cappello di feltro azzurro, mi tirò per un braccio impedendomi d’essere travolto. Sì, sa Dio cosa mi sarebbe accaduto… Zitto! Uno... due... tre: come battono lenti! Quattro... cinque... sei... sette... otto: son già le otto? Nove... dieci. Son già le dieci! Dunque bisogna che mi alzi. Dove ha suonato l’orologio? Non può essere stato giù nel caffè? Non importa, non importa, non importa! Non è stata una scena divertente quella di ieri sera nel caffè? Minuto tremava, e io intervenni al momento opportuno. Certamente avrebbe finito col bere quella birra con dentro la cenere di sigaro e i fiammiferi. Ebbene? Sarà lecito chiedere: ebbene? Perché m’immischio negli affari altrui? Perché, soprattutto, son venuto in questa città? È dipeso da qualche catastrofe dell’universo, per esempio dal raffreddore di Gladstone? Eheheh, che Dio ti aiuti, ragazzo, se dici la verità: che in effetti eri sulla via di casa, ma che fosti così colpito dalla vista di questa città – piccola e misera com’è – da metterti quasi a piangere, di una gioia segreta e sconosciuta, nel vedere tutte quelle bandiere. A proposito: era il dodici giugno, e tutte quelle bandiere annunciavano il fidanzamento della signorina Kielland. E due giorni dopo la incontrai. Perché dovevo incontrarla proprio quella sera in cui ero particolarmente affranto e non badavo a ciò che facevo. Se ci ripenso, mi vergogno come un verme:
«Buonasera, signorina. Sono uno straniero, mi scusi. Sto facendo una passeggiata e non so dove mi trovo».
Minuto ha ragione, arrossisce subito, e nel rispondere arrossisce ancora di più.
«Dove è diretto?» chiede lei, e mi soppesa con lo sguardo. Mi tolgo il cappello e resto a testa scoperta; cerco una risposta, impalato lì col cappello in mano:
«Voglia essere tanto gentile da dirmi a che distanza si trova la città, l’esatta distanza».
«Non so» dice «da qui non so. Ma il primo edificio che incontrerà è il presbiterio, e da lì alla città è un quarto di miglio.» Dopodiché fa per andare.
«Mille grazie» dico «ma visto che il presbiterio è dall’altra parte del bosco, mi permetta di seguirla, se è diretta da quella parte e oltre. Non c’è più sole, lasci che le porti il parasole. Non l’importunerò, non dirò neppure una parola, se vuole, purché mi permetta di camminarle al fianco ascoltando il cinguettio degli uccelli. No, non vada via, non così in fretta! Perché corre tanto?»
Ma lei continuò a correre e non volle ascoltare; fu allora che mi precipitai dietro di lei, perché potesse sentire le mie scuse:
«Accidenti al suo splendido viso, se non mi ha fatto un’enorme impressione!».
S’allontanò in tanta fretta che in un paio di minuti scomparve. Con naturalezza, nel correre teneva in mano la grossa treccia bionda. Mai visto prima.
È andata proprio così. Non volevo molestarla, non avevo cattive intenzioni. Avrei scommesso che fosse felice col suo tenente, né al riguardo mi sfiorava l’idea di volermi imporre in qualche modo a lei. Ma va bene, va tutto bene: forse quel tenente mi sfiderà, eheh!... farà lega col procuratore del giudice distrettuale per sfidarmi...
A proposito, chi sa se il procuratore glielo darà quel cappotto nuovo a Minuto. Aspettiamo un giorno, magari ne aspettiamo anche due, ma se entro due giorni ancora non gliel’ha dato glielo ricorderemo. Punto. Nagel.
KNUT HAMSUN, Misteri, Milano, Rizzoli 1979.