1902         Michel

Il racconto di Michel, sulla terrazza africana aperta agli odori del deserto, vuol essere la confessione di un virtuale uxoricidio nella gloria di una sovvertita educazione dei sensi. Ma basta a conferirgli lo sperato stemma di scellerato dostoevskiano? Ed è vera – sotto la superba stoffa dello stile – l’infelicità di Michel? Un’angoscia che scrive bene non è mai veramente totale, così Valéry accusava addirittura Pascal. E l’immoralista, che a Biskra non sa serbare il silenzio del deréglé Arthur ad Harrar, parrebbe portarsi dietro un sospetto d’Arcadia, se non sapessimo (dal Journal, dalle lettere) che di quei nutrimenti terrestri consumati à la carte in un locale alla moda, Chez Nietzsche o Chez Wilde, il sapore finale è di cenere. E che, insomma, c’è un modo morbido ma autentico di soffrire.

La mia erudizione, che si ridestava a ogni passo, m’importunava, impediva la mia gioia. Non potevo vedere un teatro greco, un tempio, senza ricostruirlo subito astrattamente. A ogni festa antica la rovina che restava al suo posto mi faceva desolare che fosse morta; e io avevo orrore della morte. Finii col fuggire le rovine e preferire ai più bei monumenti del passato quei giardini bassi che chiamano Latomie, dove i limoni hanno l’agra dolcezza delle arance, e le rive del Ciane che, fra i papiri, scorre ancora azzurro come il giorno in cui s’inazzurrò per piangere Proserpina.

Finii col disprezzare in me la scienza che una volta costituiva il mio orgoglio; gli studi, che un tempo erano stati tutta la mia vita, mi sembravano avere con me, ora, soltanto un rapporto del tutto accidentale e convenzionale. Mi scoprivo diverso ed esistevo, o gioia! fuori di essi. Come specialista mi giudicai stupido. Come uomo, mi conoscevo? Ero appena nato e non potevo già sapere come ero nato. Ecco ciò che dovevo imparare.

Per colui che l’ala della morte ha toccato, ciò che sembrava importante non lo è più; lo sono altre cose che non sembravano importanti o di cui ignorava financo l’esistenza. L’accumulo sul nostro spirito di tutte le conoscenze acquisite si squama come un belletto e, qua e là, lascia vedere a nudo la carne stessa, l’essere autentico che si nascondeva.

Da quel momento fu «questi» che pretesi di scoprire: l’essere autentico, l’«uomo vecchio», colui che il Vangelo respingeva; colui che tutto intorno a me, libri, maestri, genitori, me stesso avevano cercato in principio di sopprimere. E già mi appariva, a causa delle sovrastrutture, più frusto e più difficile da scoprire, ma tanto più utile a scoprirsi e meritevole. Disprezzai da quel momento l’essere secondario, artificioso, che l’istruzione vi aveva disegnato sopra. Dovevo abbattere quelle sovrastrutture.

E mi paragonai ai palinsesti; assaporavo la gioia dello scienziato che, sotto le scritture più recenti, scopre sulla medesima carta un testo antichissimo infinitamente più prezioso. Qual era, questo testo occulto? Per leggerlo non bisognava prima cancellare i testi recenti?

Del pari non ero più l’essere malaticcio e studioso al quale la mia morale precedente, rigidissima e restrittiva, si confaceva. V’era qui qualcosa di più di una convalescenza; v’era un accrescimento, una recrudescenza di vita, l’afflusso di un sangue più generoso e più caldo che doveva toccare i miei pensieri, toccarli a uno a uno, penetrare tutto, smuovere, colorare le più lontane, le più delicate, le più segrete fibre del mio essere. Perché, forza o debolezza, ci si abitua; l’essere, secondo le energie che ha, si compone; ma se queste aumentano, se consentono di potere di più e... Tutte queste idee io allora non le avevo e qui il mio quadro mi falsa. A dire il vero non pensavo e non mi analizzavo; mi guidava una fatalità felice. Temevo che uno sguardo troppo frettoloso venisse a turbare il mistero della mia lenta trasformazione. Bisognava lasciare il tempo, ai caratteri cancellati, di riapparire, non cercare di formarli. Lasciando dunque il mio cervello non già all’abbandono, ma in riposo, mi dedicai voluttuosamente a me stesso, alle cose, al tutto che mi parve divino. Avevamo lasciato Siracusa e correvo sulla strada scoscesa che unisce Taormina a La Mola gridando per chiamarlo in me: un essere nuovo! Un essere nuovo!

Il mio unico sforzo, sforzo costante allora, era dunque di bandire o sopprimere sistematicamente tutto ciò che credevo dovere soltanto alla mia passata istruzione e alla mia prima morale. Per voluto sdegno nei riguardi della mia scienza, per disprezzo verso i miei gusti di scienziato, non volli vedere Agrigento e alcuni giorni dopo, sulla strada che porta a Napoli, non mi fermai al bel tempio di Paestum dove la Grecia respira ancora e dove mi recai due anni più tardi a pregare non so più quale dio.

Ma che dico, unico sforzo? Potevo interessarmi a me se non come a un essere perfettibile? Questa perfezione ignota e che io immaginavo confusamente, mai la mia volontà era stata tanto esaltata per raggiungerla; usavo tutta questa volontà, interamente, a fortificare il mio corpo, ad abbronzarlo. Nei pressi di Salerno, abbandonando la costa, avevamo raggiunto Ravello. Laggiù l’aria più frizzante, l’incanto delle rocce piene di recessi e di sorprese, la profondità sconosciuta dei valloni, contribuendo alla mia forza, alla mia gioia, favorirono il mio slancio.

Più vicina al cielo che lontana dalla riva, Ravello, su un’altura scoscesa, fronteggia la lontana e piatta costa di Paestum. Era, sotto la dominazione normanna, una città quasi importante; oggi non è più che un angusto villaggio dove noi eravamo, credo, i soli stranieri. Un antico istituto religioso, attualmente trasformato in albergo, ci ospitò, situato all’estremità della scogliera, le sue terrazze e il suo giardino sembravano strapiombare nell’azzurro. Dopo il muro coperto di pampini, a tutta prima si vedeva soltanto il mare; bisognava avvicinarsi al muro per poter seguire la digradazione coltivata che, più mediante scalinate che sentieri, univa Ravello alla spiaggia. Al di sopra di Ravello la montagna continuava. Ulivi, carrubi enormi; alla loro ombra, ciclamini; più su, castagni in gran numero, un’aria fresca, piante nordiche; più in basso, in riva al mare, limoni. Sono sistemati a piccole colture, giardini a scale quasi identici, giustificati dall’inclinazione del suolo; li attraversa da un capo all’altro, al centro, un sentiero; vi si entra senza rumore, come ladri. Si sogna, sotto quella ombra verde; il fogliame è folto, pesante; non un solo raggio schietto vi penetra; come gocce di cera densa pendono i limoni profumati; nell’ombra sono bianchi e verdastri; sono a portata della mano, della sete; sono dolci, aspri; rinfrescano.

L’ombra era così fitta sotto di essi che non osavo fermarmici dopo la camminata che mi faceva ancora sudare. Tuttavia le scale non mi estenuavano più; mi esercitavo a salirle a bocca chiusa. Spaziando sempre più le mie soste mi dicevo: «Arriverò fin lì senza fermarmi»; poi, giunto alla meta, trovando la mia ricompensa nel mio orgoglio soddisfatto, respiravo a lungo, con forza, cosicché mi sembrava che l’aria penetrasse più efficacemente nel mio petto. Riportavo a tutte queste cure del corpo la mia assiduità di un tempo. Progredivo.

A volte mi stupivo che la salute mi tornasse così presto. Giungevo a pensare che in principio avevo esagerato la gravità della mia condizione; a dubitare di essere stato tanto ammalato, a ridere del sangue che avevo sputato, a rimpiangere che la mia guarigione non fosse stata più ardua. In principio mi ero curato molto scioccamente, ignorando le necessità del mio corpo. Ne feci lo studio paziente e diventai, in fatto di prudenza e di cure, di una ingegnosità così meticolosa che mi ci divertivo come a un gioco. Ciò di cui ancora soffrivo di più era una morbosa sensibilità al minimo cambiamento di temperatura. Ora che i miei polmoni erano guariti attribuivo quella iperestesia alla mia labilità nervosa, residuo della malattia. Risolsi di vincere anche quella. La vista delle belle pelli bronzee e come penetrate di sole che mostravano, lavorando nei campi, il camiciotto aperto, alcuni contadini sbracati, mi spronava a lasciarmi abbronzare allo stesso modo. Un mattino che mi ero denudato mi guardai; la vista delle mie braccia troppo magre, delle mie spalle che anche gli sforzi maggiori non riuscivano a ributtare sufficientemente all’indietro, ma soprattutto la bianchezza, o piuttosto la decolorazione della mia pelle, mi riempirono di vergogna e di lacrime. Mi rivestii subito e invece di scendere verso Amalfi, come avevo preso l’abitudine, mi diressi verso alcuni scogli coperti d’erba rasa e di musco, lontano dalle abitazioni, lontano dalle strade dove sapevo di non poter essere visto. Quando fui arrivato mi spogliai lentamente. L’aria era quasi frizzante, ma il sole ardeva.

Offrii tutto il mio corpo alla sua fiamma. Mi sedetti, mi sdraiai, mi girai. Sentivo sotto di me la durezza del suolo; l’agitazione delle erbe selvatiche mi sfiorava. Benché al riparo del vento, rabbrividivo e palpitavo a ogni soffio. Fui ben presto avvolto da un bruciore delizioso; tutto il mio essere affluiva verso la mia pelle.

Restammo a Ravello quindici giorni e ogni mattino tornavo su quegli scogli a fare la mia cura. Ben presto l’eccesso d’indumenti di cui mi coprivo ancora diventò ingombrante e superfluo; la mia epidermide tonificata smise di sudare continuamente e imparò a proteggersi grazie al suo stesso calore. Il mattino di uno degli ultimi giorni (eravamo alla metà di aprile) osai di più. In un’anfrattuosita degli scogli di cui parlo scorreva una fonte limpida. Anzi in quel punto ricadeva in cascata, poco abbondante, a vero dire, ma aveva scavato sotto la cascata un bacino più profondo dove si attardava l’acqua purissima. Per ben tre volte mi ci ero avvicinato, mi ero chinato, mi ero disteso sulla proda pieno di sete e pieno di desideri; avevo contemplato a lungo il fondo di roccia levigato, dove non si vedeva una sola lordura, non un’erba, dove il sole, vibrando e screziandosi, penetrava. Quel quarto giorno avanzai, deciso in anticipo, fino all’acqua che era più limpida che mai e senza riflettere oltre mi ci tuffai di colpo tutto quanto. Subito intirizzito lasciai l’acqua e mi stesi sull’erba, al sole. Vi crescevano delle mente odorose; ne colsi, ne stropicciai le foglie, strofinai con esse tutto il mio corpo umido ma ardente. Mi guardai a lungo, senza più alcuna vergogna, con gioia. Mi trovavo, non ancora robusto, ma passibile di esserlo, armonioso, sensuale, quasi bello.

ANDRÉ GIDE, L’immoralista, Milano, Fabbri 1969.

Dizionario dei personaggi di romanzo
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