1816 Adolfo
Irresoluto, per il vizio antico di svigorire con la mente il gesto prima di compierlo; incapace di servirsi delle passioni come di mercenari per vincere la siccità del suo cuore; pericolosamente goloso di tutto ciò che si consuma e si spegne, fosse pure un sentimento assoluto o una dedizione sublime.,. Ecco, Adolfo rispetta tutti i termini d’una già solida tipologia. Portandoci questo d’inedito: lo spostamento d’attenzione, appunto, dai temi e modi dell’esperienza amorosa emergente all’atto grigio del disincanto, quando del grande fuoco restano solo le braci fredde.
[...] Mi abituai a rinchiudere in me tutto quel che provavo, a non formar che progetti solitarii; a non contare che su di me per attuarli, a considerare i consigli, l’interesse, l’assistenza e perfino la sola presenza altrui come impaccio ed ostacolo. Contrassi l’abitudine di non parlar mai di ciò che mi occupava, di sottomettermi alla conversazione solo come a una necessità importuna, ed animarla allora con una intonazione continuamente scherzosa che me ne diminuiva lo sforzo e mi aiutava a nascondere i miei veri pensieri. Da ciò una certa mancanza d’abbandono che ancora oggi i miei amici mi rimproverano, e una difficoltà a parlare sul serio che ogni volta stento a superare. Ne risultò nello stesso tempo un desiderio ardente d’indipendenza, una grande insofferenza dei legami che avevo intorno, un terrore invincibile di formarne dei nuovi. Non stavo bene che solo, e perfino ora l’effetto di tal disposizione d’animo è tale, che, nelle circostanze meno importanti, quando debbo scegliere tra due partiti, la figura umana mi turba, e il mio moto istintivo è di fuggirla per decidere in pace. Non avevo tuttavia il profondo egoismo che tal carattere pare annunziare: non mi curavo che di me, è vero, ma anche di me stesso molto fiaccamente. Portavo in fondo al cuore un bisogno di sentimento di cui non m’accorgevo, ma che, non trovando da soddisfarsi, mi faceva staccare successivamente da tutti gli oggetti che via via attiravano la mia curiosità. L’indifferenza su tutto s’era ancora fortificata per l’idea della morte, idea che mi aveva colpito molto giovane, e sulla quale non ho mai concepito che gli uomini riescano così facilmente a stordirsi. Avevo, a diciassette anni, veduto morire una donna attempata, il cui spirito d’una impronta notevole e bizzarra, aveva cominciato a sviluppare il mio. Questa donna, come tant’altre, s’era al principio della sua carriera, lanciata verso il mondo, che non conosceva, col sentimento d’una grande forza d’animo e con facoltà veramente potenti. Come tant’altre ancora, per non essersi piegata a convenienze fittizie, ma necessarie, aveva visto le sue speranze deluse, la sua giovinezza passar senza piacere; e la vecchiaia infine l’aveva raggiunta senza sottometterla. Viveva in un castello vicino a una delle nostre terre, malcontenta e solitaria, non avendo altra risorsa che il suo spirito, ed analizzando tutto col suo spirito. Per quasi un anno, nelle nostre inesauribili conversazioni, avevamo considerata la vita sotto tutti gli aspetti, e la morte sempre come termine di tutto; e, dopo aver tanto parlato di morte con lei, avevo visto la morte colpirla sotto i miei occhi.
Quest’avvenimento mi aveva riempito d’un senso d’incertezza sul destino, e d’una fantasticheria vaga che non mi lasciava. Leggevo a preferenza nei poeti ciò che ricordava la brevità della vita umana. Trovavo che nessuno scopo valeva la pena d’uno sforzo. È strano che questa impressione si sia indebolita precisamente a misura che gli anni si sono accumulati su di me. Forse perché nella speranza’c’è qualcosa d’incerto, e che quando essa sparisce dalla carriera dell’uomo, questa prende un carattere più severo, ma più positivo? Forse la vita sembra tanto più reale in quanto tutte le illusioni spariscono come la cima delle rocce si disegna meglio all’orizzonte quando le nuvole si dileguano?
Mi recai, lasciando Gottinga, nella cittadina di D***, residenza d’un principe che, come la maggior parte di quelli della Germania, governava con mitezza un paese poco esteso, proteggeva gli uomini illuminati che venivano a fissarcisi, lasciava a tutte le opinioni una libertà perfetta, ma che, ridotto per antica usanza alla società dei suoi cortigiani, non raccoglieva per ciò stesso intorno a sé che uomini in gran parte insignificanti o mediocri. Fui accolto in quella corte colla curiosità che ispira naturalmente ogni straniero che viene a rompere il cerchio della monotonia e dell’etichetta. Per qualche mese non trovai nulla che potesse attirare la mia attenzione. Ero riconoscente della cortesia che mi si mostrava; ma un po’ la timidezza m’impediva di profittarne, un po’ la stanchezza d’un’agitazione senza scopo mi faceva preferire la solitudine ai piaceri insipidi a cui mi si invitava a prender parte. Non odiavo nessuno, ma pochi mi ispiravano interesse; ora, gli uomini si senton feriti dall’indifferenza; l’attribuiscono a malevolenza o ad affettazione; non vogliono credere che qualcuno s’annoi semplicemente con loro. A volte cercavo di dominare la mia noia; mi rifugiavo in una profonda taciturnità: si prendeva questa taciturnità per disdegno. Altre volte, stanco io stesso del mio silenzio, mi lasciavo andare a qualche scherzo e il mio spirito, messo in movimento, mi trascinava oltre ogni misura. Rivelavo in un giorno tutte le cose ridicole che avevo osservate per un mese. I confidenti delle mie effusioni improvvise e involontarie non me n’erano grati, ed avevano ragione; perché esse erano determinate da bisogno di parlare, e non da confidenza. Avevo concepita nelle mie conversazioni con la donna che, per la prima, aveva sviluppate le mie idee, una insormontabile avversione per tutte le massime comuni e tutte le formule dogmatiche. Quando dunque sentivo la mediocrità dissertare con compiacenza sui principii più saldi, più incontestabili in fatto di morale, di convenienza o di religione, cose ch’essa mette abbastanza volentieri sulla stessa linea, mi sentivo spinto a contraddirla, non perché avessi adottato opinioni opposte, ma perché m’impazientivo di una convinzione così ferma e pesante. Non so del resto quale istinto m’avvertiva di diffidare di assiomi esenti di ogni restrizione, puri d’ogni sfumatura. Gli sciocchi fanno della loro morale una massa compatta e indivisibile, perché si mescoli il meno possibile alle loro azioni, e li lasci liberi nei particolari.
Mi formai presto, con tale condotta, una grande reputazione di leggerezza, d’ironia, di cattiveria. Le mie parole amare furono considerate come prova d’un’anima piena d’odio; i miei scherzi come attentati a tutto quel che c’è di più rispettabile.
Quelli di cui avevo avuto il torto di burlarmi trovavan comodo di far causa comune coi principii che m’accusavano di mettere in dubbio; perché, senza volerlo, li avevo fatti ridere alle spese gli uni degli altri, tutti si riunirono contro di me. Si sarebbe detto che, facendo notare i loro difetti, tradivo una confidenza che m’avevano fatta; si sarebbe detto che, mostrandosi ai miei occhi quali erano, avevano ottenuto da parte mia la promessa del silenzio: io non avevo la coscienza di aver accettato questo trattato troppo oneroso. Essi avevan trovato piacere a lasciarsi andare a briglia sciolta, io ne trovavo ad osservarli e descriverli; e quello ch’essi chiamavan perfidia a me pareva un compenso del tutto innocente e legittimo [...].
Si diffuse dunque, nel piccolo pubblico che mi circondava, una vaga inquietudine sul mio carattere. Non si poteva citare nessun’azione riprovevole; non si poteva neppure disputarmene qualcuna che pareva annunziare generosità o abnegazione; ma si diceva che ero un uomo immorale, un uomo poco sicuro: due epiteti felicemente inventati per insinuare fatti che s’ignorano, e lasciar indovinare quello che non si sa.
BENJAMIN CONSTANT, Adolfo, Firenze, Sansoni 1923.