1872 Tartarino
Tartarino vuol dire Provenza, estate, un pomeriggio pigro, una divisa di cacciatore – uose, schioppo e giberne — non più eroica che d’un prode il quale volesse mimare Bonaparte, impallinando qualche coniglio. Ma vuole dire anche, dentro quella divisa, l’inclinazione a trasognare amabilmente, offrendo a ogni colpo di sole o malizia d’increduli la stessa innocenza bambina e magnanima. Un innocuo colpo di spillo, dopo tutto, con cui la borghesia si stuzzica un dito, per ricordarsi, in piena gloria, delle proprie pantofole e berrette da notte...
La prima visita ch’io feci a Tartarino di Tarascona è rimasta nella mia vita una data incancellabile: sono passati dodici o quindici anni da quel giorno e la ricordo ancora come un fatto avvenuto ieri.
L’intrepido Tartarino abitava, all’entrata della città, la terza casa a destra sulla strada di Avignone. Una graziosa casetta tarasconese, col giardino davanti, un terrazzino dietro, le mura bianche e le persiane verdi: sulla porta una nidiata di ragazzi savoiardi che giuocavano alla bella insalatina, o addormentati al sole còlla testa appoggiata alla loro cassetta da lustrascarpe.
Una casa che non lasciava trasparire nulla al di fuori.
Chi avrebbe detto di trovarsi dinanzi alla dimora di un eroe? Ma non appena entrati, quale sorpresa! Dalle cantine alla soffitta tutto aveva un’aria eroica, compreso il giardino. Oh! il giardinetto di Tartarino! Non ve ne poteva essere uno uguale al mondo. Neppure un albero del paese, né un solo fiore del suolo di Francia, ma solamente piante esotiche: le acacie del caucciù, le palme del cocco, dei datteri e delle banane, cactus, fichi d’India, e un baobab, pensate, l’albero gigantesco i cui frutti vengono chiamati dai senegalesi il pane delle scimmie. C’era da credersi per un momento in un’oasi miracolosa nel centro dell’Africa a diecimila miglia da Tarascona.
È doveroso aggiungere però che tutte queste piante strane e meravigliose non erano esattamente delle loro dimensioni naturali; le palme del cocco e delle banane non erano più grandi dei cavoli o delle rape, e lo stesso baobab famosissimo viveva comodamente in un vaso da geranio. E che vuol dir ciò? mi direte: per Tarascona era già una cosa sorprendente, incomparabile, grandissima; e le persone ammesse la domenica ad ammirare il baobab di Tartarino ne ritornavano sbalordite.
Pensate quale doveva essere la mia emozione quel giorno attraversando il prodigioso giardino.
E questo non era nulla in paragone a quello ch’io dovevo provare giungendo nella stanza da lavoro dell’eroe, meraviglia di Tarascona, situata al piano terreno in fondo al giardino, e la cui finestra guardava precisamente il baobab.
Fucili, schioppi, archibugi, sciabole, pugnali, coltelli, archi, frecce, scudi, elmi, corazze... Armi, armi, strumenti terribili di offesa e di difesa, di tutti i tempi e di tutti i paesi. Di ciò era tappezzata la stanza.
Il sole vi rifletteva ferocemente i suoi raggi illuminando quell’acciaio di una luce sinistra, e facendo accapponare la pelle di più. Una cosa però rassicurava e calmava un po’ dopo il primo sbigottimento: una cert’aria d’ordine e di pulizia che regnava su quelle cose tremende. Tutto era ben disposto, pulito, lucidato; ed erano su tutto certi cartellini presso a poco come si vedono sopra i barattoli delle farmacie; e di tanto in tanto una scritta pendente metteva in guardia il visitatore: « Frecce avvelenate: non toccare! ». O altrimenti: «Armi cariche: pericolo di morte ».
Certo che senza quelle iscrizioni pochi avrebbero avuto la forza di rimanervi.
In mezzo a questa stanza, sopra un tavolinetto rotondo con tre piedini ed una gamba sola, era una bottiglia di vino santo, una borsa di tabacco, alcuni libri di viaggi famosi e di cacce: caccia all’orso, al falco, all’elefante... E dinanzi al tavolino un uomo era seduto, dai quaranta ai quarantacinque anni, piccolo, grassottello, rubicondo; in maniche di camicia e con certi mutandoni di flanella; una barbetta corta e degli occhietti sfavillanti: teneva in una mano un libro e nell’altra la grossa pipa da] coperchio d’ottone. Era immerso nella lettura di un impressionante racconto di cacciatori di belve, allungando il labbro inferiore e acuendo lo sguardo sul libro in un movimento fra terribile e stupefatto che dava alla sua aria di piccolo possidente tarasconese lo stesso carattere di ferocità bonaria che traspariva dappertutto nella casa.
Quell’uomo era Tartarino, Tartarino di Tarascona, l’intrepido, il grande, l’immenso Tartarino di Tarascona.
[...]
Eppoi... eppoi... bisogna bene comprendere un fatto che servirà molto in seguito ad illuminarvene la figura: c’erano nel nostro eroe due nature bene distinte. «Sento due uomini in me» diceva non ricordo più quale papa. Tartarino avrebbe potuto ripeterlo di se stesso. Egli aveva in sé l’anima di don Chisciotte, il suo slancio cavalleresco, lo stesso eroico ideale, l’identica sete del grande e del romanzesco, ma disgraziatamente non aveva il corpo del famoso idalgo; quel corpo ossuto e magro, un pretesto di corpo sul quale la vita materiale non faceva presa, capace di passare venti notti senza slacciarsi la corazza e di vivere due giorni con una manciatina di olive secche. Il corpo di Tartarino, invece, era un corpo vero e proprio, con moltissima ciccia, e sulla ciccia tre dita buone di grasso; pesantissimo, molto sensuale, morbido e languido, pieno di esigenze borghesi e di consuetudini casalinghe, il corpo corto e ventruto, per farla breve, dell’immortale Sancio Pancia.
Don Chisciotte e Sancio Pancia nella medesima persona?
Voi comprendete subito che razza di pasticcio ne debba venir fuori. Quali combattimenti! Quale strazio! Oh! il bel dialogo, di cui sarebbero andati pazzi Luciano o Saint–Evremond! Un dialogo fra Tartarino Chisciotte e Tartarino Sancio.
Tartarino Chisciotte, esaltandosi ai racconti di Gustavo Aimard, grida: «Vado!».
E Tartarino Sancio, al pensiero dei reumatismi, aggiunge:
«Resto!».
Tartarino Chisciotte, esaltato all’eccesso: «Tartarino, copriti di gloria!».
Tartarino Sancio, con grande flemma; «Tartarino, copriti di lana!».
Tartarino Chisciotte, esaltato all’eccesso: «Tartarino, copriti canna doppia! La spada! Le daghe! I pugnali! La fionda!». Tartarino Sancio, sempre più calmo: «Oh, i buoni farsetti a maglia, le pantofole, le panciere calde, i ginocchielli, i berretti da notte, le poltrone morbide e il fuoco a letto!».
Tartarino Chisciotte, fuori della grazia di Dio: «Una scure! Datemi una scure!».
Tartarino Sancio, suonando alla cameriera: «Rosalia, portami la cioccolata».
A questo punto Rosalia giunge con un’eccellente cioccolata calda, profumata, spumante, fumante, e certi pasticcini colla crema e la marmellata che fanno luccicare gli occhi a Tartarino Sancio il quale succhiandosi le labbra soffoca piano piano il grido di Tartarino Chisciotte.
Ed è proprio così che Tartarino di Tarascona non si è mai mosso da Tarascona.
ALFONSO DAUDET, Tartarino, Milano, Mondadori 1968.