1884 Des Esseintes
Des Esseintes vuole rifondarsi, farsi nuovo pezzo per pezzo, fino a costituirsi in unica pròtesi umana e macchina artificiale della sensibilità: autarchica macchina che si alimenti e viva dei propri rifiuti. Che poi, per far questo, debba per forza servirsi di materiali tratti dalla nemica natura, è il suo pietoso limite e la sua dannazione. Così nella sua assediata clausura, in un colore amaranto e viola, fra gemme, profumi, musiche, stoffe, «atlanti, erbari e rituali», egli tenta l’impossibile scommessa di risuscitare l’Iperbole, come gli dirà Mallarmé, «in un libro vestito di ferro». Finché un vento di pazzia se lo porta.
D’una famiglia ancora poco prima così numerosa da avere rappresentanti in quasi tutte le terre dell’Ile de France e della Brie, un solo rampollo ormai sopravviveva, il duca Giovanni: un gracile trentenne, anemico e nervoso, dalle gote incavate, gli. occhi d’un freddo azzurro metallico, il naso dilatato eppure diritto, le mani esili ed aride.
Per un interessante caso di atavismo l’ultimo discendente somigliava all’antico avo, a quello gentile; di quello aveva la moschetta d’un biondo slavatissimo e l’espressione ambigua, al tempo stesso stanca ed astuta.
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Abbattuto, scontento di tutto, sdegnato dell’insulsaggine delle idee scambiate e ricevute, diventava come quelli di cui parla Nicole che si sentono doler dappertutto. Arrivava a torturarsi continuamente da sé; a soffrire delle baie patriottiche e sociali, ammannite ogni mattina dai giornalisti; ad irritarsi, più che non ne valesse la pena, del successo che il pubblico onnipotente riserva sempre ad ogni costo alle opere senza idee e senza stile.
Già vagheggiava una tebaide da raffinato, un deserto non privo di comodi, un’arca senza traballii e riscaldata dove rifugiarsi lontano dal diluvio senza schiarita della umana stupidità.
Una sola passione, la donna, avrebbe potuto fargli accettare il disgusto che lo soffocava, di tutto; ma quella passione era anch’essa venuta a fine.
Ai banchetti della carne egli s’era accostato con l’appetito d’un uomo soggetto a subitanee nausee ed a bizzarri capricci, d’uno affetto da malacia, aggredito da fami disordinate ed improvvise; d’un uomo dal palato facile ad ottundersi ed a stuccarsi di tutto.
Al tempo che frequentava i nobilucci aveva preso parte a quei cenoni dove, alla frutta, donne alticce si mettono in libertà e, ribaltate, urtano del capo la tavola. Così pure aveva corso le quinte, palpeggiato attrici e cantanti; scontato la delirante vanità delle cattive attrici, venuta ad aggiungersi, come non bastasse, all’innata stupidità delle donne; aveva mantenuto donnine già celebri e contribuito alla fortuna di quelle agenzie che procacciano a chi li paga piaceri suscettibili da parte del cliente di contestazione.
Infine, satollo, stanco di quel lusso stereotipo, di quelle carezze sempre eguali, s’era tuffato nei bassifondi, nella speranza che il contrasto gli ridesse l’appetito, che la scarsa pulizia agisse da cantaride sui suoi sensi assopiti. Ma checché tentasse, un opprimente tedio lo accompagnava. Si accanì; ricorse alle pericolose carezze delle virtuose dell’erotismo; ma allora la sua salute se ne risentì, il sistema nervoso s’esasperò; già si sentiva la nuca e la mano tremare: ferma ancora quando stringeva un oggetto pesante, sussultava e s’inclinava quando l’oggetto era leggero, ad esempio un bicchierino. I medici che consultò lo spaventarono.
J. K. HUYSMANS, Controcorrente, Milano, Gentile 1944.