1880 Isabel Archer
Per nessuna figura di romanzo, forse, come per quelle di James si può dire che non v’è campione o scampolo che basti a restituirne anche il minimo aroma. Tanto esse si snodano attraverso affabulazioni flessuose e cifre nel tappeto e peripezie che sarebbero da Mille e una notte, se avvenissero altrove che nella coscienza. Figure smarrite in una camera di fate morgane, che cercano inutilmente la porta. Così di Isabel Archer, della sua giovinezza raggiante e minacciata, l’immagine superstite è d’un viso che in due, tre specchi un illusionista moltiplica senza fine.
Ralph, come dicevo, aveva voluto vedere da sé; ma mentre era impegnato in questa impresa aveva sentito ancora una volta che sciocco era stato a mettere in guardia la ragazza. Aveva giocato la carta sbagliata, ed ora aveva perso la partita. Non avrebbe visto niente, non avrebbe appreso niente; per lui ella avrebbe sempre portato una maschera. La linea da seguire per lui sarebbe stata quella di manifestare compiacimento per la sua unione, affinché in seguito, quando, secondo l’espressione di Ralph, fosse venuto tutto a galla, ella potesse avere il piacere di dirgli che era stato un asino. Avrebbe acconsentito volentieri a passare per asino pur di conoscere la situazione reale di Isabel. Attualmente, però, né gli rinfacciava le sue ubbie, né asseriva che la sua propria fiducia era giustificata; se portava una maschera, questa le copriva completamente il volto. C’era qualcosa di fisso e di meccanico nella serenità che vi era dipinta sopra; non era un’espressione, diceva Ralph; era una rappresentazione, era addirittura un manifesto pubblicitario. Aveva perduto il suo bambino; era un dolore, ma un dolore di cui quasi non parlava; su di esso c’era da dire più di quanto potesse dire a Ralph. Apparteneva al passato, d’altronde; era successo sei mesi prima ed ella aveva già deposto i segni del lutto. Sembrava condurre vita di mondo; Ralph sentiva parlare di lei come di persona avente una «incantevole posizione». Notava che lei faceva l’effetto di essere particolarmente degna di invidia, che presso molta gente si supponeva che fosse un privilegio anche conoscerla. La sua casa non era aperta a tutti, ed ella teneva una serata settimanale, a cui la gente non veniva invitata come niente fosse. Viveva con un certo fasto, ma bisognava far parte della sua cerchia per rendersene conto; perché non c’era niente che facesse trasecolare, niente che si potesse criticare, e nemmeno niente da ammirare nella vita quotidiana dei signori Osmond. Ralph, in tutto ciò, riconosceva la mano del maestro; sapeva infatti che Isa–bel non aveva il dono di saper produrre impressioni studiate. Gli faceva l’effetto di avere una gran voglia di movimenti, di gaiezza, di ore piccole, di lunghe scarrozzate, di stanchezza; una smania di venire intrattenuta, di venire interessata, di venire persino annoiata, di fare conoscenze, di vedere la gente di cui si parlava, di esplorare i dintorni di Roma, di entrare in relazione con alcune delle più ammuffite reliquie di quella vecchia società. In tutto questo c’era molto meno discriminazione che in quella sua brama di riuscire ad attingere lo svolgersi delle cose, sulla quale egli era stato solito di far dello spirito. C’era una specie di violenza in alcuni degli impulsi di lei, di grossolanità in alcune delle sue esperienze, che riusciva a sorprenderlo; gli sembrava addirittura che parlasse più in fretta, si muovesse più in fretta, respirasse più in fretta che prima del matrimonio. Era caduta senz’altro nell’esagerazione, lei che prima amava tanto la pura verità; e mentre una volta trovava grande godimento nel lieto discutere, nel giuoco intellettuale (mai appariva affascinante come quando, nel vivace ardore della discussione, riceveva un colpo schiacciante in pieno viso e se lo toglieva via come una piuma), ora sembrava pensare che non ci fosse niente su cui valesse la pena di dissentire o di trovarsi d’accordo. Una volta era stata curiosa, e adesso era indifferente; pure, nonostante la sua indifferenza, si dava da fare ora come non mai. Ancora snella, ma più bella di prima, non aveva acquistato gran maturità d’aspetto; pure c’era una grandiosità ed uno splendore nel suo modo di abbigliarsi che dava un tocco d’insolenza alla sua bellezza. Povera Isabel dal tenero cuore, da quale perversità era stata morsa? Il suo passo lieve si tirava dietro una massa di drappeggi; la sua testa intelligente sosteneva un’acconciatura maestosa. La ragazza libera, viva, si era fatta tutt’altra persona; ciò che egli vedeva era la bella dama che doveva rappresentare qualcosa. «Che cosa rappresentava Isabel?» si chiedeva Ralph; e non poteva rispondere altrimenti che dicendo che rappresentava Gilbert Osmond. «Santo cielo, che finzione!» esclamava allora costernato. E si smarriva nello stupore di fronte al mistero delle cose.
HENRY JAMES, Ritratto di signora, Firenze, Sansoni 1965.