1859 Oblomov
È toccato a pochi eroi il privilegio di battezzare col proprio nome un’inclinazione o indole proprie dell’universale. Ma Oblomov non è solo l’ignavo–tipo, l’ignavo biologico refrattario all’azione. È anche, nella sua bontà di fondo e abulia paralizzante, il ritratto in grigio d’una condizione della borghesia metropolitana russa al tempo della servitù della gleba. Con lunghi inverni e vetri assediati dalla nebbia e fuoco che langue nei caminetti e nei cuori. In attesa che giungano al parto le confuse e fatali gravidanze della storia.
Nel suo appartamento situato in via Gorochòvaja, in una di quelle case i cui abitanti sarebbero bastati a popolare una città di provincia, Il’jà Il’ìč Oblomov se ne stava, un mattino, sdraiato nel suo letto.
Di età sui trentadue o trentatré anni, di media statura, di aspetto piacente, con occhi grigio scuri, ma con un viso i cui lineamenti non esprimevano alcuna concentrazione per un’idea determinata. Il pensiero, a guisa di libero uccelletto, volteggiava su quel viso, svolazzava negli occhi, si soffermava sulle labbra semichiuse, si nascondeva tra le rughe della fronte per scomparire di colpo e allora su tutto il volto si diffondeva il grigiore uniforme dell’indifferenza. Indifferenza che dal viso passava nell’atteggiamento del corpo e persino nella pieghe della veste da camera.
A tratti, un’espressione di stanchezza o di noia adombrava il suo sguardo; ma noia o stanchezza non riuscivano, neppure per un attimo, a scacciare da quel volto l’indolenza che costituiva l’elemento fondamentale e dominante, non soltanto del viso ma di tutta l’anima, e l’anima riluceva apertamente e chiaramente negli occhi, nel sorriso, in ogni movimento del capo e delle mani. Un osservatore freddo e superficiale, dopo aver rivolto una fuggevole occhiata a Oblomov, avrebbe detto: «Dev’essere un buon diavolaccio, un semplicione!». Ma un osservatore più profondo e spinto da un senso di simpatia, dopo averlo guardato a lungo attentamente ed aver abbozzato un sorriso, si sarebbe allontanato. Il colorito del volto di Il’jà Il’ìč non era né rosso né scuro né decisamente pallido, ma incerto, o forse così pareva perché Oblomov era più vizzo di quanto non comportasse la sua età, o forse anche per mancanza di movimento o di aria pura, oppure per l’una e l’altra cosa insieme. In complesso, il suo corpo, a giudicare dal colorito opaco, eccessivamente bianco del collo, delle mani piccole e paffutelle, delle spalle molli, pareva troppo delicato per un uomo.
I suoi movimenti, anche quando era agitato, erano trattenuti da una certa mollezza e da un’indolenza non priva, nel suo genere, di grazia. Se su quel volto guizzava, proveniente dall’anima, un’espressione preoccupata, lo sguardo si annebbiava, la fronte si copriva di rughe e aveva inizio il giuoco dei dubbi, della tristezza, della paura, ma assai di rado quest’agitazione assumeva la forma di un’idea ben definita, e più raramente ancora si trasformava in un deciso proposito. Tutta l’agitazione risolveva in un sospiro, per dissolversi in un’apatica sonnolenza.
Come ben si addiceva la libertà dell’abito da casa ai tranquilli lineamenti del suo volto e alla delicatezza del suo corpo! Egli indossava una veste da camera di stoffa persiana, una vera veste orientale senza il minimo accenno europeo, senza nappe, senza velluto, senza vita, ma ampia al punto che Oblomov poteva comodamente avvolgersi in essa due volte. Le maniche, secondo l’immutabile moda asiatica, andavano sempre più allargandosi dai polsi alle spalle. Sebbene la veste da camera avesse ormai perduto la primitiva freschezza, e in alcuni punti la naturale lucentezza della stoffa si fosse mutata in un lustro di altro genere causato dall’uso, essa conservava pur sempre la vivezza dei colori orientali e la solidità del tessuto.
Quella veste da camera possedeva, agli occhi di Oblomov, inestimabili pregi: era morbida e pieghevole, leggerissima alle membra e, proprio come uno schiavo obbediente, si assoggettava docile al più piccolo movimento del corpo. Desideroso di stare comodo e in libertà, Oblomov girava per casa sempre senza cravatta e senza panciotto; calzava lunghe pantofole, morbide e ampie; si poteva essere certi che, quando egli si buttava giù dal letto, i piedi, senza neppure che lui li guidasse con lo sguardo, immancabilmente gli si andavano a infilar dentro da soli.
Lo star sdraiato non costituiva per Il’jà Il’ìč una necessità come poteva essere per un malato o per uno che volesse dormire, né un caso come per chi sia stanco, e nemmeno un piacere come per un pigrone; quella era la sua posizione naturale. Quando stava in casa – e vi era quasi sempre –rimaneva sdraiato e costantemente nella stanza dove lo abbiamo trovato, la quale gli serviva da camera da letto, da studio e da salotto. Il suo appartamento aveva altre tre camere, ma ben di rado egli vi gettava un’occhiata, se non al mattino – e neppure tutti i giorni –, allorché il servitore dava una scopatina allo studio, cosa che, appunto, non si effettuava giornalmente. In quelle stanze i mobili erano coperti dalle fodere e le tende si vedevano sempre abbassate.
La camera in cui stava sdraiato Il’jà Il’ìč appariva, a un primo sguardo, molto bene arredata. Vi si notavano uno scrittoio di mogano, due divani ricoperti di seta, graziosi paraventi in cui erano ricamati uccelli e frutti di fantasia, inesistenti in natura; si potevano vedere tende di seta, tappeti, alcuni quadri, oggetti di bronzo, di porcellana e una gran quantità di ninnoli molto carini.
Ma l’occhio esperto di un uomo di buon gusto, dopo aver rivolto un fuggevole sguardo a tutto quell’insieme, vi avrebbe notato soltanto il desiderio di mantenere, in qualsiasi modo, quel tanto di decorum richiesto dalle circostanze, pur di liberarsi da quella preoccupazione. Di questo soltanto, naturalmente, si era preoccupato Oblomov, allorché aveva arredato il suo studio. Chi avesse avuto gusti di una certa raffinatezza non si sarebbe accontentato di quelle massicce sedie di mogano, prive di grazia, e di quelle instabili étagères. Il bracciolo di un divano era piegato all’ingiù e il legno era in parecchi punti scollato.
La stessa caratteristica si notava nei quadri, nei vasi e nei ninnoli. Anche il padrone, del resto, guardava l’arredamento dello studio con occhio freddo e distratto, come se il suo sguardo chiedesse: «Chi ha trascinato e messo qui tutta questa roba?». A motivo di tale gelido atteggiamento di Oblomov verso le proprie cose e forse dal comportarsi ancora più freddo del suo servitore Zachàr, l’aspetto dello studio con maggiore attenzione, colpiva per il disordine e il senso di abbandono che vi regnavano.
Alle pareti, accanto ai quadri, pendevano, a guisa di festoni, regnatele intrise di polvere, gli specchi invece che a riflettere le cose avrebbero benissimo potuto servire da tavolette per prendere appunti, tanta era la polvere che li copriva. I tappeti erano qua e là inzaccherati, sul divano giaceva un asciugamano dimenticato, e raramente accadeva che sul tavolo non si trovasse ancora il piatto della cena della sera precedente, con la saliera e un ossicino rosicchiato e briciole di pane sparse qua e là.
Se non ci fossero stati questo piatto e la pipa ancora fumante abbandonata sul letto su cui giaceva sdraiato il padrone di casa in persona, si sarebbe potuto pensare che in quella casa non ci abitasse nessuno, tanto ogni cosa era sepolta sotto uno strato di polvere, scolorita e priva, in generale, della presenza di qualsiasi traccia di vita umana. È vero che sopra uno scaffale si trovavano alcuni libri aperti e vi era gettato un giornale, e che sullo scrittoio si poteva vedere un calamaio con relativa penna, ma sulle pagine aperte e ingiallite di quei libri si stendeva un fitto strato di polvere, così che era facile capire che da un pezzo i libri erano stati buttati là; il giornale portava la data dell’anno precedente e, quanto al calamaio { se vi si fosse intinta la penna, ne sarebbe forse uscita ronzando una mosca spaventata.
IVAN GONCIAROV, Oblomov, Milano, Mursia 1965.