1840 Auguste Dupin
Mesmeriche Ligeie, cavalli a galoppo nella tempesta, specchi abitati da ombre, Morti Rosse e Pesti truccate da re... Ma l’iconografia gotica, più che un’eredità di spaventi scolastici è in Poe il suo stesso cardiogramma, mentre soccombe al mal di mare dell’invisibile. Lui che pretendeva di mettere le briglie al caos, dì costruire una poesia come si costruisce, con regolo e filo a piombo, una casa... E allora si veste da Auguste Dupin, e con l’aiuto dell’ultimo pezzetto di cervello che l’alcool gli ha risparmiato, traccia su una lavagna la grande superstite sezione aurea di una verità di ragione.
Trovandomi ad abitare Parigi durante la primavera e parte dell’estate del 18..., mi capitò di farvi la conoscenza di un certo Monsieur C. Auguste Dupin. Questo giovane signore discendeva da una famiglia ottima, anzi illustre, ma per un susseguirsi di vicende sfortunate era stato ridotto in un tale stato di povertà che l’energia del suo carattere si era piegata sotto i colpi della sorte, ed egli aveva cessato sia di interessarsi alle cose della società, sia di tentare il ricupero delle proprie ricchezze. Grazie alla bontà dei suoi creditori gli restava ancora un piccolo avanzo del suo patrimonio, e dal reddito che gliene proveniva egli si destreggiava mediante una rigorosa economia a procacciarsi il necessario per vivere senza curarsi di possedere il superfluo. A dire il vero, i libri costituivano il suo unico lusso, e di libri a Parigi vi è abbondanza.
Il nostro primo incontro ebbe luogo in un’oscura bottega di libraio della via Montmartre, dove il caso che entrambi fossimo alla ricerca dello stesso volume raro e pregevole, ci legò subito di reciproca simpatia, e così ci rivedemmo parecchie volte. Io mi interessavo moltissimo alla sua breve storia familiare, di cui egli mi forniva tutti i più minuti particolari con quel candore proprio di ogni francese, quando la sua persona è l’argomento principale del discorso. Mi stupiva inoltre l’enorme vastità delle sue letture, e mi sentivo soprattutto vivificare lo spirito dall’appassionato fervore e dalla vivida freschezza della sua immaginazione. Cercando quel che allora cercavo a Parigi, capivo che la compagnia di un uomo simile sarebbe stata per me un tesoro inestimabile, e schiettamente gli confidai questa mia sensazione. Alla fine decidemmo che avremmo vissuto assieme, durante il mio soggiorno parigino, e, poiché le mie condizioni di fortuna erano alquanto migliori delle sue, fui in grado di affrontare la spesa di affittare e ammobiliare, con uno stile che si adattava alla malinconia piuttosto stravagante delle nostre due indoli, una dimora grottesca, ròsa dal tempo, da anni disabitata per certe superstizioni sulle quali non ci curammo di indagare e quasi cadente in rovina, in un tratto appartato e deserto del Faubourg Saint–Germain.
Se le abitudini della nostra vita quotidiana in quella casa fossero state note alla gente, certo ci avrebbero giudicati due pazzi, benché, probabilmente due pazzi di natura inoffensiva. La nostra clausura era assoluta, non ammettevamo visitatori. Infatti, avevamo tenuta gelosamente segreta ai miei ex soci la località del nostro ritiro, ed erano oramai molti anni che Dupin aveva cessato di conoscere e di essere conosciuto a Parigi. Esistevamo entro noi stessi soltanto.
Era un capriccio della fantasia del mio amico (come diversamente lo potrei chiamare?) essere innamorato della notte per amor della notte, e a questa sua bizarrerie, come a ogni altro ghiribizzo suo, io finii per indulgere senza reagire, lasciandomi andare completamente, con assoluto abandon, ai suoi estrosi arzigogoli. La bruna divinità non poteva abitare con noi ininterrottamente, ma noi solevamo imitarne la presenza: alle prime luci del mattino chiudevamo tutte le massicce imposte del nostro antico edificio e accendevamo due ceri dall’acuto profumo, che emanavano un chiarore debolissimo, spettrale. In quella penombra così artificialmente creata, le nostre anime s’immergevano nei sogni: leggevamo, scrivevamo, conversavamo, finché la pendola ci avvertiva che l’oscurità vera era venuta. Allora uscivamo sottobraccio per le strade, continuando a discorrere degli argomenti della giornata, oppure vagavamo di qua e di là sino a tarda ora, ricercando in mezzo alle luci abbaglianti e le tenebre della città popolosa quella inesauribilità di iperlucidezza mentale che sola può derivare dallo spirito di osservazione in istato di quiete.
In quelle occasioni non potei fare a meno di notare e di ammirare in Dupin un’acusa capacità analitica (sebbene già fossi preparato a scoprirla dalla ricchezza del suo potere di ideazione). Pareva anzi che egli prendesse un vivo piacere ad esercitarla, se non propriamente ad ostentarla, e non esitava a confessarmi la soddisfazione che ne derivava. Si vantava con me, con un piccolo riso soffocato, che la maggior parte dell’umanità, per quel che lo riguardava, portava nel petto finestre aperte, e soleva far seguire simili asserzioni da prove dirette e stupefacenti della sua intima conoscenza dell’animo mio. In quei momenti i suoi modi erano freddi, astratti: gli occhi assumevano un’espressione vacua, mentre la voce, di solito generosamente tenorile, si elevava a un tono acuto che sarebbe potuto apparire irritante se non fosse stato per la determinazione e l’assoluta chiarezza di quanto veniva da lui enunciato. Osservandolo in quegli stati d’animo, spesso mi sprofondavo in meditazioni sull’antica filosofia dell’anima bipartita, e mi divertivo a fantasticare di un Dupin duplice, il creativo e il risolutivo.
EDGAR ALLAN POE, «I delitti della via Morgue» in I racconti del mistero, Milano, Rizzoli 1964.