1919 II barone de Charlus
Strabiliante istrione, suddito e re nei gironi di Sodoma, Palamède vi si aggira a passi di lupo in caccia di lifts e chauffeurs, con occhi sfacciati e fuggitivi, ma con un cuore, dopotutto, innocente. Pietoso specchio dove Marcel in segreto si ama, si disprezza e si riconosce, invecchiato, offeso e dannato. Rinunziando una volta tanto a ingannare gli anni, come s’incanta un serpente, con la musica d’un flauto.
Saint–Loup mi parlò della giovinezza, ormai passata da un pezzo, dello zio. Ogni giorno portava delle donne in una garzoniera che aveva in comune con due suoi amici, belli come lui, e chiamati per questo «le tre Grazie».
«Un giorno, uno degli uomini oggi più in vista del Faubourg Saint–Germain, come avrebbe detto Balzac, ma che in un primo periodo piuttosto increscioso dimostrava gusti un po’ bizzarri, aveva chiesto a mio zio di andare in quella garzoniera. Ma, appena arrivato, invece che alle donne si mise a fare una dichiarazione a mio zio Palamède. Mio zio fece finta di non capire, andò a chiamare con un pretesto i due amici, tornarono, presero il colpevole, lo spogliarono, lo picchiarono a sangue e, con un freddo di dieci sotto zero, lo buttarono fuori a calci; fu trovato mezzo morto, tanto che la giustizia fece un’inchiesta cui il poveretto faticò moltissimo a farla rinunciare. Mio zio non arriverebbe più, oggi, a punire una persona in modo così crudele; e tu non immagini quanti popolani, lui così altero con la buona società, prende a benvolere e protegge, salvo a esser ripagato con l’ingratitudine. Ora è un domestico che l’ha servito in un albergo e cui trova un posto a Parigi; ora un contadino cui fa imparare un mestiere. È questo anzi il suo lato carino a contrasto con il lato mondano.» Saint–Loup apparteneva infatti a quel genere di giovani mondani, situati ad una altezza dove sono potute germogliare espressioni come: «Quel che ha, anzi, di molto carino, il suo lato più carino»: semi piuttosto preziosi che rapidamente producono un modo di concepire le cose per il quale non si fa più conto di se stessi, e moltissimo del «popolo»; insomma, tutto l’opposto dell’orgoglio plebeo. «Sembra impossibile come mio zio dava il tono, come faceva legge per tutta la società, in gioventù. Lui, in ogni circostanza, faceva quel che gli riusciva più gradevole, più comodo, ma immediatamente gli snobs lo imitavano. Se a teatro aveva avuto sete e si era fatto portare da bere in fondo al palco, la settimana dopo i salottini dietro a ogni palco si riempivano di rinfreschi. Un’estate molto piovosa, in cui aveva un po’ di reumatismi, si era ordinato un soprabito d’una vigogna morbida ma calda, che serve solo a fare coperte da viaggio, e di cui aveva rispettato le righe azzurre e arancione. I grandi sarti si videro ordinare immediatamente dai clienti soprabiti blu con frange, molto pelosi. Se, per una ragione qualsiasi, desiderava togliere ogni carattere di solennità ad una cena in un castello dove era andato a passare una giornata, e per sottolineare questa sfumatura non aveva portato abiti da sera e si era messo a tavola in abito da pomeriggio, questo diventava di moda per cenare in campagna. Se, per mangiare un dolce, si serviva, anziché del cucchiaio, d’una forchetta o di una posata di sua invenzione, ordinata apposta a un orefice, o delle dita, non era più permesso fare altrimenti. Aveva avuto voglia di risentire certi quartetti di Beethoven ( perché pur con tutte le sue idee strampalate non è affatto stupido, ed è molto intelligente) e aveva fatto venire degli artisti a suonarli ogni settimana, per lui e qualche amico. Quell’anno il colmo dell’eleganza fu di riunire poche persone a ascoltare musica da camera. D’altronde, credo che non si sia annoiato nella vita. Bello com’era, ne deve aver avute di donne! Quali, del resto, non potrei dirvelo esattamente, perché è molto discreto. Ma so che ha molto ingannato la mia povera zia. Il che non toglie che fosse delizioso con lei, che lei lo adorasse, e che lui l’abbia pianta per anni. Quando è a Parigi, va ancora al cimitero quasi ogni giorno.»
Il mattino successivo al giorno in cui Robert mi aveva parlato così di suo zio, mentre, del resto inutilmente, lo stava aspettando, come passavo solo davanti al Casino tornando all’albergo, ebbi la sensazione d’essere guardato da qualcuno non lontano da me. Voltai la testa e scorsi un uomo sulla quarantina, molto alto e piuttosto grosso, dai baffi nerissimi, e che, battendosi nervosamente una giannetta sui pantaloni, fissava su di me due occhi dilatati dall’attenzione. Essi erano attraversati a tratti in tutti i sensi da sguardi estremamente attivi come ne hanno davanti a una persona che non conoscono solo uomini cui, per un motivo qualsiasi, essa ispira pensieri che non verrebbero a nessun altro: per esempio, dei pazzi o delle spie. Lanciò su di me una suprema occhiata, a un tempo ardita, prudente, rapida e profonda, come un ultimo colpo sparato al momento di prendere la fuga, e, dopo essersi guardato tutt’intorno, prendendo improvvisamente un’aria distratta e altezzosa, con una brusca virata di tutta la persona si volse verso un manifesto e si sprofondò nella sua lettura, canticchiando un motivo e accomodandosi la rosa muscosa che portava all’occhiello. Tirò fuori di tasca un taccuino, su cui ebbe l’aria di annotare il titolo dello spettacolo annunziato, guardò due o tre volte l’orologio, si abbassò sugli occhi un cappello di paglia nero e ne prolungò la falda con la mano messa a visiera come per vedere se qualcuno arrivasse, fece il gesto di malumore con cui si crede di far vedere che si è stufi d’aspettare, ma che non si fa mai quando si aspetta realmente; poi, gettando indietro il cappello e lasciando vedere i capelli tagliati corti a spazzola che ammettevano però di qua e di là ciocche ondulate piuttosto lunghe, sbuffò rumorosamente, come fanno le persone che hanno non già troppo caldo, ma il desiderio di mostrare che hanno troppo caldo. Pensai a un topo d’albergo che, avendo forse già notato nei giorni precedenti la nonna e me e preparando qualche colpo, si fosse accorto che lo avevo sorpreso mentre mi spiava; per sviarmi, forse cercava soltanto, con il suo nuovo atteggiamento, di esprimere distrazione e indifferenza, ma lo faceva con un’esagerazione così aggressiva che il suo scopo sembrava fosse, oltre che di dissipare i miei probabili sospetti, di vendicare un’umiliazione che gli avessi inflitta a mia insaputa, di darmi l’idea non già che non mi avesse visto, ma che ero un oggetto troppo poco importante per attirare l’attenzione. Inarcava il busto con aria da smargiasso, stringeva le labbra, si rialzava i baffi e insinuava nello sguardo qualcosa d’indifferente, di duro, di quasi ingiurioso. Così la singolarità della sua espressione m’induceva ora a crederlo un ladro, ora un pazzo. Tuttavia, il suo modo di vestire, estremamente curato, era molto più serio e molto più semplice di quello di tutti i bagnanti che vedevo a Balbec, e rassicurante per la mia giacca cosi spesso umiliata dal candore smagliante e banale dei loro abiti da spiaggia. Ma la nonna mi veniva incontro, facemmo un giro insieme, e un’ora dopo la aspettavo davanti all’albergo, dov’era rientrata un momento, quando vidi uscire la signora di Villeparisis con Robert di Saint–Loup e lo sconosciuto che m’aveva guardato così fissamente davanti al Casino. Con la rapidità d’un lampo il suo sguardo mi attraversò, come al momento in cui l’avevo scorto per la prima volta, e, come se non mi avesse visto, tornò a situarsi un po’ basso, davanti ai suoi occhi, smussato, come lo sguardo neutro di chi finge di non veder nulla al di fuori e non è capace di dir nulla al di dentro, lo sguardo che esprime solo la soddisfazione di sentirsi intorno le ciglia che allarga con la sua rotondità beata, lo sguardo devoto e mellifluo di certi ipocriti, lo sguardo fatuo di certi sciocchi. Vidi che aveva cambiato abito. Quello che portava adesso era ancora più scuro; e, senza dubbio, la vera eleganza è meno lontana dalla semplicità che non quella falsa; ma c’era dell’altro: da vicino si sentiva che, se il colore era quasi completamente assente da quegli indumenti, non era perché colui che lo aveva bandito da essi vi fosse indifferente, ma piuttosto perché per una ragione qualsiasi se lo interdiceva. E la sobrietà che lasciavano apparire sembrava di quelle che vengono dall’obbedienza a un regime più che dalla mancanza di ghiottoneria. Un filo di verde scuro si armonizzava, nella stoffa dei pantaloni, alla riga dei calzini, con una raffinatezza che svelava la vivacità di un gusto altrove dominato e al quale quell’unica concessione era stata fatta per tolleranza, mentre una macchia rossa sulla cravatta era impercettibile come una libertà che non si osi prendere.
«Come state? vi presento mio nipote, il barone di Guermantes» mi disse la signora di Villeparisis, mentre lo sconosciuto, senza guardarmi, borbottando un vago «Felicissimo», che fece seguire da un: «hum, hum, hum», per dare alla sua cortesia qualcosa di forzato, e, piegando il mignolo, l’indice e il pollice mi tendeva il medio e l’anulare, privi di anelli, che io strinsi sotto il suo guanto di Svezia; poi, senza
aver alzato gli occhi su di me, si volse verso la signora di
Villeparisis.
«Dio mio, dove ho la testa!» disse lei. «Ti ho chiamato
barone di Guermantes. Vi presento il barone de Charlus. Del resto, non è un grande errore» soggiunse, «sei sempre un Guermantes, vero?»
MARCEL PROUST, Alla ricerca del tempo perduto – All’ombra delle fanciulle in fiore, Torino, Einaudi 1949.