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Ma stiamo insieme?

In cuffia suona Virginiana Miller

con Anni di piombo

Era il 18 ottobre 2002, avevo diciotto anni. Mi avevano appena consegnato la patente – ce l’ho fatta, quella maledetta salita partendo da fermo e senza poter usare il freno a mano, l’equilibrio fra acceleratore, freno e frizione, a quei tempi l’incubo degli incubi, l’equilibrio fra pressione, spinta, accelerazione, controllo e sensibilità, tutta roba che tornerà, in altre forme, con altre motivazioni, per altri scopi, ma tornerà. E mi sarà utile.

La patente era quella rosa, quella antica, quella ripiegata tre volte, quella che ho ancora nel mio portafogli, con la stessa foto di allora. Incredibile, ero al settimo cielo, fiero, entusiasta, avevo compiuto un’impresa epica. “Dopo di me” pensavo, “chi altro può riuscirci?”

Mi sentivo un uomo, anche se i miei capelli erano lunghi, che dico, lunghissimi, come quelli di una donna, e il mio sorriso pulito, pulitissimo, come quello di un bambino. C’era una Y10 ad attendermi, già vecchia di mille anni, mezza rotta, verde bottiglia, con la vernice un po’ sbiadita e mangiucchiata e l’alcantara interno consumato. Praticamente un rottame, ma per me era come la DeLorean di Marty McFly in Ritorno al futuro: magica, irripetibile.

Il 25 ottobre, una settimana dopo, andai a prendere a casa Francesca, la mia Jennifer Parker... Lei era bionda, sorridente, sexy e più grande di me, praticamente un mostro terrificante per un diciottenne finto-fico qual ero io. Lei, che sarebbe diventata una cantante professionista, all’epoca, oltre a cantare in giro per localetti soul, insegnava danza moderna e funky, e la pagavano per dipingere le vetrine dei negozi con quelli che io chiamavo “graffiti da vetro”, in pratica una writer dei cristalli.

Quella sera ero agitato e nervoso. Avevo il cuore in gola e lo stomaco sottosopra, ma ero eccitato, eccitato da morire all’idea di vederla, di andarla a prendere con la DeLorean, al punto che la notte non avevo chiuso occhio. Arrivato sotto casa sua, incrociai le dita, e quando lei uscì dal portone iniziarono a sudarmi le mani. Ricordo di aver pensato che era troppo bella per me, e presi a cercare qualcosa di fico da dire nel tragitto fino al pub... Ma in quei momenti non puoi essere fico, semplicemente perché sei goffo, non per altro. E infatti ricordo d’aver detto un sacco di cazzate senza senso.

Ricordo anche che, non appena entrò in macchina, la riempì con il suo profumo al cocco. Ah... Lo sento ancora oggi quando ripenso a lei, aveva l’abitudine di metterne sempre una goccia sul collo, su quel suo fantastico vellutato collo bianco, e quel profumo, da allora, è rimasto perfettamente nitido qui dentro, dove sto battendo ora con la mia mano.

All’epoca mi perdevo anche sotto casa. Guidavo un po’ a cavolo, dissimulando nervosismo con la mia Marlboro fra le dita e l’atteggiamento da duro, da quello che la sa lunga, ma a diciotto anni non puoi saperla troppo lunga, perché sennò c’è qualcosa che non va. A me, di cose che non erano andate, ce n’erano state, ma non mi avevano ancora tolto la spontaneità e l’ingenuità – e oggi scopro che forse non me l’hanno davvero tolta mai.

Ero lì che cercavo di seguire l’itinerario che avevo imparato a memoria il giorno prima, che portava a un pub (da sfigati) prima, e al Gianicolo (da sfigati) dopo. Qualsiasi cambiamento di programma m’avrebbe messo nei casini, guidavo impacciato e a scatti, ma i miei capelli erano lunghi, lunghissimi, e c’era lei seduta al mio fianco, bellissima come solo il primo amore sa essere, col suo profumo al cocco.

Ci volle poco a comprendere che la strada non l’avevo memorizzata poi così bene, bastò giusto un attimo, il tempo di vederla nella sua maestosa malignità: una maledetta salita, ripida, tanto tanto ripida. Pregai di non trovare intoppi salendo, ma davanti a me una macchina rallentava, rallentava tanto, rallentava troppo, e di conseguenza dovevo farlo anch’io. Ovviamente, non cambiai la marcia quando dovevo, lasciai la frizione troppo presto, poi inchiodai improvvisamente. Insomma, quel dannato equilibrio che mi aveva consegnato la patente andò a farsi benedire, e in un lampo era fatta: la DeLorean si spense nel bel mezzo della salita, col mio primo amore biondo accanto.

Non avevo il coraggio di guardarla negli occhi, ma lei sì, mi guardò e rise, e, mentre io sudavo in cerca di giustificazioni, mi fece: «Rilassati, sei bellissimo!». Inutile sottolineare che con quella frase non mi disse che ero bello, ma che le piacevo, e per me contava solo quello.

Il primo bacio fu proprio al Gianicolo, un paio d’ore dopo. Non ricordo che altro successe, o forse non lo voglio dire nemmeno a me stesso, perché le cose più belle non riusciamo mai a dirle, nemmeno a noi stessi, ed è fantastico che sia così... Ma ricordo che era magia, ero su Marte, o su Venere, sì, insomma, non ero in questo, di mondo, era un altro pianeta, era volare, leggeri.

«Ma stiamo insieme?» le domandai il giorno dopo, al telefono. A distanza di anni mi confessò che quella era stata la domanda più bella che le avessero mai fatto, «tanto folle, tanto sincera, tanto dolce, spiazzante, da farti innamorare all’istante», così la descrisse. Insieme abbiamo volato per un paio di anni, e il profumo era sempre lo stesso. Cocco. Poi è finita, perché eravamo troppo giovani, e avevamo bisogno di scoprire ancora troppe cose, soprattutto io.

Dieci anni dopo, di anni ne avevo ventotto e giravo con un CLK Cabrio blu notte, settantamila euro di nulla, sedili in pelle color crema, tutto meno che una DeLorean. Ray-Ban a specchio e il mondo ai miei piedi, la vita era quella di aperitivi e cene mondane, gente “bene”, gente “sociale”, locali “giusti”. Le foto di quei giorni, riguardandole ora, mi ricordano i ritratti di quei pugili strapagati e pieni di anfetamina in balia dell’avversario, in un angolo, in attesa che qualcuno, con un po’ di coscienza, se ne renda conto e getti la spugna. Chi mi circondava non era interessato al “perché”, ma solo al “come”, o al “quanto”, pochissime salite e molte discese, troppe, e sbadabam, l’equilibrio è andato a farsi benedire di nuovo, ma questa volta davanti a me c’era una discesa, con l’inevitabile botto addosso al muro, forte e significativo. E, questa volta, accanto a me non c’era nessuno che mi dicesse: “Rilassati, sei bellissimo!”.

Oggi giro con una Smart un po’ scassata, ma in fondo, pensandoci, non è male. In fondo, è quello che mi posso permettere. Grigia, come certe notti, rigata, come certi cuori, ma va bene, va bene... Mi perdo ancora sotto casa, e vado nel panico quando sono agitato o emozionato. Dissimulo l’agitazione raccontando barzellette davvero brutte. E rispondo a domande che non mi vengono poste. Ma il sorriso, a quanto pare, è ancora quello di quando avevo diciott’anni, pulito.

Sto rinunciando a ricercare spasmodicamente l’equilibrio, sono passato al cambio automatico. E, tempo fa, precisamente lo scorso 23 giugno, ho sentito di nuovo il profumo di cocco, e mi sono innamorato perdutamente, all’improvviso, ancora una volta, di una Jennifer Parker, LA Jennifer Parker, che poi è sparita, chissà in quale luogo, chissà in quale epoca... Eppure, io mi innamorerei di lei ancora miliardi di volte. Mi innamorerei di te ancora, ancora e ancora, Mary! Nello stesso travolgente modo. E lo rifarei per il resto della vita. Pure se, per il resto della vita, fossi destinato ad aspettarti. A cercarti. A perderti. A perdermi. Perché in fondo, se volessi ironizzare, se fossi nelle condizioni di farlo, ecco, direi che conoscerti non è stato un granché: ora so che non sarà più come prima, che non potrò più accontentarmi. Ora so che cercherò i tuoi occhi negli occhi del resto del mondo.

E verrei a prenderti con un cavallo bianco. Alato. Lo stesso di sempre. Come ho già fatto milioni di volte... Oppure in braccio, come farebbe qualunque principe azzurro che si rispetti. E sbaglierei ancora strada, ma alla fine ti porterei in un pub da sfigati, e al Gianicolo. E poi sulla spiaggia. E ti bacerei ancora, sotto le stelle, ché baciarsi sotto le stelle, di notte, in riva al mare, non è roba da adolescenti, è la cosa più bella del mondo. È semplicemente il modo migliore di vivere la nostra vita. E adesso lo so, Mary. Finalmente lo ricordo...