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Credi nel tuo cuore!

In cuffia suona All Time Low

con Remembering Sunday

Venerdì 15 dicembre 2015

«Ciao, Mia, come stai?»

«Bene, cazzo, come dovrei stare? Tu, piuttosto! Tu, come stai?»

«Me la cavo, Mia, cerco di stare bene...»

«Oh, non te la devi cavare, devi farcela, devi stare bene, cazzo! Se vuoi veramente una cosa, devi alzare il culo e provare a prendertela. Subito. Senza se e senza ma. Fosse pure in capo al mondo. Servisse tutta l’energia che hai. Solo quando le avrai tentate tutte, ma proprio tutte, maturerai il cazzo di diritto di lamentarti. Quindi tu non devi cavartela, e non devi disperare. Vatti a prendere quello che vuoi! Su!»

«Quello che voglio non so dov’è... O forse quello che voglio non vuole me...»

«Attenzione, ragazzo, attenzione!» Alza la mano a paletta come un vigile urbano. «A volte crediamo di volere qualcosa, ma invece vogliamo altro... Attenzione! Il tizio in disparte, taciturno, con la barbetta incolta, hai presente? Quello in un angolo, quello che ti fissa col suo cazzo di sguardo profondo, con l’occhio socchiuso, mentre beve scotch, quello che ti pare stia per rivelare il mistero dell’universo, ecco... In realtà, il più delle volte, non parla solo perché non ha proprio un cazzo da dire!» Fa un’espressione con gli occhi che sta per: “Riesci a seguirmi?”. La fisso, e sorridendole le confermo di seguirla... «Guarda la tua vita, ragazzo, osservala, sentila davvero! So che puoi farlo. L’ho letto nei tuoi occhi. Io ho fiuto...» dopo aver ripetuto questa frase, per l’ennesima volta, continua: «Va’ oltre, guarda bene, non fermarti alla barbetta incolta e allo sguardo profondo...».

Poche battute le sue, nei nostri incontri di Villa Pamphilj. Sempre molto crude e illuminanti.

Ma questa sera è diverso, non ha il solito libro con sé, pare sia lì solo per aspettare me. Se ne sta sulla panchina con i suoi vestiti di mille colori, uno sopra l’altro, lo scialle, il cappello e l’ombrello, per ripararsi dalla pioggia.

«Come mai non hai il libro, oggi?» le chiedo.

«Ragazzo, ho letto tanto negli ultimi mesi... Ora è il momento di fare altro.»

«Cosa, Mia?»

«Ho ottant’anni, non mi resta molto da vivere. Non più di cinquanta, sessant’anni...» Sorrido alla sua battuta, lei incassa il sorriso senza battere ciglio e va avanti: «Non posso permettermi di passare troppo tempo nello stesso posto, il mondo è pieno di cose meravigliose da osservare: luoghi, persone...».

Il termine che usa, “osservare”, ora so che non è a caso...

«Quindi tu osservi e basta...»

«E basta?» Sghignazza, con una punta di sarcasmo. «Comunque... non siamo qui per parlare di me. Ti ho portato una cosa, è il mio regalo per te.» Ha un pacchetto legato con uno spago in una mano, sembrano un mucchio di lettere in buste di carta, e un foglio ripiegato nell’altra, è un biglietto, che mi porge: «Leggilo quando sarai a casa. E le lettere, ecco... sono tue, ora!».

Prendo il foglio e lo metto insieme alle lettere nella tasca del K-Way.

Poi la guardo, con malinconia: «E adesso?».

«E adesso va’, adesso va’!»

La fisso e so, sento con certezza, che non la vedrò mai più. Vorrei abbracciarla, ma decido di fargliene anch’io uno di regalo, perché so che non abbracciarla, nonostante lo desideri fortemente, è il dono più bello che io possa farle.

«Ciao, Mia, ciao...»

«Ciao...» Mi rivolge uno di quei suoi sorrisi rari, sinceri, pieni di storia, e sudore. Pieni di vita...

Io e Mia abbiamo scambiato pochissime parole in questi mesi, non so assolutamente nulla di lei, ma ci siamo guardati e osservati molto. Con profondità. Senza inganni. Ho l’impressione che abbia capito più lei di me, in così poco tempo, che io stesso da quando sono nato. E l’ha fatto osservando i dettagli, i movimenti, il mio modo di gesticolare. I miei occhi...

Appena rientro in casa, mi spoglio e apro il foglio. E poi le lettere. Leggo tutto. Tutto. Quello che leggo è bello, e commovente. E incredibile. Le parole di Mia, che in realtà scopro solo ora chiamarsi Lucia, mi fanno vibrare il cuore. Hanno il sapore di qualcosa di antico e meraviglioso. Hanno il sapore della vita e dell’amore. E mi emozionano terribilmente.

Sei bella. Nei tuoi occhi c’è la bellezza di una donna che ha vissuto la propria vita mettendoci sempre il cuore. Senza trucchi. Senza inganni. E quando è così si vede, perché non è la solita bellezza, quella che poi passa, è una cosa diversa, è una luce, un piccolo segno, una fiamma. Una scintilla. Una magia. Ecco, quando è così non è solo bellezza. È poesia...

Nello sguardo di una donna che conosce l’amore, si posa tutta la grazia del mondo. Ciao, piccola meravigliosa Lucia, ciao...

Vado sotto la doccia e continuo a pensarci. Al regalo che ha voluto farmi.

Quando esco dal bagno infilo un paio di jeans, una T-shirt bianca, e cammino scalzo, avanti e indietro per casa, leggendo e rileggendo ancora le parole di Mia, di Lucia...

Mi distoglie il campanello.

«Valeria!»

«È finita, ho chiuso con Marco...» Lo dice mentre entra in casa.

«Ah... Ma dài...!?» Esito un attimo. «Vale... mi dispiace...»

Ho ancora in mano la lettera di Mia. Mi giro e la poso sul bracciolo del divano.

«Luca, smettila! So che non ti dispiace.»

Mi fissa con uno sguardo che non lascia spazio a dubbi, indossa un vestito a fiori, bordeaux, di quelli lunghi, morbidi, di lana... E, come spesso le accade, ha una scollatura generosa.

«Posso offrirti qualcosa da bere?» le chiedo.

«Mi sa che ne ho proprio bisogno...» risponde lei, seguendomi verso la cucina. «Comunque, guarda, in effetti hai ragione, è meglio così. Alla fine non capisco neppure perché mi ci sono messa, con uno come lui...»

Le verso un calice di rosso e le faccio una carezza.

Allora lei mi tende la mano, con quello sguardo della bambina pulita che ha voglia di giocare sporco. «Piacere, Valeria...»

Io sto al gioco: «Piacere, Luca!» e le do la mano, tirandola leggermente verso di me...

«Sei un bel ragazzo, Luca, lo sai? Sembri anche intelligente...» Lo dice con una voce bassa e volutamente sensuale, mentre si avvicina sempre di più... «Però, sentiamo, Luca... Cosa dirai per sedurmi? Per farmi innamorare di te?»

«La verità, tutta quella che conosco. Così tanta, così assurda, che ti sembrerà una bugia. Sarà sexy come una bugia.»

«Le bugie sono sexy?»

«Certo. Non c’è perversione maggiore. Tutti cercano la verità, ma poi si innamorano delle bugie. Le bugie sono afrodisiache...»

Lei mi fissa senza dire più una parola, e così anch’io, e ricomincia quel balletto di sguardi e occhiate proibite, i preliminari più eccitanti a cui si possa ambire.

Le metto una mano dietro la testa, la prendo per i capelli senza mettere troppa forza, quel tanto che basta per piegarle il collo e iniziare a disegnarci su giochi di traiettorie con la punta della mia lingua, fino ad arrivare dietro l’orecchio, e poi dentro, dentro l’orecchio... Nel frattempo le sue mani slacciano la mia cinta e, uno per volta, i bottoni dei miei jeans, e si infilano nei miei boxer... Mentre la mia mano destra rimane piazzata con presa decisa fra i suoi capelli, la sinistra scivola sotto il vestito, dietro la schiena, scende accarezzandola fin dove può arrivare e poi risale, sul petto, sui seni, e con il solo indice, sfiorandola, traccio una linea sul suo corpo, una linea che scende e sale, parte dal collo, sotto il mento, e scende giù, fino a lambire gli slip, poi quello stesso dito si insinua dentro, dentro gli slip, ansimiamo, la mia lingua, nella sua traiettoria spalla-collo-orec-chio-orecchio-collo-spalla, si incrocia con la sua lingua, e le sue labbra si appoggiano sulle mie, le mordono, le leccano, le succhiano, e le mie ricambiano con la stessa veemenza, con lo stesso ardore.

Intanto le nostre mani continuano a farsi spazio fra le nostre gambe. Indietreggiamo senza staccarci nemmeno un attimo, la faccio girare e le bacio ancora il collo, ora le sue mani sono sul muro e il suo vestito è salito, arrotolato poco sopra il fondoschiena.

Quando entro, sento uno spasmo alla bocca dello stomaco e in testa. Quando entro, esco da un’apnea durata diversi minuti, diversi giorni, diversi mesi... Respiro, respira... I suoi seni debordano dalla scollatura e oscillano, cambiano forma a ogni colpo. Il ritmo è deciso, profondo, l’odore della sua pelle si mischia col mio, e il mio sudore col suo. Sento che siamo fluidi, l’uno nell’altra. Mi chiede di andare avanti, di farlo come lo sto facendo. E io non ho la minima intenzione di fermarmi. Quando arriva, il piacere, esplode dentro di noi, quasi contemporaneamente. Le nostre gambe tremano, insieme a tutto il resto, e alla fine ci accasciamo per terra, stremati.

Era quello di cui avevo bisogno. Non è stato sesso, non è stato fare l’amore, è stata morfina...

All’improvviso inizio a piangere, un pianto a dirotto. Lei mi abbraccia, io non smetto. Rimaniamo lì, ai piedi del divano, sul tappeto... Nudi, coperti da un plaid a scacchi, senza dire nemmeno una parola. In silenzio.

«Possiamo trovare tutto quello che cerchiamo solo in certi silenzi, i nostri. Possiamo cercarlo solo lì. Ma serve tanto coraggio, e un po’ di follia...»

Queste sono le prime parole che ci scambiamo, dopo non meno di un’ora.

«Tu sei abbastanza folle?» mi chiede Valeria.

«Non ho più scampo, devo esserlo per forza...» le sorrido.

«Non ti ho mai visto tanto a pezzi...»

«Non sono mai stato tanto a pezzi...» La guardo e continuo: «Sai, Vale, pensavo a cosa sono diventato, tu ci pensi mai? Prima volavo fra mille domande, oggi striscio fra mille risposte. Capisci?»

«Sì, Luca, sì... Capisco perfettamente quello che dici!»

«Io ho il fottuto bisogno di ricominciare a volare fra domande a cui non so rispondere. Senza chiedermi perché lo faccio, senza chiedermi come andrà a finire. Puoi volare solo se non sei consapevole di saperlo fare...» Lei mi guarda e non dice una parola. «Una notte di tanto tempo fa, al buio, tremando, ho sussurrato a una persona, alla mia Jennifer Parker: “Sai, io non so volare, ma se sapessi farlo volerei da te”. Avevo diciotto anni, e sapevo volare...»

Sorride e risponde: «Oddio, Jennifer Parker, Ritorno al futuro... Meraviglioso quel film. Lei è stata il tuo primo amore? Comunque carino che la chiami così, davvero! Tu, quindi, eri il suo Marty McFly?» mi rivolge un altro sorriso dolcissimo, e dopo un sospiro prosegue: «Luca, tu ancora sai farlo, tu ancora sai volare!» e mi accarezza.

«No, non lo so Valeria, non lo so. Sento il vuoto, il vuoto dentro...» Lei mi abbraccia, e io continuo: «Vale, ti ho mai parlato di Mia? La signora del parco?».

«No...»

«È una mia amica. Ci ho parlato solo due o tre volte, ma è una mia amica.» Valeria annuisce sorridendo. «Mia è una giusta... E, ecco, vedi... Lei oggi mi ha dato delle lettere che le appartenevano, e poi un biglietto per me, è una storia, piccola, semplice, ma vera e meravigliosa...» Lei continua a fissarmi. «Vuoi leggerlo?»

«Oh, sì... Sì, che voglio!» mi sorride.

Le porgo il foglio, e lei inizia a leggere, lentamente:

Michele e Lucia

Michele compose il numero di telefono dello studio di Luigi, il cugino avvocato. Erano ancora gli anni del telefono verde col filo nero arricciato e il disco bianco che girava per comporre il numero. Niente cellulari, niente internet, niente chat. Al terzo squillo risposero, era Anna, la segretaria. Michele chiese di Luigi.

I due parlavano da nemmeno un minuto quando, durante un attimo di pausa, si distinse chiaramente una voce femminile in sottofondo. Non era Anna.

Michele trasalì, poi chiese di chi fosse quella voce e Luigi gli disse che era di Lucia, una giovane assistente in prova. Michele, spaesato, lo salutò, si vestì in pochi minuti, prese carta e penna e scrisse su un piccolo foglio bianco. Dopo circa dieci minuti era sotto l’ufficio del cugino, in pieno centro a Napoli, citofonò e chiese ad Anna di far scendere Luigi. Appena lo vide, eccitato, lo salutò con un abbraccio caloroso e gli diede il foglietto nelle mani, pregandolo di consegnarlo a Lucia senza fare troppe domande. «Devi solo dirle: “È di Michele, mio cugino, ha sentito la tua voce mentre eravamo al telefono. Poco fa”.»

Luigi, un po’ stralunato, esaudì la strampalata richiesta. Tornato su in ufficio ripeté la frase che gli era stato chiesto di ripetere e consegnò il biglietto alla giovane ragazza. Lucia, in disparte, aprì il foglietto, arrossì e lo richiuse. Lucia aveva un fidanzato, stavano insieme da circa due anni. Quella sera, però, dopo il lavoro che svolgeva nel periodo estivo, quando le scuole chiudevano, nello studio di Luigi, non andò subito a casa. Si diresse in un posto non molto distante dall’ufficio. Lì vide Michele. “Ore 19.30. Via Palepoli, 36. Trench panna, pantaloni beige. Una rosa in mano. So tutto di te, me l’ha raccontato il dolce suono della tua voce. So che ci sarai.”

Lucia e Michele, da quel giorno, non si sono mai separati, sono stati insieme per quasi cinquant’anni, fino a che lui non se n’è andato, per sempre, stroncato da un male infame. Lasciando Lucia a fare i conti con un dolore accecante ma, nello stesso tempo, a ringraziare la vita per tutta la meraviglia e la gioia che ha deciso di regalarle.

Credi nel tuo cuore, credi nell’amore! E soprattutto credi nelle tue sensazioni, in quello che senti, loro non ti tradiranno mai, perché sei bello, sei bello dentro, mio caro.

Io ho fiuto...

Lucia

Valeria, verso la fine della lettera, ha la voce rotta, un po’ strozzata.

«Credo che a un certo punto abbiamo bisogno di volare, Valeria. Per non strisciare per il resto della nostra vita» le dico. E ci guardiamo, senza dire nulla.

Ultimamente faccio fatica a ricordare chi sono. Come mi chiamo. Negli ultimi anni, giorno dopo giorno, ho ucciso, un pezzo alla volta, la mia anima. Sento, a volte, di perdermi fra le pagine, mal scritte, di un libro che non è più mio, che non è più quello della mia vita. Un libro senza un fine, senza una fine, senza una morale. Senza un senso. Una robetta banale e trash. Facilmente fruibile, troppo facilmente. Ho l’impressione, in certi momenti, che tutti gli errori commessi, tutti gli insegnamenti della vita, non siano serviti a nulla. Ho il terrore di non aver capito un cazzo. Che sia stato davvero tutto tempo perso? Ho smarrito il significato autentico delle cose, non ne ho colto il senso profondo. Ho speso un sacco di soldi in sciocchezze, ho rincorso il denaro per poter colmare vuoti generandone altri. Mi sono perso nella continua ricerca di un appagamento a metà strada fra un’automobile di lusso e la conferma che il mondo è un posto dove nessuno dà nulla in cambio di nulla, un gigantesco, rotondo, sospeso compromesso grigio che gira intorno a un sole malato, pieno di sporco e degrado. Ma questa conferma non è mai arrivata, perché c’è un momento in cui, se sai ascoltare, se sai guardare, la vita ti sorprende con una bellezza disarmante, e tu capisci che puoi scegliere dove stare, da che parte stare. Puoi scegliere di sottrarre invece di aggiungere. Ecco, io non mi sento proprio la bella persona che in fondo pensavo di poter diventare, tutto il contrario. Il fatto di avere molti problemi personali da risolvere non è un alibi. Ho perso di vista molti obiettivi. I miei obiettivi. Non so più raccontare. Non so più raccontarmi. Vorrei essere, ma poi non so esserci. Vorrei vivere, ma poi non so vivermi. Provo a ridere del mondo, e col mondo, ma non so ridere con me stesso, figuriamoci di me stesso.

Eravamo partiti da Jennifer, il mio primo amore. Lei si chiamava Francesca e io sapevo ancora volare senza esserne consapevole. E ora? Dove siamo finiti? Che fine ho fatto? Soldi, errori, tempo, ambizione, rincorse, compromessi, svilimento, perdita di valori, rinunce, sogni sacrificati dimenticati nel cazzo di cassetto chiuso pieno di buchi e tarli. Siamo finiti giù, sul fondo, insieme a tutta la schifezza che si deposita lì sotto...

Doveva essere un percorso, io mano nella mano con Luca e Luca mano nella mano con me, invece è stato uno scivolo infinito, a spirale, a strapiombo, senza protezioni. Tutto troppo veloce. Tutto troppo leggero. Guardo gli errori degli altri e li trovo mostruosi, assurdi, intollerabili, poi guardo i miei e li trovo necessari, comprensibili, giustificabili. Non è questa la via per il paradiso, posto che qualcuno voglia davvero trascorrere l’eternità con tutta quella gente noiosa e perbene. Però, di sicuro, sento che non è la mia, questa, di via. Ho parlato di visione di insieme, l’ho fatto spesso, con arroganza, con saccenza: con gli altri so usare le parole, ma non il mio cuore... Ho parlato di sguardo verso l’infinito, di colpo d’occhio, c’ho riflettuto con cura, ma ho continuato a fissare un solo piccolo inutile particolare. Non ho imparato a glissare, a passare oltre. Non ho imparato a essere meno comico di quel che dovrei. Ho dimenticato di telefonare ad alcuni buoni amici, di abbracciarli, pensavo di saperli ascoltare, invece ascoltavo sempre e solo me stesso, e tutte le mie ripetitive storielle e lamentele su quanto vadano male gli affari e gli affetti. Ho dimenticato di respirare il buono della vita, e grazie al cazzo, stando sempre in apnea è un bel po’ difficile, quando sei sempre sul chi va là non te lo godi, il buono della vita. Lo subisci, lo fraintendi, lo trasformi in qualcosa di marcio. Ho confuso la scala dei valori, e quella delle priorità. Quando mi dicono “cerca di bastarti” ne rido, perché credo che nessuno possa farlo davvero, abbiamo bisogno degli altri, però, in effetti, dovrei cominciare a volermi bene, a credere nelle mie capacità. Dovrei cominciare a farmi scivolare certa robaccia addosso, come acqua. Dovrei finirla d’essere, io stesso, certa robaccia. Dovrei smetterla d’essere spugna, e abdicare anche al desiderio d’essere roccia: potrei cominciare a essere un uomo... Un essere umano fatto di cuore e anima, carne e ossa, un po’ duro e un po’ morbido. Consapevole dei propri limiti e di quelli degli altri. Dovrei trovare il coraggio di dire: “Fa lo stesso, non preoccuparti, succede a tutti”. Dovrei trovare il coraggio di dirmi: “Fa lo stesso, non preoccuparti, succede a tutti”.

Vorrei sapere dov’è Mary, vorrei sapere se ho davvero sbagliato, se sono uscito fuori di testa, se ho perso il contatto con la realtà, se quello che sento non è altro che una mia costruzione mentale. Vorrei capire se il mio cuore ancora batte o ha fatto crash, se in questa favola ci sono solo orchi e lupi, e se è tutta un’illusione... Vorrei capire se è come dice Mia, se ha ragione lei... la dolcissima Lucia. È giusto crederci, crederci, crederci fino in fondo? Qualche volta le nostre domande sono già le nostre risposte.

Intanto, mentre penso a tutto questo, scendono altre lacrime dai miei occhi, anche se il mio viso non ha la minima contrazione. Sono immobile, e Valeria è lì, in silenzio, e mi guarda come se avesse potuto leggere ogni singola parola del mio monologo interiore. Con le dita asciuga il mio viso, e poi ci abbracciamo, con i nostri corpi nudi, ancora un po’ bagnati, ancora un po’ tremanti, ancora incastrati l’uno nell’altro...

Siamo così semplici.

Pensavamo di volare, invece siamo a terra.

Pensavamo d’esser tanto sofisticati, invece c’è solo un tasto.

E prima di dormire abbiamo bisogno ancora di una carezza.

Di alcune parole.

Di un abbraccio.

Di un sorriso.

Siamo così fragili.

Pensavamo di poter star senza, invece lo sogniamo.

E ci agitiamo di notte, cercandolo con le mani...

Le nostre mani schive, prive di legami.

Le nostre mani tese, perse nel buio.

Siamo così piccoli.

Pensavamo di essere all’altezza, invece non capiamo.

Tutte quelle domande.

Senza una risposta.

Tutte quelle risposte.

Senza una domanda.

Sospesi, siamo sospesi.

E lontani.

Trattenendo il fiato.

Respirando piano.

Shhh!

Nulla.

Silenzio.

Nulla.

Silenzio.

Nulla.

Silenzio.