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Le cose che ho dentro

In cuffia suona Jovanotti

con Mi fido di te

Venerdì 1 dicembre 2015

Rientrando dal lavoro, mentre guido verso casa ricevo una telefonata da mio zio Giuliano, un fratello di mamma. Lui, nella mia testa, è quello quadrato, oculato, quello che sa come gestire le cose, che conosce la misura, che ha saggezza, che sa prendere in mano la situazione, con polso. Da sempre, in famiglia, se c’è da comprare un’automobile, installare un condizionatore o visionare un appartamento per valutarne lo stato, ecco, va chiamato prima zio Giuliano per un consiglio...

«Ciao, zio! Come va? Sempre in forma, eh!?»

«Insomma, Luca, le cose non vanno poi così bene...»

«Che succede?»

«Eh, sai... ho bisogno di soldi, devo pagare un debito di gioco...»

Mentre lo dice, sento un piccolo sconvolgimento dentro. «Un debito di gioco? Ma... ma zio? Non sapevo giocassi d’azzardo!»

«Non lo faccio da molto... Sai, dopo la morte di tua zia, io...»

«E quanto, zio, di quanto hai bisogno?»

«Mancano ancora mille euro... Ma va bene qualsiasi cifra, Luca, non so come scusarmi, io mi vergogno, mi vergogno tanto!»

Qualche secondo di assoluto silenzio in cui sento mancare la terra sotto i piedi e sprofondo in un misto di delusione, incredulità e pena.

«Farò il possibile, zio, forse arrivo a cinquecento domani mattina, poi il resto...»

Mi interrompe: «Vanno benissimo, Luca, benissimo! Il resto lo trovo, sai che zio ha sempre un asso nella manica!». Abbozza un tono energico, da supereroe, come quello che usava quando ero piccolo e mi pareva fosse magico e imbattibile. Poi continua serio, quasi commosso: «Grazie, Luca! Perdonami!».

«Ti voglio bene, zio... Non scusarti. Ora devo andare, ho un cliente...»

C’è un momento in cui quelli come me, pieni di debolezze, trovano il coraggio di guardare negli occhi le fragilità degli altri. E allora, per quel momento magico, va bene anche un sorriso, pur appena accennato, per stemperare quella sensazione di non essere più così deboli, di non vedere gli altri tanto forti. Per metabolizzare il fatto che non era bianco o nero, bene o male. Ma era solo la realtà, piccola e mediocre come sempre. Vera come sempre. Brutale come sempre. Come quando da bambini ci hanno detto che Babbo Natale non esiste. Un piccolo lutto. Un mito crollato. E poi un sorriso: c’erano comunque regali da scartare. E la verità non era poi così male...

Entro, mi cambio al volo ed esco per andare a correre, ne ho bisogno. Ma avendo i tempi strettissimi riesco a ritagliarmi una mezz’ora scarsa. Al parco c’è ancora lei, la signora silenziosa, insieme al suo libro e a tutti quegli abiti. Ho l’impressione che mi osservi, che mi guardi di sottecchi tutte le volte che arrivo. E in fondo la cosa sarebbe reciproca, anch’io la osservo... Anche se poi non ci parliamo mai.

Alle 19.30 sono di nuovo in casa, più tardi ho una cena di lavoro con tutti i membri del consiglio di amministrazione del consorzio agroalimentare che mi ha affidato l’analisi del portafoglio assicurativo. Spero di portare a casa il cliente, sarebbe un bel colpo.

Tutte le volte che entro nella topaia, tornando dall’ufficio, butto giacca e valigetta sulla mia poltroncina in pelle verde consumata e sbiadita, che sta in un angolo accanto alla tv, ed è quello che ho fatto anche prima. È una poltrona del ’70, un modello originale, piena di buchi, comprata anni fa con Carla. Eravamo insieme da un mese, la portai in quel negozietto vintage in via del Governo Vecchio dove presi anche un porta vinile. Mi segue ovunque da allora, la poltrona, insieme a poche altre cose a cui tengo: un tavolo in legno e la mia scrivania dei tempi del liceo – bellissima, con le gambe inarcate che disegnano quattro esse, credo sia degli anni Cinquanta, un regalo di nonno. Nasce come tavolo da salotto per quattro persone, sei strette, ma si presta a molti usi: io l’ho reso prima il mio scrittoio, quando era nella mia cameretta a casa dei miei, poi un tavolaccio da cucina, bianco decapato, pieno di venature e un po’ di stucco. Nel suo grande cassetto ho messo le posate, i coltelli, apribottiglie, schiaccianoci e tutto il resto. Questi due oggetti basterebbero a farmi sentire a casa pure sotto un ponte, o in una topaia.

Fra le altre cose che porto sempre con me, da anni, ce ne sono due in una tasca interna della mia valigetta: un sacchetto piccolo di cotone, soffice come una carezza, rovinato e logoro come solo un oggetto che ha più di sessant’anni sa essere; e un portassegni in coccodrillo, piuttosto brutto... Anzi, molto brutto. Il sacchetto apparteneva a nonna Ardita, la mamma di mamma; il portassegni a mio padre. Nel sacchetto ci metto la chiavetta per la banca online, una pen-drive e il piccolo quaderno rosso; nel portassegni, ovviamente, un libretto di assegni. Sono due piccoli oggetti che mi aiutano, insieme alla poltrona verde e al tavolaccio decapato, a non perdere mai il contatto con la mia storia, con le cose che ho dentro, con quelle più vere. Con quelle più autentiche e semplici. Per me contano, contano tanto, danno continuità a certi miei pensieri, perdonano alcuni errori, restituiscono un senso alle derive emozionali che a volte mi travolgono, ecco, mi ricordano che in fondo alcune cose, minuscole, piccolissime, semplici e concrete, rovinate e sbiadite, rappresentano il nostro piccolo immenso tesoro, un punto certo da cui ripartire tutte le volte che cadiamo, che scivoliamo. Un fazzoletto di verità per quando ci sentiamo persi, soli e disorientati. L’unica fonte di calore per quando restiamo nudi, col freddo dentro. Quelle cose saranno sempre lì, con me. Dentro di me. Nella mia valigetta. Minuscole e immense. E per me questo conta.

Mentre raggiungo il bagno mi spoglio, gettando calzoncini, felpa e maglietta sudata per terra. Squilla il telefono, lo raggiungo saltellando su un piede solo cercando, nel frattempo, di togliere l’ultimo calzino.

È mia madre. «Ciao bello, come va?»

«Oh, ciao! Bene, ma vado di corsa...»

«E quando mai! Vai sempre di corsa quando ti chiamo... Che fai? Non dovevi passare a prendere i gilet?»

«Stavo per fare la doccia, sono rientrato ora. Non faccio in tempo, devo riuscire subito. Ho una cena di lavoro...»

«Che hai mangiato oggi?»

«Un panino al bar.»

«Non potevi venire da me?»

«Non ho avuto nemmeno il tempo di respirare, ma’. Oh, tempo scaduto!» la avverto, e ridacchio...

«Farabutto! Hai chiamato zio Mario per gli auguri?»

In ogni famiglia di origini meridionali che si rispetti c’è uno zio da chiamare per gli auguri, auguri di ogni tipo, praticamente ogni giorno.

«No, lo chiamo dopo, ma’. Ora scappo... Tu, tutto bene?»

«Sì, sì, tutto bene. Lo sapevo che non lo avevi ancora chiamato! Ti dimentichi sempre delle cose che non ti interessano, eh! I doveri mai... Sai bene quanto tuo zio ti è stato vicino dopo la morte di tuo padre, lo sai che ci tiene... Io non ti capisco...»

La interrompo, altrimenti potrebbe andare avanti per ore: «Mamma, ti ho detto che lo chiamo dopo, avevo in programma di farlo, non me ne sono dimenticato. E so quanto dobbiamo essergli riconoscenti...».

«Me lo auguro... Va bene amore di mamma, adesso va’!»

«Tu stai a casa?»

«Sì sì, e dove devo andare?»

«Non lo so, potresti uscire.»

«E con chi? Sai che Ugo non è il tipo...»

Ugo è l’uomo che mia madre ha sposato cinque anni dopo la morte di mio padre. Vedovo anche lui.

«Mah... Ok, dài, vado...»

«Ciao, bello mio! Ti voglio bene!»

«Ciao! Anche io.»

«Chiama zio, eh!»

“Cristo!” «Sì...»

«Ciao!» Lo dice quasi sorridendo, col tono di chi sa di aver “rotto”...

«Ciao!» e metto giù.

Mentre ero in linea con mamma hanno chiamato Stefano e Franco e penso che, cazzo, devo richiamare Stefano, e fissare questa benedetta cena, pare me la stia tirando. Nel frattempo gli mando un WhatsApp: “Ciao, scusa, ti richiamo appena posso. Ho cena di lavoro e sono in ritardo...”.

Stefano: “Sii, tranquillo Luca, era solo per accordarci”.

Stefano: “A presto! ;)”.

Torno correndo in salone a prendere la stufetta elettrica, da accendere mentre faccio la doccia. In bagno si congela, non ho i termosifoni perché non ho il gas, non c’è proprio l’impianto. Ci sono i condizionatori a pompa di calore, solo che ci mettono un po’ ad andare a regime, quindi quando passo di corsa a casa nemmeno li accendo e vado di scaldino elettrico, che dà sempre ottime soddisfazioni quando te lo punti addosso a distanza ravvicinata...

La casa consiste in due camere più il bagno. Nella prima camera, un rettangolo di circa venti metri quadri, ti ci ritrovi appena entri, ed è divisa – concettualmente – in due ambienti: un mini salotto, con la poltroncina anni Settanta, un divano rosso, un piccolo tavolino davanti, sempre troppo pieno di giornali e libri e riviste e scontrini e resti di ogni genere alimentare, e la tv sulla parete di fronte; sopra la tv c’è una stampa su tela di una Trastevere in bianco e nero con una Vespa 50 a colori: gialla. Poi c’è la cucina, dove ho piazzato il mio tavolo decapato con le quattro sedie. L’altro elemento di arredo sono dei pensili in radica del vecchio inquilino, a strisce marroncine, orrendi... Non potendo spendere molti soldi per comprarne di nuovi, ho optato per ricoprirli con degli adesivi di un materiale speciale, resistente anche ad altissime temperature. Attaccarli, ritagliarli, non produrre troppe bollicine d’aria, ecco, non è stato per niente facile, anche se pensavo lo fosse; per il colore ho scelto un verde biliardino, e sono molto fiero del risultato finale. In alto, sopra i pensili, ho piazzato una fotocamera in legno, una di quelle antiche e con il soffietto, e questo, dal mio basico punto di vista, dovrebbe rendere la mia cucina un sacco naïf...

La seconda camera è quella da letto, ed è abbastanza ampia: ho il materasso matrimoniale, un grande armadio a muro, uno specchio appoggiato a terra, due comodini argentati e un appendiabiti in legno con su scritto ROUTE 66. Il bagno è stretto e lungo. E vecchio. E brutto. E no, non c’è nulla che lo renda naïf, se non il fatto di non esserlo per niente.

Dopo la doccia, indosso il vestito grigio, le scarpe nere lucide, scelgo una cravatta bordeaux con piccolissimi punti dello stesso colore ma di un tono leggermente più intenso, mi piazzo davanti allo specchio per fare il nodo – io lo preferisco senza risvolti o pieghe, e piuttosto piccolo – e nel frattempo posiziono un vinile sul giradischi: è un 45 giri di Mina, Ancora dolcemente. Lo ascolto più volte prima di uscire, che pezzo meraviglioso...