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Buio e luce

In cuffia suona Asaf Avidan

con Love It Or Leave It

Giovedì 10 agosto 2015

Siamo un miscuglio di contraddizioni, strisciamo nel fango ma poi, quando alziamo gli occhi al cielo e vediamo le stelle, pervasi da un senso di inadeguatezza o da deliri di onnipotenza, vogliamo volare per andarle a toccare, le stelle. Ma le stelle non si possono mica toccare con le mani sporche di fango... In più, a differenza di quello che tutti credono, per fermarti a guardare le stelle, a osservarle, ad accarezzarle, devi avere i piedi ben piantati per terra ed essere abbastanza “grande” da arrivarci, altrimenti rischi di sbilanciarti, di perdere l’equilibrio, e di finire col culo per terra, e più il salto è alto, tanto più il botto è forte. E invece noi, indecisi, insicuri, “piccoli” senza voglia di crescere, restiamo a mezz’altezza, a mezz’aria, né insetti né rondini, né diavoli né angeli. Buio e luce, rabbia e dolcezza. Guerra e pace. Questo siamo. Sfumature di contrapposizioni. Inseguiamo l’integrità morale e scivoliamo di continuo in milioni di tentazioni. Perché le tentazioni, quasi sempre, hanno un sapore più buono, e la nostra moralità è variabile nel tempo, in base alle circostanze, al contesto, agli interessi, ai compromessi ai quali di volta in volta siamo disposti a scendere. Alle regole che di volta in volta siamo disposti a scrivere e trasgredire.

Veniamo a patti quotidianamente col nostro peggior nemico, quello che ci fa più paura: la parte buia della nostra coscienza, la forza opposta dei nostri sorrisi, i pugni chiusi e violenti delle nostre mani tese e pulite. Il contrario delle nostre inclinazioni, delle nostre attitudini, dei nostri sogni. Diventiamo disumani tutte le volte che la nostra umanità ci rende vittime, perdenti e sconfitti, tutte le volte che ci bagna l’anima di lacrime, e lo fa di continuo. Urliamo al mondo che la nostra parola è solo una e sempre la stessa, con le spalle dritte e la voce ferma, affacciati sul baratro della nostra patetica piazza Venezia in cerca di cori e consensi, in cerca di sangue e di un branco in cui identificarci, ma di parola non ne sappiamo mantenere una che sia una.

Le nostre fragilità ci rendono così umani, così imperfetti, così impauriti e incoerenti... e trovo tutto questo fottutamente commovente, fottutamente mediocre e vicino alla verità, quella che tutti vorrebbero sentirsi raccontare ma che nessuno è mai disposto a difendere.

Anche Mary è così, piena di sfumature e colori contrastanti, in lotta col bene e col male, col bianco e col nero, con i sogni e le certezze, con quello che vorrebbe e quello che è. La vedo camminare su un filo sottilissimo, sulle punte, a strapiombo sul suo universo, e un po’ anche sul mio... In fondo anche lei non è mai una cosa sola, non è mai la stessa.

Ricordo una sera di agosto, verso le otto di sera, eravamo in centro...

«A me piace vivere così» mi aveva detto. «Faccio sempre quello che mi va, quello che mi viene in mente.»

«È una bella cosa fare quello che ti viene in mente, ma a volte non è semplice. Comunque ho capito cosa intendi.» Buttai lì questa frase, così, tanto per... Lontanissima da me la volontà di polemizzare, o tanto meno di offenderla. Ma la sua reazione era stata agitata: «No, no! Ascolta: io intendevo dire ciò che ho detto. E cioè che faccio sempre quello che voglio. È chiaro, vivo in questo mondo... E so che in ambito professionale, per esempio, c’è bisogno di un po’ di diplomazia. Ma intendevo dire che difficilmente metto in discussione i miei propositi o convincimenti».

Il tono era perentorio. “Che caratterino!” pensai.

«Guarda che la vita è una, eh!» Stava quasi urlando. «Se ci facciamo tediare da mille dubbi o scrupoli, o se stiamo sempre lì ad assecondare la volontà degli altri non ne usciamo vivi! E io voglio vivere!»

“E io voglio vivere” lo urlò proprio. Rimasi basito.

«Ok!» dissi con un tono distensivo. “Tutti vogliono vivere” pensai intanto tra me, “o forse no”.

Stavamo passeggiando in via dei Coronari, e avevamo da poco svoltato in via della Vetrina, direzione bar del Fico. Lei si fermò e sospirò guardando prima fugacemente me, poi una coppia di turisti tedeschi che ci incrociarono borbottando con una mappa in mano. Infine, alzando gli occhi al cielo, mi disse: «Scusa. Sono un po’ pazza, vero?».

«Assolutamente. È giusto che tu metta passione nelle cose che dici.»

«Sì, ma dovrei essere più calma. Ci conosciamo da così poco. Chissà che idea ti stai facendo di me!»

La sua espressione, da agguerrita, si fece quasi triste, tanto che avevo paura di vederla scoppiare a piangere da un momento all’altro.

«Non mi sto facendo nessuna idea sbagliata, stai tranquilla. Ma ho capito che è un argomento che ti sta a cuore. Parliamone, se vuoi.»

Lei mi guardò e, con un tono quasi riconoscente, disse: «Se vuoi ti offro qualcosa da bere». Indicò una porticina fra i cassonetti, con la scritta gialla: VIO. «Così approfitto per togliere queste scarpe...»

«Va bene. Ma, scusa, che tipo di locale è? Ti togli le scarpe?»

«È un’associazione culturale. Ci sono dei divanetti all’interno, moquette, un pianoforte e qualche sacco di sabbia su cui sedersi, a volte fanno mini concerti di acid jazz, o violino elettronico, roba così. Amo questo posto... Ci vengo da anni, sempre da sola, è il mio luogo del cuore. Quando ho voglia di staccare un po’ vengo qui...»

Mi sentii onorato dal fatto che volesse coinvolgermi in quel suo piccolo importante fazzoletto di vita. Quella sera, Mary mi raccontò molto del suo passato, e del suo problema con le imposizioni. In realtà, quella sera mi raccontò molto di più di quello che lei stessa voleva raccontare.

I suoi, in particolare il padre, le hanno imposto tutto. La danza classica, il pianoforte, la scelta del liceo, la scelta della facoltà all’università. Il padre è un architetto di fama internazionale, famoso soprattutto in USA e Giappone. Fin da piccola, Mary si è portata addosso un carico di responsabilità fortissimo, e si è impegnata anima e corpo per non deludere le elevatissime aspettative riposte in lei. È stata eletta per tre anni consecutivi miglior studentessa del Lazio, vincendo gli ambiziosi premi Renutes. Ha conseguito il diploma di danza classica all’Accademia nazionale di Roma e ha superato da privatista l’esame del quinto anno di pianoforte al Conservatorio. Nei mesi di agosto, negli anni del liceo, è stata spedita puntualmente all’estero, in college, per studiare l’inglese, controllata H24. Si è laureata con il massimo dei voti e con circa tre mesi di anticipo. Ma, non appena finiti gli studi, presa da un raptus rivoluzionario e mossa dalla frustrazione, invece di lanciarsi verso una sicura e per molti versi comoda carriera nello studio del padre, ha deciso che non avrebbe mai più fatto qualcosa che non fosse il frutto di un suo desiderio personale.

L’architettura, fortunatamente, era diventata per lei una vera passione, ma il pensiero di lavorare tutta la vita sotto l’ala invadente e accentratrice del papà la faceva impazzire.

Odiava i suoi modi aggressivi e autoritari.

Odiava il fatto che avesse tradito la madre con altre donne fin dal giorno dopo il loro matrimonio.

Odiava che lui non le avesse mai chiesto come stesse o se fosse felice, o se desiderasse altro nella vita.

«Dei momenti in cui era previsto usare dolcezza, sensibilità o dialogo se ne è occupata sempre mia madre» mi disse quella sera. «Lui, l’uomo tutto d’un pezzo, non poteva abbassarsi a tanto. Per lui l’unica cosa che contava era che io fossi perfetta. Ha sempre avuto un’idea molto chiara di quello che voleva da me. Per lui contava molto di più fare bella figura con i suoi amici, esibendo i miei successi scolastici o universitari come trofei, che sapere veramente come me la passavo.»

Mentre parlava, vedevo nei suoi occhi una serie di sentimenti contrastanti e ingombranti, che scalciavano per uscire. C’era il fango, e c’erano le stelle... E prima una, poi l’altra, quelle emozioni così diverse si materializzavano in determinati aspetti e dettagli del suo gesticolare, del suo corpo, del suo sguardo. Mary è meravigliosamente bella, ma anche rigida. Se la osservi attentamente lo puoi vedere, in ogni angolo e centimetro del suo corpo, del suo viso. Nella tensione dei muscoli, nella mappa dei nervi e delle vene, nelle traiettorie severe che formano gli angoli delle sue ossa sporgenti. A volte vedo in lei una donna con il coltello fra i denti e tanta rabbia da far paura, in altri momenti vedo una bambina che ha bisogno di quell’affetto e di quella protezione che il padre le ha fatto mancare.

«Considera che baci o carezze, da mio padre, non ne ricordo. È solo uno stronzo narcisista che non avrebbe dovuto mettere al mondo nessuno» mi aveva detto, impetuosa.

«Purtroppo capita che i figli li faccia anche chi non dovrebbe.»

Avrei potuto essere più originale e scandagliare un po’ la situazione. Ma decisi di non spingermi troppo oltre, quello dei legami familiari è veramente un territorio minato.

Comunque, da ciò che ho capito, la decisione di non lavorare dal padre la portò a tagliare quasi del tutto i rapporti con lui: Mary mi disse che negli ultimi sei anni aveva visto e sentito suo padre non più di cinque o sei volte. Credo che lui in poche e isolate occasioni abbia tentato un debole riavvicinamento, non trovando in lei terreno fertile. I suoi divorziarono l’anno in cui lei conseguì la laurea. Il padre si trasferì definitivamente a New York. La mamma comprese il male che le era stato fatto, tardi, ma comprese. Anche lei era stata succube per una vita del marito, non per ragioni di dipendenza economica ma per quegli incomprensibili meccanismi che portano ad amare e rispettare chi non ti ha mai amato e rispettato.

Mary, subito dopo la laurea, è entrata nello studio di famiglia di un suo amico, quello in cui ancora lavora. La mamma, figlia di un industriale argentino, nata e cresciuta a Buenos Aires, a quindici anni si trasferì con la famiglia a New York dove conobbe poi il padre di Mary. Luisa, colta ed estremamente facoltosa, nei primi anni di specializzazione ha garantito a sua figlia una tranquillità economica non indifferente.

E io quella sera, mentre ascoltavo in silenzio il suo racconto, quel pezzo tanto importante della sua storia, riflettevo sul fatto che non sapevo quasi nulla di lei, dei dettagli del suo presente, della sua quotidianità, eppure sapevo già così tanto del suo passato, delle sue radici. Non dissi una parola perché mi fu subito del tutto chiaro che più che di un parere aveva bisogno di sfogarsi.

«Ho parlato solo io. Ti ho annoiato, vero?»

«Ma scherzi? Nemmeno un po’. Mi spiace che tu abbia un rapporto così poco costruttivo con tuo padre, credo che, a prescindere da tutto, non sia facile per te. Ma nello stesso tempo ho l’impressione che tu ne sia uscita abbastanza bene, da tutta questa storia.»

«Be’, sì, dài... Quello che non mi uccide mi fortifica... O qualcosa del genere, giusto? Si sono fatte le dieci, devo tornare... Facciamo l’ultimo giro e andiamo, ok?»

Citare Nietzsche fu una comoda scappatoia. Il suo tono all’improvviso divenne superficiale, frettoloso, quasi indifferente. E io colsi il velato invito a cambiare argomento: il discorso era finito. Era lei, ancora una volta, che stabiliva le regole. Era successo nel locale, nella nostra prima conversazione. Poi via email, via WhatsApp, e poi al telefono... E sarebbe successo quasi in tutti gli altri nostri scambi. In qualche rara eccezione mi sono trovato costretto a “usare le maniere forti”, a impormi per farmi sentire, ma lei è sempre riuscita a girare ogni cosa a suo favore, facendomi apparire come un pazzo con cui era impossibile relazionarsi. Credo che, per certi versi, abbia preso dal padre più di quello che pensa. Ha bisogno di gestire e governare le situazioni, ma ha un fascino incredibile nel farlo. Mantiene il suo aplomb e sa darti l’impressione che la cosa migliore da fare sia proprio quella che dice lei, e nel modo che dice lei, al punto che tu ti senti quasi in imbarazzo per non esserci arrivato prima.

Però mi chiedo se Mary faccia davvero sempre solo quello che pensa, quello che sente. Mi chiedo se segua il suo cuore, e il suo corpo. So che è piena d’amore e di passione, anche se si ostina a cercare di nasconderlo con quei modi ruvidi e ostili. Quasi brutali.

Capita che il nostro passato torni a romperci così tanto i coglioni da trasformarci in quello che proprio non siamo, il negativo della nostra immagine, e serve che qualcuno abbia voglia di infilarci in una camera oscura e di appenderci con una molletta per sviluppare la fotografia con i nostri colori reali. Lasciarci addosso ricordi stonati può rischiare di ripercuotersi sull’intera armonia della nostra esistenza, il passato risuona nel nostro futuro, l’amore e l’odio sanno nascondersi l’uno nell’altro, e se non stai attento rischi di non distinguerli nei momenti che contano. E io vorrei distinguerli, invece, ne ho bisogno, perché io vivo per quei singoli, preziosi momenti, quelli che contano...

Se Mary seguisse il suo cuore e il suo istinto ora sarebbe con me, lo sento, cazzo, lo sento! C’è stato quel momento fra me e lei, uno di quelli che contano più degli altri, prezioso e irripetibile, e io l’ho riconosciuto, ho riconosciuto lei. Va così, riconoscersi... È quando ci scegliamo fra miliardi di persone, come se fossimo le uniche due finestre illuminate in mezzo a milioni di grattacieli spenti.

In quel locale, il giorno che l’ho vista per la prima volta, l’universo si è spento, e Mary era lì: unica stella lucente.

E penso sia stato lo stesso per lei, anche il suo cuore l’ha distinto chiaramente, quell’attimo fra di noi. Ma tutte le volte che mi ripeto questo, mi chiedo anche se io, allo stesso tempo, non mi stia facendo solo un lavaggio del cervello. La mia certezza vacilla di fronte alla realtà, di fronte al posto vuoto sulla sedia davanti alla mia, tutte le volte mi chiedo perché, semplicemente, lei non sia qui con me.

Prima di salutarci, quella sera da VIO, Mary ribadì per l’ennesima volta che non si fidava in alcun modo di me. A prescindere da Giulio e da tutto il resto, c’era questa cosa... Non mi reputava affatto stabile, o affidabile...

«Tu l’hai capito il mio cuore, come si sente?» le chiesi, posando il bicchiere sul tavolo.

«Sì... Ma tu non ti sei mai chiesto come si sente il mio, non immagini minimamente quello che sta attraversando il mio cuore, non puoi...»

«Io ho pensato solo a quello, al tuo cuore. Altrimenti sarei già venuto a rapirti, Mary...»

«Che bugiardo... Paraculo e bugiardo!» Sorrise. «Tu hai pensato solo a te!» Altro sorriso... «E poi saresti venuto a rapirmi, dove?»

«In qualunque posto.»

«Senti, sul serio, ascoltami un attimo. Voglio dirti una cosa.» Mi fissò per qualche istante, poi riprese: «Io penso che non è possibile provare certi sentimenti per qualcuno che ha un’altra vita e un’altra felicità. E penso che, nello stesso tempo, chi si butta come nulla fosse in queste storie poco limpide faccia pena. E poi non mi fido di te. E non mi fiderei nemmeno di me, se mi buttassi in un casino del genere. Io non voglio essere così. Io non voglio sospettare di me stessa. Io mi piaccio, sul serio. Capisci?».

Le sue parole tradivano un’opera interna di autoconvincimento, e questo era comprensibile...

«Invece ti potresti lasciare andare, Mary... Io non sto giocando, e ho meno vite di quelle che pensi, e vorrei affidarle tutte a te...» Sorridendo, allungai la mia mano sulla sua.

«Non mi fido assolutamente di te.» Scuoteva la testa, ma le sue guance erano rosse...

«Se tu lo volessi, io ti porterei via, Mary...» Continuando a tenere la mia mano sulla sua, e avvicinandomi il più possibile, tirai fuori un tono di voce bassissimo e pacato: «E ti accompagnerei piano piano, dolcemente, da me, nel mio cuore... lo vuoi?».

«Non fare lo stronzo con me, ti avverto, non fare lo stronzo con me!» Mi puntava contro il dito, e le sue guance erano sempre più rosse. «Mi hai vista cinque volte. Cinque.»

«Mi bastava la prima. Una!»

«E questo succederà ancora. Ti basterà anche con la prossima. E poi con un’altra ancora. E ancora...»

«No, Mary, sai che non è così. No, perché lo sento, lo sento qui...» Portai la mano sul petto, all’altezza del mio cuore.

«Tu senti tante cose. Io invece ne sento una sola: sento quello che vedo!»

«E allora? Eh? Perché, dimmi, dimmelo, in me che vedi?» esclamai. «Mary, non è uno scherzo, io sento unicamente questo per te. Guardami, lo vedi? Non c’è più il muro, l’ho fatto per te, l’ho buttato giù solo per te.»

«Il muro... Dio...» Abbozzò un sorriso colmo di sarcasmo e di paura. «Non è così che posso crederti. Non in questo contesto, non con queste vite. Muro o non muro.»

«Non è così che puoi credermi... E come potresti? Dimmi cosa devo fare! Mary, dammi la mano.» Le presi nuovamente la mano, stringendola. «Guardami, Mary, guardami... Dimmi, non senti nulla? Ora, non senti nulla? Io sento qualcosa che non so descriverti, io adesso sto volando.»

«Certo...» Si staccò in modo brusco da me. «Ma sento anche che non mi fido. E questo basta. Non funziona così. No, non funziona così... Sei brillante, non lo nego, ma un po’ confuso, un bel po’!»

«Confuso? Non sono confuso, e nemmeno brillante, forse goffo, quello sì. Ma sono sicuro. E sincero. Voglio te, voglio solo te.»

«No, non con questi elementi.»

«Ma il fatto che sia innamorato di te non conta niente?»

«No, e lo sai! E comunque non lo sei. Luca... Non lo siamo, ok? Ora devo scappare, scusa, davvero!»

Qualche volta, l’immagine impressa nello specchio è solo il riflesso di quello che abbiamo bisogno di vedere.

E allora avrai voglia di scappare e correre forte, come non hai mai fatto, ma a un certo punto, esausta, dovrai fermarti e, voltandoti, ti renderai conto che tutto quel dolore e tutto quell’amore sono ancora lì, mischiati e confusi l’uno nell’altro, attaccati al tuo cuore.