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Ti diranno che è un’ossessione solo perché non possono capirla
In cuffia suona Pearl Jam
con Black
Lunedì 11 dicembre 2015
Fra le cose che vedi, quando mi guardi, c’è un pezzo di quella carne che ti puoi prendere, se vuoi. L’ho scritta in quel modo per te, l’ho pensata in quel modo per te. “Pornografia” la definirebbe una persona che conosco, questa roba di mettersi a nudo e farsi spogliare, spolpare, succhiare, leccare; e tutto questo mettersi a nudo, nella pornografia che ha in mente quella persona che conosco, succede coi vestiti addosso, va da sé, mica come in certi tape da quattro soldi. Io ho dato un nuovo senso a quella pornografia, e l’ho fatto solo per te. Come quelli che inventano canzoni partendo da un bel giro di accordi. Come quelli che fanno cascare il cielo dopo che qualcuno l’ha dipinto. Come quelli che fanno suonare la pioggia dopo che qualcuno l’ha immortalata. Sfiorarsi con un’allusione, tipo quando appoggi le tue labbra sul mio viso mancando di pochissimo le mie, con gli angoli che si toccano appena... Hai presente quando si ferma l’universo per quello sfioramento di angoli? Nemmeno il battito d’ali della farfalla e il suo “effetto” possono niente contro quello sfioramento, perché la catena di eventi si interromperebbe là, Mary, all’inizio e alla fine di tutto, in quel preciso punto di contatto, la nostra pornografia: sentire sul collo il respiro dei pensieri, con la mia testa che lecca ogni punto della tua testa, i desideri che si soffiano addosso, il tuo piacere che si incolla al mio, tanto da sembrare una cosa sola, ecco, quello è il preludio all’orgasmo migliore che possiamo concederci, quel tipo di orgasmo che non fa tremare le gambe, ma l’anima insieme a tutte le certezze. Quel tipo di orgasmo che non smette mai di farti godere, nemmeno a milioni di chilometri di distanza.
Ma forse tu, Mary, sei un’ossessione. Forse le ho viste solo io certe cose, le ho sentite solo io. E i miei pensieri scivolano per questi lidi, si inoltrano su questo terreno incerto, impervio, mistificano un amore tanto grande e impossibile e fenomenale che mi fa dubitare persino di me stesso, della mia lucidità, della mia capacità di distinguere il sogno dalla realtà... Penso a questo mentre arrivo a Villa Pamphilj, solita entrata, quella di San Pancrazio, soliti cinquanta metri camminando, panchina a sinistra, salice meraviglioso, Mia che legge il suo libro, oggi tocca a Philip Roth, La Macchia Umana...
Mi guarda, cenno di assenso, io la guardo e mi avvicino a dov’è seduta lei. Questa volta rompo subito gli indugi: «Scusi, ieri mi ha preso in contropiede, e non ho avuto modo di dirglielo... Piacere, Mia, piacere di conoscerla!».
«Puoi evitare il “lei”, non farmi sentire più vecchia di quello che sono, stronzetto...» dice, e alza lo sguardo regalandomi un sorriso, qualcosa di inedito, e un’espressione incredibilmente significativa. I suoi occhi sono cangianti, di un colore che assomiglia al grigio. Meravigliosi e disarmanti.
«Ok, certo! Senti, Mia, senti...» Sono piuttosto impacciato. «Cosa intendevi, cosa intendevi con “devi scegliere da che parte stare”? Ci penso da due giorni. Ma, ecco... Non capisco. Forse intendevi tra bene e male? Ho pensato a questo...» Mi chino verso di lei, sporgendomi in avanti, appoggiando il palmo delle mani sulle ginocchia...
«Ma figurati! E poi, nel caso, ti consiglierei il male, se fosse quella la scelta, ché per stare dalla parte del bene deve piacerti prenderlo nel culo, ah ah!» La sua risata sembra quella di Al Pacino quando interpreta John Milton, L’avvocato del diavolo. Poi torna seria: «E deve piacerti pure parecchio, perché succede sempre in modo violento e senza preavviso, e non mi pare ti piaccia, a occhio e croce, giusto?».
Il tono è provocatorio e dissacrante, come dissacrante è l’uso delle espressioni crude e volgari. Mi guarda con quei suoi occhi che non capisci se ridono o se sono incazzati, se ti prendono per il culo o ti studiano, o se sono semplicemente annoiati... Ma sei certo del fatto che ne abbiano viste tante, quei magnifici occhi, nel corso degli anni, forse troppe.
«No, non particolarmente» confermo e annuisco, e la fisso con curiosità e forte interesse...
Poi continua: «Anche se, va detto, il fatto che non ti piaccia conta davvero poco, purtroppo, il punto è che al mondo, giovanotto, non gliene frega un cazzo che ti piaccia o meno, devi saperli difendere tu, i tuoi “gusti”, e il tuo culo... Ecco».
«Ok, ho capito cosa intendi, ma... Culo a parte, spiegami a cosa ti riferivi con “da che parte stare”, di quale “parte” parlavi?»
«Vedi, alla mia età certe cose appaiono molto semplici, alla tua è normale farsene un cruccio, chiedersi come e perché, chiudersi in quell’immobilismo che molti scambiano per “atteggiamento riflessivo” o “approccio intellettuale”. Ma la scelta è facilissima e la domanda è solo una: vuoi davvero vivere?»
Mi domando perché mi dica questo, non sa nulla di me, né io di lei... La fisso ancora, socchiudendo un po’ gli occhi, come si fa quando cerchi una risposta che non trovi, mi chiedo se io abbia davvero colto il senso profondo della sua domanda e, pur percependo di non averlo fatto, rispondo con qualche esitazione: «Sì...» e abbasso lo sguardo sull’erba.
«E allora vivi, lasciati travolgere dalla vita, fai le scelte che devi fare, anche le più assurde e “sbagliate”, senza paura, senza risparmiarti, fatti un giro al largo, al buio, sulle montagne russe, in campo nemico, nelle giungle che non conosci, fra le lingue che non sai parlare, con o senza vestiti, con o senza preservativo, con o senza paracadute, buttati nella vita, accetta lo scontro oltre all’accordo, accetta le macchie, accetta di non essere candido e perfettamente pulito, anzi, sporcati, graffiati, sanguina, urla, buttati nel fango, tuffati e nuota, anche se non sai farlo, anche se non tocchi, anche se non puoi vedere i tuoi piedi e oltre il tuo naso, non aver paura di morire, rispetta la morte ma non la temere, altrimenti sarà lei a non rispettare te e quella che chiami la “tua vita”...» Mi sorride accarezzandomi velocemente il viso, cercando quasi di non farmelo notare, con tutta la dolcezza che una donna della sua tempra può usare, nonostante la scorza dura e il disincanto, smettendo per un attimo il cinismo e il ghigno sarcastico. Ma solo per un attimo.
«Questo intendevi?» Non alzo gli occhi, che restano fissi sui miei piedi.
«Io spero tu scelga di vivere, ragazzino, sei ricco dentro, lo sento, io ho fiuto per queste cose, fidati... Godi di questa tua ricchezza, l’unica che conti davvero. Sento che hai paura, te lo leggo negli occhi, son mesi che ti osservo, tu e tutto quell’amore che ti porti dentro. Tu e tutta quella voglia di vita... Falla esplodere! Esplodi, cazzo! Non averne, di paura, oppure abbine, ma stracciala, vincila! Buttati, buttati nella tua vita...»
Quest’ultima frase la dice con voce bassissima e roca, esita qualche secondo e poi prosegue con forza: «E adesso vai, il tuo riscaldamento? La tua corsa? Che cazzo, ma non hai voglia di fare nulla, oggi?» dice con tono di finto rimprovero. «Su, levati dai piedi, vai a sudare!» E con un filo di voce, mentre abbassa di nuovo lo sguardo sulle parole di Roth: «Vai a vivere...».
Io vorrei abbracciarla, fisicamente, ma lo faccio solo con gli occhi. Un po’ lucidi. E sono lì lì per andarmene, con poche certezze nella testa, con tante domande e una sola risposta: vivere. Poi mi giro ancora verso di lei: «Mia...».
«Che altro c’è?» chiede, senza, come suo solito, muovere di un millimetro lo sguardo dal libro.
«Si può amare qualcuno più della propria vita fin dal primo momento, così, in una frazione di secondo? Perché, ecco, è quello che è successo a me, o almeno è quello che credevo... Ma adesso non lo so, non so più niente... Le mie certezze stanno crollando, mi sento completamente perso, triste, solo e folle, e ossessionato sì, il mondo mi fa sentire un ossessionato! E non so nemmeno perché lo sto dicendo a te, forse perché non c’è più nessuno disposto a credermi, o ad ascoltarmi, o forse perché ha ragione chi dice io lo sia, ossessionato, forse è davvero solo un’ossessione... Forse sono un povero pazzo, ecco... Non lo so, non lo so, Mia...» La fisso, non stacco lo sguardo da lei, dai suoi occhi, e dai miei scendono lacrime.
Dopo qualche interminabile secondo la sento replicare, con tono calmo ma rassicurante: «Ti diranno che è un’ossessione solo perché non possono capirla, perché è fuori dalla loro portata emotiva, solo perché è impossibile, per loro, sentire tutto quell’amore e tutte quelle emozioni dopo una sola frazione di secondo. E allora ti diranno che non è amore, ma ossessione, e che non è reale, ma una tua invenzione. E tu, ecco, tu farai sì con la testa, e li osserverai morire lentamente, giorno dopo giorno, soffocati dalle loro certezze, dalla paura e da tutta quella patetica mania del controllo... Da tutta quella morte spacciata per vita...» Alza ancora lo sguardo e mi regala un altro meraviglioso, confortante sorriso.
«Grazie...»
«Ragazzo, un’ultima cosa. Ti diranno anche... Ecco, ti diranno di non credere nell’amore, di non alimentare quella fiamma. E tu, con quella fiamma, darai fuoco a tutto l’universo!»
Più che un imperativo, sembra una supplica, la sua, una speranza...
Poi, in modo secco, mi dice soltanto: «Va’!».
«Certo...» le rispondo con un filo di voce.
E vado.
La sera, a casa, penso all’anno di analisi. Chissà cosa penserebbe il dottor Montanari della mia storia con Mary. Sono quasi sicuro si stupirebbe della fine che ho fatto. O forse no, forse analizzerebbe insieme a me tutta la faccenda, ascolterebbe il mio racconto nei dettagli, e si convincerebbe che tutte le leggi della psicoterapia, della medicina e della scienza, in questa storia, non potrebbero nulla. Capirebbe che più che di psicoterapeuti, c’è bisogno di maghi e stregoni. Mai sentito parlare di strizzacervelli nelle fiabe, mai, nemmeno una volta... E sono sicuro che il dottor Montanari, questo, lo capirebbe al volo, smettendo all’istante il ruolo e gli abiti seri e formali, i libri e i farmaci, indosserebbe un cappello altissimo con in punta una stella illuminata, e mi accompagnerebbe nel bosco, nella mia favola, a cercare dettagli, informazioni, cure, pozioni, tra elfi, fate e folletti.
Di certo nel bosco chiunque saprebbe di Mary, e del suo cuore. E del mio amore...
E farebbero tutti il tifo per noi.
Prima di mettermi a letto scrivo:
Noi crediamo davvero nelle cose non perché qualcuno ci dice di farlo, né per una serie di costruzioni, conferme o riscontri, questo è solo quello che ci raccontiamo. Lo facciamo perché il nostro cuore ci suggerisce di farlo, perché i nostri occhi vedono tutto quello che devono anche quando davanti a loro pare non esserci niente. Ho creduto in te nel momento esatto in cui ho incrociato il tuo sguardo e i nostri pensieri si sono baciati nel modo più magico e meraviglioso che mi fosse mai capitato.
Parte Black dei Pearl Jam, ed entro in una sorta di dormiveglia, o sogno, quasi trance: c’è il mio analista vestito da mago, nel bosco, intorno gli elfi e le fate, io sono seduto davanti a un pianoforte nero e lucido. Lui mi guarda e mi dice: «Ti sei perso ancora, vero? Come dal minuto 2:50 fino alla fine di questa». Intanto Eddie Vedder si scioglie con anima, cuore, sudore e voce, nel suo stesso sound, tanto da non capire più se è lui o la chitarra, se è la musica o la vita... «Da quel minuto, Luca, non hai scampo, non puoi non perderti, qui potresti non tornare più.»
Tutti gli elfi e i folletti intorno gli danno ragione e in coro ripetono le sue parole. Ti sei perso ancora, eh? Però sono certo che, se ti ci mettessi, sapresti suonarlo quel riff finale, insieme a Eddie, in fondo, su, hai studiato cinque anni pianoforte classico, e quel dannato solfeggio, quello che odiavi! La interpreteresti bene, ne sono sicuro. Ci metteresti l’anima. Ci metteresti il cuore. Na na na naaa na na naaaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa... Suonando, studiandola bene prima, non ti perderesti, nota dopo nota, non ho dubbi, non ti perderesti come sempre, staresti dritto su quello sgabello, serio, composto, saresti composto, pensa, tu composto! Con le dita a martelletto, col gomito all’altezza giusta, con i quattro quarti del metronomo nel cervello, con i soprammobili e le cornici d’argento, come quando eri piccolo, come quando avevi dieci anni, più o meno, su per giù, saresti bravissimo, te lo direbbero tutti, e non ti perderesti, e la musica ti farebbe essere diverso, ti farebbe sembrare migliore, e parleresti solo con quella, che le parole fanno male, che i fatti fanno male, che le parole e i fatti uccidono, e la musica mai! E non ti perderesti più, oh no! Non ti perderesti più, non ti perderesti mai più, mai più, mai più, non ti perderesti più, mai più, mai più, non ti perderesti mai più... Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa Na na na naaa na na naaa...