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Sbam!

In cuffia suona Filippo Gatti

con Il pilota e la cameriera

Venerdì 23 giugno 2015

Ho conosciuto Mary in un locale di Roma ben frequentato. Cioè frequentato da persone vestite bene, che parlano bene, che bevono bene, che hanno studiato in scuole e università bene e che, anche se fingono di non saperlo, tutto questo, loro, lo sanno bene.

Un genere di posto e di gente che ho potuto conoscere in modo approfondito, un mondo di cui ho incredibilmente fatto parte, ma, in fondo, sempre un po’ da straniero, da imboscato, arrancando, per alcuni anni, senza quasi accorgermene, un mondo apparentemente easy ma schifosamente snob, un po’ come Marco e i suoi occhialini, fatto di falsissimi “Ohi, cavissimo”; “Ti tvovo benissimo”, fatto di gente ricca che compra i vestiti al mercatino dell’usato perché è divertente, a volte, mischiarsi fra i poveri. Un mondo fatto di gente che alterna il Patek Philippe al Casio rigato, con conti in banca da capogiro e la casa all’Argentario, con le scarpe rotte e la fabbrica di scarpe.

C’è stato un tempo in cui subivo il fascino di queste stronzate, forse perché le vedevo lontane e impossibili, belle e irraggiungibili. Era il tempo in cui pensavo che la mia massima realizzazione fosse una bella macchina, vestiti firmati e una modella da esibire quasi come un trofeo. Era il tempo delle cene mondane e costosissime, nelle quali si parlava di business, affari, feste, accordi. Avevo bisogno di essere esclusivo per non sentirmi escluso, per non escludermi. Quel tempo è finito quando ho capito che quelle cose sono vicine e possibilissime, più di quanto si possa immaginare, basta volerle, davvero, basta volerle.

Una pallottola (per esempio la .221 Remington) può viaggiare a una velocità vicina al chilometro al secondo. Voglio dire, il tempo che passa fra la vita e la morte può essere infinitesimale. Il punto è sempre lo stesso: cosa vogliamo fare della nostra breve esistenza? Ecco, io ho capito che quello non è il mio ambiente, non è il mio spazio, non mi ci trovo, non me lo posso permettere, non me lo voglio permettere, non fa per me, non mi piace, non mi diverte. Tutto qui. E quasi sempre è tutto più facile ed elementare di quello che sembra. Quasi sempre, siamo noi stessi a complicare la nostra vita. Quasi sempre...

Mi ritrovo in questo posto per colpa di Paolo, un mio cliente molto facoltoso, che mi ha telefonato dicendo: «Dobbiamo assolutamente incontrarci, devo parlarti».

Voleva discutere di alcune sue importanti esigenze assicurative, aveva già scelto il posto e io non ho potuto dire di no. Sono un broker assicurativo indipendente, e il mio lavoro consiste in questo: dire di sì ai clienti, bere e mangiare con loro, assecondarli. Con Paolo, tra l’altro, ho anche instaurato un rapporto di simpatia che potrebbe definirsi molto vicino all’amicizia, perciò non avrei saputo dire se si trattasse più di lavoro o di piacere.

In ogni caso, lei è là. È con un’amica di Paolo, beve un drink.

Incrocio il suo sguardo appena entrato: è un colpo al cuore. Sbam. Steso.

Quando ci presentiamo, sono già perdutamente innamorato di lei. Senza sapere perché, senza sapere come, senza sapere quando. È successo in una frazione di secondo, o forse meno, come quando inizia a piovere o a nevicare, come quando arriva un terremoto o esplode un vulcano, succede e basta, c’è un momento in cui succede e non c’è niente che possa cambiare quello che sta accadendo, perché è semplicemente già accaduto. Non sai perché stia succedendo, sai solo che non puoi fermarlo, e forse è proprio quello a fotterti del tutto: la perdita di controllo su te stesso.

Le cose belle si presentano così, all’improvviso.

La vita ti travolge, ti investe, senza se e senza ma.

«Piacere, Luca.»

«Piacere, Mary.»

Sbam.

Fottuto.

Sharon, l’amica di Paolo, è in Italia solo per il weekend. È venuta a trovare i genitori, domani ripartirà per gli Stati Uniti – dove vive e lavora da anni – e da lì, dopo pochi giorni, si trasferirà per un anno a Shanghai. Lei e Paolo si conoscono dai tempi del liceo, ma ormai riescono a incontrarsi solo di rado.

Dopo aver scambiato poche formalità con lei e Mary, io e il mio cliente ci appartiamo su un divanetto per parlare. È questo il motivo per cui ci troviamo lì, solo che a me non interessa più nemmeno un po’. Paolo mi spiega quanto sia importante per lui proteggere la sua azienda in caso di guasti macchina, di blocchi della produzione, di perdite di profitto, e io rispondo in modo quasi robotico: «Loss Of Profit, Loss Of Profit, hai bisogno di una polizza chiamata Loss Of Profit, Paolo, è una polizza nata nel mondo anglosassone, la sottoscriviamo con i Lloyd’s di Londra, ho un partner che ha facoltà di farlo...». Nel frattempo osservo lei da lontano, la seguo con gli occhi, col cuore in gola e la gola secca, cercando di non perderla mai di vista. C’è solo lei, solo lei in questo locale alla moda che non mi piace. Trovo lei, invece, decisamente elegante, nonostante sia vestita in modo piuttosto informale: jeans blu scuro stretti infilati dentro un paio di stivali neri con le borchie, maglia scollata che le scopre una spalla, nera, di seta o di un tessuto molto simile. È semplice e nello stesso tempo raffinata, si muove con lentezza e non ride: sorride. Non discute: conversa. Mi viene da pensare che sia geneticamente fatta per uccidere, per non fare prigionieri. Schiena dritta, mani affusolate. Mora, pelle bianca, incredibilmente bianca, meravigliosamente bianca, bianca come lo yogurt, come la neve, come il paradiso... Occhi azzurri, e gialli, e viola, caldi e glaciali allo stesso tempo, occhi belli da perdere i sensi, da non respirare più, da crisi d’identità, con un taglio leggermente orientaleggiante e un accenno di strabismo di Venere. Alta ma non troppo, forse un metro e settantatré, snella ma con le forme al punto giusto, armonica, bellissima, perfetta. Perfetta. Perfetta, cazzo.

A un certo punto Paolo si accorge che sono altrove, che non sono lì con lui e, seguendo il mio sguardo come ci sia un raggio laser che dai miei occhi arriva diretto a lei, mi chiede se voglio tornare dalle ragazze.

«Sì, Paolo. Sarebbe proprio il caso, sì...» Mi scuso, prometto che recupereremo prestissimo la conversazione, e che mi occuperò della sua polizza con la massima premura, come fosse la mia, ma che, ecco, adesso non ho la giusta concentrazione. Non c’è bisogno di dare troppe spiegazioni: Paolo ha capito tutto, il locale ha capito tutto, il mondo ha capito tutto. Perché, quando succede, l’universo intero trema, si rigira e si rovescia, nulla è più come prima. Il colpo di fulmine non colpisce te, colpisce ogni cosa, rendendola per sempre diversa. Quando arriva, sfonda tutto: barriere, muri e strutture. Inutile opporre resistenza, inutile fuggire, perché quando arriva è già dentro di te, e nessuno può scappare da se stesso.

Sharon, l’amica di Mary, è la top manager di una banca d’affari con sede a New York e interessi in tutto il mondo, è piuttosto facile per Paolo attaccare bottone su potenziali investimenti della sua famiglia nel mercato cinese e, da buoni amici, prendono subito a chiacchierare. Io, invece, ho le mani sudate e la bocca asciutta. Sono agitato, ho paura di balbettare, di non trovare parole abbastanza intelligenti, di non essere abbastanza interessante ai suoi occhi. Come quando ti chiedi cosa potresti indossare per piacerle, o di cosa parlare per risultarle interessante, e niente, poi scopri sempre che sono le cose più stupide, quelle prodotte dalla tua ingenuità, dal tuo essere quello che sei, cose a cui proprio non pensavi, ecco, sono quelle cose a farla innamorare di te, e proprio cose così, semplici e piccole, hanno il potere di rendere magici certi momenti. Solo che in questo momento io sono certo di non essere all’altezza, sento il vuoto nella testa... Ma lei è lì, e io ho solo questa chance.

Mentre Paolo discute con Sharon di possibili investimenti nel mercato cinese, io ho la possibilità di scoprire che Mary è un architetto d’interni freelance, che ama l’arte, il rock, il punk, la musica indie, il teatro e la letteratura classica. “Incredibile, Mary ama la letteratura classica, Mary ama Pirandello e Calvino!” In quel breve scambio di parole – sudate e indecise le mie, sicure e chirurgiche le sue – scopro anche che, purtroppo, Mary è fidanzata. Anzi, peggio: convive con un uomo. Più le parlo e più sono nel pallone, più le parlo e più mi rendo conto che in lei c’è anche un qualcosa di irritante, che mi infastidisce, e più mi infastidisce più mi eccita, più mi infastidisce più la trovo irresistibile; è stronza, superba, sicura, ma mantiene un aplomb col quale riesce a mascherare la sua stronzaggine, e la sua superbia.

È figa, lo sa, ma ostenta l’atteggiamento di chi non vuole fartelo pesare, il che, è del tutto evidente, sottintende che in realtà te lo sta facendo pesare, eccome. È cortese e aggressiva insieme, raffinata ma scostante e supponente. E io sono follemente perso. Sono perso di lei, perso dei suoi occhi, perso nei suoi occhi.

Perso. Innamorato. Come non lo sono mai stato prima, come forse non sarò mai più. E non so niente di lei, ma so tutto. E quello che mi esplode dentro non ha senso, ecco perché dà senso a ogni cosa.

Dopo dieci minuti che parliamo, mi dice che deve andare, che ha impegni per cena ed è, anzi, già in ritardo. Io ho retto il dialogo abbastanza bene fino a quel momento, nonostante il senso di panico che mi governa la testa e il cuore.

«Allora stai andando?» le chiedo, nel disperato tentativo di farla restare ancora un po’ con me. E, senza aspettare la sua risposta: «E dimmi, vieni spesso in questo locale?».

«No, è la prima volta.»

«Dài! Pensa... Ero convinto fossi una habitué.»

«Cioè?»

«Cioè mi sembravi proprio tipo da questo locale.»

Subito dopo aver pronunciato quella frase mi pento di averlo fatto. Perché? Perché ho detto una cosa tanto stupida? Certe cose si pensano ma non si dicono. Altre nemmeno si dovrebbero pensare, per non sbagliare...

«Ah sì!? Quindi ci sono “tipi da questo locale”. Mh... E sentiamo, quali sarebbero, secondo te, i “tipi da questo locale”?»

Ha un’aria compiaciuta e divertita, e ha colto il mio imbarazzo, l’impaccio: uno a zero per Mary. Mary è passata in vantaggio. Mary è nata in vantaggio.

«Be’, non lo so... Dài, hai capito, vero?»

Certo che ha capito, ma non ha nessuna intenzione di aiutarmi.

«Sinceramente no, ma deve essere l’ora, o la fame. Non dipende da te, davvero, è colpa mia...» Ridacchia, quasi prendendomi in giro, poi continua: «Dài, facciamo che me lo spieghi in una mail, quello che intendevi, ok?» dice, provocatoria, allungandomi un tovagliolo di carta con sopra scritto il suo indirizzo mail.

«Ok... Ma era così, una cazzata... Comunque mi ha fatto davvero piacere conoscerti... Allora ti scrivo.»

Lei mi fissa, il suo sguardo canzonatorio pare dire: “Mh, ti ha fatto davvero piacere? Sicuro? Cosa cerchi, straniero?”. Eppure, insieme a quelle domande, nel suo sguardo mi pare che ci sia anche un interesse nei miei confronti. O forse è solo una mia interpretazione. Forse è solo quello che spero.

Subito dopo si gira verso Sharon, che annuisce.

«È ora di andare, vero, Mary? Bene, sì...»

Entrambe salutano Paolo, poi Sharon si rivolge a me: «Ciao, piacere di averti conosciuto!».

«Piacere mio, Sharon!» rispondo, accennando un velato inchino.

A quel punto mi giro verso Mary e la guardo negli occhi, allungo la mano e lei mi dà la sua, accompagnandola con un sorriso disarmante.

Sono pietrificato.

«Allora ti scrivo via mail...»

«Ok.» Fa ancora ciao con la mano mentre si gira e va.

E va...

Ecco, io dico che è sempre un nuovo viaggio. Anche quando ci sembra di tornare, in realtà stiamo andando, ancora una volta. Non esistono arrivi. Non si arriva mai, non si torna mai, nessuno lo fa davvero, ma solo perché non è possibile, non per altro. Ogni mattina usciamo di casa, e la sera scopriamo un nuovo modo di essere ancora lì, a casa, di esserci ancora, ma il tragitto non è mai lo stesso, anche quando ci sembra di percorrere gli stessi identici passi.

Il viaggio, prima di tutto, è dentro di noi, nel nostro cuore: anche lì dentro funziona così, non siamo mai la stessa cosa, pure se a volte fingiamo che sia così, o cerchiamo di convincercene. O di convincere il mondo.

L’amore è un viaggio senza ritorno, come tutto il resto. Quella sera, io e Mary, rientrando a casa, nelle nostre rispettive case, non eravamo più gli stessi. E, per un motivo o per un altro, non lo saremmo stati più.