22
Sensi di colpa...
In cuffia Beirut
con The Rip Tide
Martedì 5 dicembre 2015
Daniela, l’avvocato-single-gran-culo-trentenne amica di Franco e Angela, mi è sembrata una persona stimolante, tanto da spingermi, nei giorni successivi, a risentirla qualche volta, e addirittura decidere di rivederla, chiedendole di uscire – e in questo periodo della mia vita una roba del genere è una notizia sensazionale. Ho anche evitato con discreto successo di operare nella mia testa qualunque confronto con Mary o col desiderio che avrei di vedere lei, desiderio che, se preso come metro di valutazione assoluto, renderebbe avvilente qualunque alternativa.
Abbiamo fissato per domani sera dopo cena. La porto a bere qualcosa al Pellè, un piccolo locale che a me piace tanto, in zona Pantheon.
Oggi invece la giornata si prospetta lunga: alle otto, contrariamente alle mie abitudini, sono già in macchina per andare a un appuntamento, ma appena partito squilla il telefono.
«Dottor Marini, buongiorno.»
«Buongiorno, dottor Lenza! Che succede?»
«Devo chiederle di posticipare di una mezz’ora, ho dovuto all’ultimo momento accompagnare mio nipote a scuola e non sa che delirio per strada, sono imbottigliato nel traffico... Mi scusi, eh!»
«Ma si figuri, dottor Lenza, faccia con calma. Ci vediamo alle dieci, allora, e se dovesse ritardare l’aspetto, non si preoccupi, conosco questo genere di imprevisti, passo molte ore in macchina!»
«Bene, la ringrazio. A dopo.»
Nel frattempo riparto e, percorso nemmeno un chilometro, qui, su via Casetta Mattei, rallento, giro la testa e la fisso: è proprio lì, sulla mia sinistra... In realtà ci passo tutti i giorni, ma questa volta decido di fermarmi, sì, mi fermo, tanto a questo punto sono in netto anticipo con l’appuntamento, e poi l’orario è quello di un tempo, le otto e dieci, quello in cui si entrava...
Scendo dalla macchina, arrivo al cancello e guardo dentro, dalla grata verde. C’è il parco con le panchine dove trascorrevamo la ricreazione, e gli scalini, che ricordavo enormi, e alti, e infiniti. Le porte in vetro, gli alberi ad alto fusto, il profumo di resina e di pigne, il profumo di buono, e di vecchio, e di mio... Inspiro forte, e inspiro forte, e ancora, e trattengo il fiato, e trattengo le lacrime, e trattengo le urla. Come stanno le cose lo capisci presto, quando a tredici anni vedi crepare tuo padre davanti a te, soffocato da un male infame, lento e inoperabile. Un male che sembrava sconfitto, piccolo, risolto, ma che poi torna, si moltiplica, e ti fa scattare, all’improvviso, di notte, agli orari più assurdi e improbabili, per il rumore sordo e indimenticabile dei colpi di una tosse cupa, diversa, esplicitamente maligna. Finché, una cazzo di domenica pomeriggio, ti rendi conto che ha vinto lui e hai perso te, e hanno perso tutti quelli a cui vuoi bene, e poi nulla, poi ti resta il profumo di resina e pigne...
Ecco, da quel momento, pure se non volevi, cominci a mettere in preventivo un sacco di possibilità che prima ignoravi. Sai che può succedere di perdere, di perdere vero, di perdere tanto. E sai che i pugni più duri, nella vita, non arriveranno da una rissa, o dal kick boxing. Sai che ogni lacrima che verserai, in futuro, dovrà essere centellinata, e giustificata, e ne dovrà valere la pena, per il tuo orgoglio, per la tua dignità, per la tua storia. Sai che tutte le volte che guarderai i tuoi fratelli e tua madre, ti ricorderai di quanto è stato brutto vederlo andare, e di quanto è stato bello sapere che loro erano là, con te, e tu là, con loro. Sai che non ci sarà più, e che non ci sarà, soprattutto, quando avrai bisogno del consiglio di un uomo, e proverai a essere tanto bravo da cercare consiglio altrove, e tanto scaltro da capire di chi fidarti, ma metterai in conto, nel caso, di agire anche senza quel consiglio di merda, ché a dare testate random, nella vita, si cresce e si diventa più forti. Capirai che di papà, nel cammino, se lo vorrai, ce ne saranno altri, in modo diverso, ma col cuore sincero, e starà solo a te, deciderai tu se e quando aprirti...
Quindi le cose, oltre a sapere come stanno, le osservi e le studi, e le senti, e le pesi, e decidi quello che per te è il giusto valore da assegnare a ogni elemento, il giusto quantitativo di stress da destinare a questo o quel tratto di vita, l’esatta porzione di indipendenza e di solitudine da difendere con le unghie.
E tutta ’sta roba, che cazzo, non ti aiuta a non soffrire per una storia d’amore finita male o per il tradimento di un amico. Non ti aiuta a non buttarti in cose assurde, in situazioni sbagliate o pericolose. Non ti rende immune dalla sbroccata, non ti impedisce di montare in macchina alle tre di notte, di guidare sei ore di seguito per arrivare alle nove da lei, per fare l’amore con lei, per sussurrarle nell’orecchio che lei è tutto per te, e che la trovi sexy da star male, e che la sposerai, per poi ripartire dopo qualche ora, no, non te lo impedisce, grazie a Dio, no! Però ti aiuta a essere consapevole, consapevole delle cose che succedono, consapevole che il tuo cuore, la tua psiche e le tue palle ce la faranno ancora. Ancora una volta.
E le cose stanno così, stanno nel modo in cui devono, nell’ordine di arrivo. E sì, c’è... c’è che questo ti segna, ok, ma non ti rende migliore, e nemmeno speciale e, inspiegabilmente, tutto sommato, non ti genera neanche così tanto rancore, voglio dire, non ti fa essere più cattivo, ma fa di te, semplicemente, uno che sa bene come è andata e come può andare. Uno che ha delle cose dentro, ecco, delle cose da ricordare e da tenere a mente.
A scuola, quell’anno, scrissi un tema. Titolo: L’attesa. Non riesco a ricordare nulla di quel che scrissi, se non che parlai di mio padre e della sua dipartita. Il tema fu letto e riletto pubblicamente, e poi si decise che era il migliore dell’anno scolastico. L’aggettivo che più si usava per descrivere il tema era: commovente. Dunque, non sono fiero di quel piccolo riconoscimento, anzi, sinceramente, non me ne frega un cazzo ma, ripensandoci, ricordo che non capivo cosa ci trovassero di tanto commovente e mi impressionava il modo che avevano di guardarmi. Provai pena per me stesso, senza comprenderne il motivo. E sentivo un assurdo senso di colpa. Forse perché la commiserazione che leggevo negli occhi di tutte quelle persone mi faceva sentire in difetto: quasi come se cadesse su di me il dovere di stare male, disperarmi, nel modo più palese possibile. Mi sentivo spaesato, semplicemente spaesato, tutto qua. E, valutandolo a posteriori, questo sì, questo sì che è commovente.
Così, dai tredici anni ai venti la mia vita prese una piega particolare: ero tendenzialmente, banalmente, convinto che il mondo fosse solo mio. E non pensavo mai prima di agire, non aspettavo mai prima di rispondere, non riflettevo mai prima di parlare, o di mandarti affanculo. E quando mi dicevano di stare calmo, o di riflettere, io niente, io un cazzo... Ed ero così tanto preso da me, dal mio ego enorme, che non c’era posto per nessun altro nei miei pensieri, e nei miei sogni, e nel mio cuore, e nei miei incubi, ché non mi dovevi toccare nemmeno quelli, gli incubi. Dai tredici ai vent’anni sbroccavo un giorno sì e l’altro pure, con chiunque, ero una scheggia impazzita, con i miei, con gli amici, per strada, a scuola, al bowling, in discoteca. Ed era “cazzo hai detto!?”, ed era “cazzo guardi!?”, ed era piangere di rabbia, piangere di rabbia. Forse perché ero molto incazzato con lui, con mio padre che, vaffanculo, aveva deciso di morire di quella malattia, così, per cazzi suoi, senza chiedere se io fossi d’accordo, senza avvertire, cazzo muori, dico io, cazzo muori? E ok, le cose stavano così, stavano in quel modo, ma era proprio un modo del cazzo. Io non volevo proprio essere uno che gli era morto il padre da piccolo. Ché, se ti muore tuo padre da piccolo, è triste, e tua madre, se ti muore tuo padre da piccolo, la guardi ed è triste, e la casa, se ti muore tuo padre da piccolo, è vuota, ed è triste. E tutti, se ti muore tuo padre da piccolo, ti fissano e pensano che tu sia triste. Ero incazzato con lui perché la notte lo sognavo tantissime volte, sognavo che, in realtà, non era morto, ma vivo, e che, semplicemente, non volesse più stare a casa con noi, sì, che ci aveva abbandonato per un’altra famiglia, lo sognavo che mi guardava impassibile con quella faccia da stronzo, fredda, distaccata e glaciale. Lo sognavo andare via con una macchina bianca, la sua. E, nel sogno, io lo imploravo di restare, e lui niente, lui un cazzo... c’aveva abbandonato, a me, a mia madre, ai miei fratelli e a tutti gli altri. Ah, i sogni, mah...
Ero incazzato con lui, poi, perché prima di morire, in ospedale, mi aveva chiesto se potevo portargli un orologio da polso più leggero di quello che aveva, uno nel quale si leggesse meglio l’ora. Negli anni successivi, fino a ieri, quell’orologio io me lo sono sempre immaginato bianco, tipo Swatch, con le lancette nere...
Ecco, quell’orologio di merda, no, non gliel’ho mai portato. E lui me lo fece pure notare, me lo fece notare poco prima di, poco prima di. Non so perché non gliel’ho portato, forse me ne ero solo fottuto, forse me ne ero solo scordato, forse ero solo un bambino. Ché forse, a tredici anni, era normale essere un po’ menefreghista e non credere che davvero tuo padre stesse per crepare. Forse. Ma avevo il senso di colpa, ce l’ho avuto per tanti anni (e forse ce l’ho ancora), e lo trasformavo in rabbia, e lo trasformavo in astio, o forse erano la rabbia e l’astio che trasformavo in senso di colpa per un fottuto orologio bianco con le lancette nere che non è mai esistito. E non piangevo mai, ed era “vaffanculo al mondo!”.
Sensi di colpa... Non mi rendo nemmeno conto che si sono fatte le nove e un quarto. Sto facendo tardi, devo andare, e pure di corsa. Faccio un ultimo respiro profondo e via, mi precipito all’appuntamento.
Il dottor Lenza è un simpatico e gentile dentista. Ha bisogno di una polizza di responsabilità civile e professionale, qualcosa che lo garantisca in caso di danni alla salute dei suoi pazienti: anche i medici sbagliano.
«Dottor Lenza, purtroppo sono molto costose le polizze RC professionali per voi odontoiatri...»
«E perché mai, Marini?»
«Perché il rischio è alto, le denunce dei pazienti sono tante e, nell’insieme, le compagnie spendono più in risarcimenti ai pazienti di quello che incassano dai vostri premi assicurativi... E le compagnie, si sa, non amano essere scambiate per opere di beneficenza.» Accenno un rispettoso sorriso che lui ricambia.
«Capisco, Marini... In effetti oggi i pazienti alla prima stronzata ti fanno causa, non sanno quanto sia dura e delicata la nostra professione, se ne approfittano. Alcuni lo fanno per non pagare il conto, ah, sì! Glielo dico io, Marini, alcuni sono in malafede...» Avvicina l’indice sotto il suo occhio, tirando leggermente la pelle in giù, come a dire: “Io ci vedo lungo”.
«Lo so, dottor Lenza, capita anche questo...»
«Quindi, la sua migliore proposta è tremila euro l’anno?»
«Sì, io di meglio non posso offrirle... La compagnia che abbiamo trovato, fra l’altro, è molto seria, è fra le prime due italiane per grandezza e solidità.»
«Va bene, Marini, procediamo, non voglio essere scoperto un giorno di più.»
Saluto il dottor Lenza e mi avvio.
Sempre di corsa, sempre col cronometro. Ma cosa corro? Dove vado?
Alle quindici, dopo mille giri, sono in ufficio: al terzo piano di una bella palazzina in via Parini, zona residenziale semicentrale limitrofa al Gianicolo. Ho un vecchio contratto di affitto, che è stato abbastanza vantaggioso fino allo scorso anno, prima di subire un brusco adeguamento del canone. Lo studio è composto da una stanza piuttosto grande in cui ci sono due scrivanie, la mia e quella di Nicola. Poi c’è uno stanzino con fotocopiatrice, macchina del caffè e frigorifero. E, infine, un bagno. Nella stanza delle scrivanie c’è una grande finestra che dà sulla piazza sottostante e rende il locale molto luminoso. Per terra c’è il parquet, e le porte sono bianche e rifinite. Insomma, non è male, il mio piccolo ufficio.
Mi siedo e controllo le mail, quelle da leggere, quelle da inviare. Trascrivo gli incassi, faccio i conti delle spese correnti, do un’occhiata alla banca online. Rispondo ad alcune telefonate di clienti sul cellulare, e ad altre che mi passa Nicola al fisso. Ascolto dieci messaggi in segreteria accumulati negli ultimi giorni. Controllo il cellulare personale: nessun segnale di Mary, ma ha visualizzato il mio messaggio di domenica. Perché non mi risponde? Mi farà impazzire. Ce n’è uno di Stefano, l’ennesimo, mi chiede che fine abbia fatto, e aggiunge una linguaccia. Uno di Franco che mi manda un link di un video porno... C’è anche un WhatsApp di mio fratello Daniele:
Daniele: “Ho preso il patentino!”.
Luca: “Complimenti! Ora puoi allenare?”.
Daniele: “Potevo farlo anche prima, ma ora ho i titoli per allenare anche nel circuito professionale!”.
Luca: “Bene! Ancora complimenti!”.
Mio fratello è un forte appassionato di sport, in particolare ama il tennis e il calcio, e ha sempre sognato di fare l’allenatore. Due anni fa ha deciso di seguire il corso organizzato a Goreto, quello che ti prepara all’esame da allenatore professionista. Inizialmente, considerata la sua età, non ne comprendevo il senso, lo trovavo un po’ ridicolo. Ma ora comincio a capire. Ha senso. Perché lo ha per lui, quindi ha molto più senso di quel che potessi ottusamente immaginare...
Controllate tutte le notifiche, preparo due preventivi e attivo tre polizze, fra le quali quella del dottor Lenza. Quindi compilo e fotocopio alcuni bollettini, domani devo andare alla posta e pagarli. Domani c’è pure il pagamento mensile di una cartella esattoriale, debiti personali. E che ho scoperto di avere pochi mesi fa, come se non bastasse tutto il resto... E poi fra pochi giorni l’anticipo delle tasse. Tempo, soldi, tempo, soldi... ne ho bisogno, me ne servono ancora, non mi bastano mai. O forse ho bisogno di altro. Senza dubbio, ho bisogno di altro.
Sulla mia scrivania ho un oggetto in alluminio che accoglie e incorpora tre clessidre, che contano rispettivamente tre, quattro e cinque minuti. Ogni volta che le attivo e parte quel conto alla rovescia impetuoso, mi interrogo sul concetto di tempo, sul suo valore. Quotidianamente, nel mio lavoro, nel mondo del business in generale, sento gente ripetere che il tempo è denaro. Il concetto di tempo è pragmaticamente legato al concetto di poter fare una certa quantità di cose, di soldi, di attività.
Penso che anch’io vorrei vederla in questo modo, nel mio cuore. Perché allora la dissonanza fra ciò che devo fare e ciò che vorrei fare si annullerebbe. Perché sento ogni giorno di più che, per me, il tempo e le sue espressioni sono solo “momenti”. Non possono valere di più. E se per viverne uno, di momento, che per me valga la pena d’essere vissuto, ecco, se dovesse servire tutta la vita, per quel momento, io la metterei sul piatto oggi, la vita. Tutto il resto sono granelli di sabbia che scorrono, solo granelli. E bollettini. Troppi bollettini...
Alle 17 esco, incontro un cliente in viale Marconi, una cosa veloce, gli consegno semplicemente in mano due polizze che ha già pagato. Salutato il signor Baldelli, entro in un centro commerciale.
I centri commerciali, al mio palato, hanno un fastidioso retrogusto amaro. Quello che mi fa percepire di avere tutto, intorno, senza avere niente. Il pieno che genera il vuoto. Il troppo che annoia. La perfezione che ti ricorda che non è reale. L’eccesso di colori che alla fine ne restituisce solo uno: il grigio.
Compro il regalo a mia nipote Benedetta, la figlia di mio fratello Lorenzo, quello che canta e suona e non sapeva dei Beatles... Poi, prima di uscire, faccio un salto in una libreria. Vorrei comprarle un biglietto di auguri, compie tredici anni, oggi. Le ho preso un bel regalo, cioè una cosa che io ritengo bella e figa: un tavolino nero, da mettere nella sua stanza, lucido, laccato con una stampa della bandiera inglese. “Lo zio fico fa il regalo bello e fico” ho pensato. “Lo zio fico poi, a volte, in passato, se n’è infischiato della nipotina, e non va bene” ho pensato. E il concetto fila, c’è solo da stabilire se io sia fico, come zio.
C’è un buon profumo nella libreria. Si respira aria leggera, fresca. E dire che ci troviamo in questo centro commerciale chiuso, freddo, dozzinale. Senza cornice, senza poesia, senza aspettative, eppure eccolo... Il potere evocativo della carta stampata!
La commessa è un tipo carino, piccolina, riccia, mora, occhi neri neri. Riservata, silenziosa, schiva. Dice: «Salve» quando entro; dice: «Non c’è problema» quando le chiedo se posso poggiare l’ingombrante regalo impacchettato col fioccone sulla cassa; dice: «Ecco, qui» quando le domando dove posso trovare i biglietti di auguri; dice: «Certo» quando le comunico che ne sfoglierò alcuni per farmi un’idea su quale comprare; e dice: «Questo» quando, troppo indeciso, le chiedo di scegliere il biglietto al posto mio. E poi ascolta a volume basso un CD di Flavio Giurato, Il tuffatore, meraviglioso...
Io invece tendo a parlare molto, in questi casi. Perché mi sento in dovere di farlo, per non so quale comica e incomprensibile deriva psicologica. Perché mi sento a mio agio, perché percepisco un vuoto dialettico e comunicativo da colmare. Perché ho l’impressione di non essere oggetto di aggressione commerciale alcuna. Ecco. Per queste e altre mille imperscrutabili ragioni. Ma alla cassa esagero...
«Cavolo, mi sono ridotto all’ultimo momento per comprare il regalo a mia nipote, ma sa, si lavora sempre fino a tardi!»
«La capisco. Non lo dica a me.»
«Le dispiace se scrivo qui il biglietto?»
«Ma prego!»
«Potrebbe prestarmi una penna? Scusi, eh!»
«Ci mancherebbe. Per così poco. Ecco a lei.»
«La ringrazio. Vediamo, ok. Dunque... Ho scritto: “Auguri! Ti voglio bene, zio Luca”. Che dice, va bene? Potevo fare di meglio, vero?» E sorrido.
«Ma no, sintetico ma eloquente. Perfetto, direi.»
«E, senta, mi dà anche quella fantastica matita col diamante Swarovski in punta, per cortesia, quella con la pietra rossa... Che dice, va bene, è carina per una ragazzina di tredici anni?»
«Molto. Ne vendo tante, soprattutto alle ragazze di quell’età.»
«Bene. La unisco al biglietto d’auguri. Magari la attacco con lo scotch, che ne pensa?»
«Ehm... Sì. Sì...»
Non credo ne fosse molto convinta.
«Potrebbe prendere lo scotch che ci proviamo?»
«Certo. Anche se, ecco, non ho ben capito. Come vuole fare? Come vuole attaccarla?»
«Con lo scotch. Lo faccio io, se permette, non si preoccupi. Ecco, prendo un pezzetto di scotch, vede? E poi la fisso sul dorso del biglietto, così. Be’, sì, non è il massimo dello stile, ma è originale, no? Fa molto pop art. E poi, e poi se non dovesse piacerle, ciccia! Certo... certo che lo scotch si nota molto, vero? Non è bellissimo a vedersi. Non so, pensavo fosse quasi del tutto trasparente. Ma che tipo di scotch è questo? Fa lo stesso, ormai è andata. Crede le piacerà? Al limite la butta, o no?»
«Non la butterà. Se è una bambina intelligente, non la butterà. E lei è molto autocritico.»
«Co-come?» balbetto. «Forse. Sì, forse.»
Lei insiste, fissandomi negli occhi: «Troppo. Credo troppo!».
A un tratto non è più la commessa riservata e silenziosa di qualche minuto prima. Ma i suoi occhi sono sempre molto, molto neri, nerissimi. Esiste il rischio di sprofondare negli occhi di qualcun altro? Se sì, sto rischiando di brutto.
«Non so, sì, forse troppo. Ha ragione, lei ha studiato Psicologia?» Sorriso mio, piuttosto impacciato.
«No, Lettere. Ho studiato Lettere.»
Non stacca lo sguardo. Cazzo.
«Bene. Perfetto. Perfetto. Lettere. Certo. Libreria, Lettere, eh?!» E mimo, con l’indice e il pollice, il gesto della deduzione, dell’automatismo. Di ciò che vien da sé e che non poteva essere altrimenti.
«Lettere!» E ridiamo entrambi.
«Pago con carta. Eccola. Ecco il documento.»
«A posto... E questa è per lei. Grazie.»
«A lei. Allora le auguro una buona serata! E... Lettere!?»
«Lettere, giuro!» ride e prosegue: «Buona serata, auguri alla nipote!».
«Grazie, grazie!»
“Autocritico.” “Poco indulgente.” “Rigido.” Sono troppo critico con me stesso. E chi me lo viene a dire? La piccola e silenziosa libraia, dagli occhi neri neri, pericolosi pericolosi, che ha studiato Lettere Lettere e che, del resto, come poteva essere altrimenti? E io cosa sono? Un libro aperto? Aperto sì, ma non verso i miei occhi, aperto verso lo sguardo disattento e indifferente del mondo intero. Che io ce l’abbia, per qualche motivo, con me stesso? Che non abbia lavorato a sufficienza su me stesso? Che sia il momento di smetterla? E ho bisogno di qualcuno che me lo dica. E ho bisogno di qualcuno che mi faccia pensare che, sì, dovrei rilassarmi. E ho bisogno di qualcuno che mi dica: “Fanculo, fottitene!”. Qualcuno che pensi che vado bene così come sono, senza ulteriori sbattimenti. Senza ulteriori domande. Qualcuno che mi guardi negli occhi e mi dica: “Basta! Tranquillo!”. Ho bisogno di una commessa che mi prenda fra le sue braccia, stringendomi, e mi dica: “Piangi, piangi!”. Ho bisogno di essere coccolato, perché non sono un robot, perché un biglietto è un biglietto, perché una matita è una matita, e lo scotch, ecco, è solo scotch... non fa i miracoli, e nessuno li fa. Perché nessuno è magico. Nemmeno io.