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Se non posso avere te non posso avere niente

In cuffia suonano i Radiohead

con Idioteque

Martedì 10 ottobre 2015

Era la fine di giugno, ero in pausa pranzo e a un certo punto mi è venuta voglia di mandare una foto su WhatsApp a Mary. Poi le ho scritto: “Guarda che spettacolo quel piccolo portone che vedo dal bar dove sto pranzando qui in vicolo del Cinque! Guarda quei mattoncini intorno all’arco! Guarda che meraviglia l’edera sulle pareti! Non ti sembra un miracolo tutto l’intero palazzetto? A me fa pensare a un ponte verso l’infinito, verso la felicità, a una scala che sale e arriva in cielo passando il turchese e il rosa delle nuvole...”.

Mary: “Insalata? Mangi un’insalata?”.

Luca: “Insalata! :)”.

Luca: “E faccio pure jogging, devo mantenermi in forma, ho una reputazione da proteggere, io! :P”.

Mary: “Coatto! :P”.

Luca: “Assolutamente! :P”.

Mary: “Quindi in mezzo alla settimana ti sollazzi con pranzetti in quel di Trastevere? Bene. Bella vita!”.

Luca: “Ho un cliente in zona! :P”.

Mary: “Raccontami qualcosa di te”.

Luca: “Cosa vuoi sapere?”.

Mary: “Qualcosa. ;)”.

Luca: “Che faccio il broker lo sai...”.

Luca: “Ho un ufficio in zona Gianicolo”.

Luca: “Dai 25 anni ai 28 mi giravano un sacco di soldi. Auto costose, maglioni hipster e avevo il mondo nelle mie mani (questo era quello che credevo)... Ero ambizioso e piuttosto spregiudicato, ero convinto che nella vita ci fosse bisogno di avere e apparire per poter essere. Poi è cambiato qualcosa. C’è stato un momento...”.

Mary: “Un momento? Su, non essere timido”.

Luca: “Non sono più convinto di certe mie priorità, credo di essermi costruito, anni fa, una scala di valori sballata, non adatta a me... Sotto ogni profilo, etico, morale, personale... Ma non è facile da spiegare, non così. Magari davanti a una birra sarebbe diverso...”.

Mary: “Oh, davanti a una birra tutto è diverso! :D”.

Mary: “Quindi, non ti piaci?”.

Luca: “Ecco... Diciamo che al momento la mia vita ha un suono che non mi convince...”.

Mary: “Ma in quell’insalata ci sono solo verdure?”.

Luca: “Ma davvero della foto che ti ho inviato l’unica cosa che ti ha colpito è il piatto sul mio tavolo?”.

Mary: “No, anche la collana con le pietre verdi esposta nel negozio accanto alla “scaletta delle magie”! :P (lo ammetto, il palazzetto è molto bello, e tanto, tanto dolce e poetico il modo in cui l’hai descritto... Dio ma mi senti? Adesso basta sentimentalismi, però, eh! Bleah! :P)”.

Mary: “Comunque, tornando a noi: eravamo alla scala di valori, al suono della tua vita e blabla...”.

Luca: “Sai, oggi, mentre ero in macchina che correvo da un cliente, ho scoperto la cosa più incredibile del mondo: in questo viaggio di gruppo che stiamo facendo, alla ricerca della felicità, ci illudiamo di sapere dove stiamo andando, e come ci stiamo andando. Programmiamo, prenotiamo, calcoliamo... Ah... Tutto inutile! La verità è che non lo sa nessuno dove finirà, perché dire: ‘Arriverò lì’ non ha nulla a che fare col volerlo davvero, tantomeno con l’arrivarci”.

Mary: “Basterebbe avere l’impossibile per essere felici. O un’insalata di verdure... :P”.

Luca: “:)”.

Luca: “E tu, sei felice? Non mi dici nulla di te?”.

Mary: “A volta ho paura di perdermi”.

Mary: “Posso dirti questo”.

Luca: “Perderti?”.

Mary: “Perdermi!”.

Luca: “...”.

Mary: “Smettila di fare il maniaco con tutti quei punti di sospensione! :P”.

Luca: “Ahah! Sei tremenda!”.

Mary: “Sì, Luca, sono tremenda. Tremenda, stronza e fidanzata! :)”.

Luca: “Quando ci vediamo, allora? Ti prometto che non ci perderemo!”.

Mary: “Questo non puoi prometterlo. E comunque non capisco perché dovrei vederti! :P”.

Luca: “Me l’avevi promesso! Eh... :P”

Mary: “Eccolo che ricomincia con i puntini!”.

Questo è stato uno dei primi scambi su WhatsApp fra me e Mary. Poi, qualche giorno dopo, l’avrei incontrata al Pigneto... E in effetti no, non era mica poco quello che aveva detto, di aver paura del buio. Ma io ancora non l’avevo capito.

Oggi, 10 ottobre, è il compleanno di mio fratello Lorenzo. Dopo la festa raggiungo Mary, che si trovava a un addio al nubilato.

Mary: “Vogliamo fare al Trinity Village?”.

Luca: “Il locale frequentato dagli studenti americani?”.

Mary: “Sì”.

Luca: “Va bene! :)”.

Luca: “Alle 23?”.

Mary: “Ok, ma come sempre potrò stare poco, un’oretta, non di più”.

Luca: “A dopo!”.

Alle 23 siamo seduti sugli sgabelli del Trinity, come due universitari. Accanto a me ci sono due ragazze messicane, sui venticinque anni, piuttosto vivaci. Non fanno altro che urlare e scambiarsi sorrisetti ammiccanti. Accanto a Mary, un americano gigante, con dei muscoli assurdi e una T-shirt bianca attillatissima, fissa i monitor nei quali viene trasmessa una partita di football, credo in diretta. A ogni errore dei giocatori della sua squadra del cuore batte i pugni, imprecando e lanciando insulti verso la tv. Quando invece approva, alza le braccia al cielo e grida: «Yeah!». Ogni suo colpo fa tremare tutto il bancone, noi compresi.

Nonostante questo vicino così vivace, Mary sembra un po’ adombrata.

«Hey, cos’hai? Vogliamo trovare un posto più lontano dal tipo?»

«Ma no! Sai che me ne frega!»

«E cos’hai?»

«La serata non è stata delle migliori. Dovevamo festeggiare la futura sposa, ma poi ci è arrivata la notizia che Barbara, una nostra amica, ha perso il bimbo che aspettava...»

«Cazzo, mi spiace!»

«Tranquillo, ora non ci pensiamo, siamo al Trinity Village!» dice, e sfodera un sorriso disarmante.

«Ok...» Ricambio il sorriso. «Oh! Era una vita che non ci mettevo piede!»

«Anche io!» esclama e batte il pugno sul bancone, ma in modo molto meno rude del gigante americano.

«Non me lo ricordavo così buio, però.» Butto giù un sorso di birra. L’ho detto senza pensarci, e proprio per questo la sua risposta mi lascia spiazzato.

«Per me il buio è specchiarsi e non vederci nulla dentro» dice, e mi fissa in modo intenso e profondo.

«Cioè?» domando, confuso. Ma intuisco subito che mi sta parlando di qualcosa di serio e intimo. E che la “serata no” non è per niente superata. Lo capisco dal timbro che usa, dal tono. Da come si irrigidisce.

«Cioè un corpo senza un’anima.»

«Perché dici questo?» le chiedo con pacatezza, e le sorrido dolcemente.

Lei invece è seria, e glaciale. «Perché una volta ti ho detto che avevo paura del buio.» Fissa il suo bicchiere di birra, prima di berne un po’.

«Lo ricordo perfettamente.» Anch’io seguo il suo boccale mentre si inclina, in aria, verso la sua bocca, per permetterle di bere.

«Il buio è una ferita invisibile, fra il cuore e lo stomaco» continua, e mi guarda, come per accertarsi che le sue parole non mi stiano intimidendo. Io accenno un sorriso, e annuisco. Quindi va avanti: «Lo capisci perché brucia, proprio lì, fra il cuore e lo stomaco. A volte brucia come alcol sul taglio, su quel taglio aperto da chissà quanti anni, col sangue che cola e cola e cola». Si interrompe un attimo, con lo sguardo fisso nel vuoto... «Ma quanto sangue c’è? Quanto cazzo ci si mette a morire dissanguati? Possibile che ci vogliano anni? È un disturbo cronico non mortale, è un’agonia? Ti svuota, ma non ti rende tanto leggero da volare. Le ferite peggiori sono quelle che non si vedono, quelle che la gente non vede o non vuole vedere, meno si vedono più lentamente si rimarginano. Più lentamente si muore. Certe ferite non si vedono per niente, forse è per questo che non si rimarginano mai.»

«Ok, Mary...» Lo dico con un filo di voce. Non l’ho mai vista tanto seria e malinconica. E capisco che la brutta notizia della sua amica e del bimbo perso è stata solo la molla...

«Lo capisci perché ti fa saltare la notte, perché brucia, fra il cuore e lo stomaco. Ma non le dai una forma, sai che dovresti, ma non lo fai. Non puoi abbattere un muro che non vedi, non puoi centrare un bersaglio senza prima inquadrarlo, non puoi rispondere a una domanda che non sai come formulare e che hai paura di vedere, hai paura di illuminare e ritrovarti là, davanti agli occhi. Brucia e si prende tutto il resto, se glielo permetti, se non accendi la luce.»

«E tu non permetterglielo, dalle una forma, adesso, accendi la luce!»

«Pensi sia così facile?» Ride sarcasticamente, serrando la mascella. «Hai mai provato a fare a botte con un pugile che prende anfetamine e non sente i colpi? Hai mai provato a urlare con qualcuno che urla così forte da non emettere nemmeno un suono, da non sentire i colpi?»

«Direi che la mia vita è stata questo, finora, Mary: è stata urlare e fare a botte con un pugile che prende anfetamine e non sente i colpi. E non emette suoni...» Mi interrompo, ma aggiungo subito: «e il pugile sono io...». Lei mi fissa, pare credere alle mie parole... E io concludo: «Quando troveremo il coraggio di guardarci davvero dentro, di guardare il nostro buio, ci ritroveremo sdraiati su un prato a non fare niente di quello che oggi ci sembra tanto importante».

Nel frattempo prendo una penna vicino al distributore delle birre e scrivo sulla sua tovaglietta di carta: “Ti va di farlo insieme? Ti va di accendere la luce con me?”.

Lei osserva la scritta, sorride e mi guarda... «Luca...» Poi scuote un po’ la testa... «Ma tu lo sai cosa dici? Lo capisci che è solo dopo aver acceso la luce che inizia la salita? Quella è la parte più dura! Lì serve cuore e coraggio. E sincerità. Se decidi di accendere la luce con qualcuno, poi ti sei preso una responsabilità, hai scoperto il suo cuore, poi non puoi dire: “Ah, ok, che schifo, la rispengo!”. Lo capisci!?» Il suo tono è secco e vibrante. E pieno di paura.

«Non accenderei mai la tua luce se non fossi certo di voler restare, Mary...»

Mi accarezza il viso: «Sei bello...». Raramente me lo ha detto, e mai con tutta quella dolcezza. Piega la tovaglietta, quella dove ho scritto, e mentre la mette in borsa mi dice che deve andare. «C’è già qualcuno pronto ad accendere la luce, Luca...» mi fissa in silenzio e poi continua: «C’è già qualcuno...».

Io la guardo negli occhi e non emetto un suono.

«Ora vado» dice ancora lei, «è mezzanotte e mezza! Scusami, questa sera ti ho ammorbato con la mia negatività...» E mi fa un’altra carezza.

Pago e usciamo.

Fuori ci salutiamo con un abbraccio. Poi, appena si gira per andare, io le dico: «Accendere la luce, guardare quella ferita, sconfiggerla, ecco, non è una cosa che si può condividere con chiunque... La felicità non esiste fino a che non la inventiamo».

Lei si volta, mi fissa e accenna un sorriso.

«Ciao, Luca...»

Dovremmo comportarci come bambini, adulti-bambini che sanno quando riflettere e fermarsi, e quando fottersene e continuare a giocare con le ginocchia sbucciate. Bambini che corrono e ridono e cascano e si rialzano, e corrono ancora, e ancora, come se non dovessero cadere mai, come se non dovessero cadere più.

Vorrei essere, anche solo per un po’, la cosa più importante della tua vita. Il punto più sbilanciato dei tuoi pensieri. Il motivo che ti spinge a dire che per certi errori vale la pena continuare a sbagliare. E che per la felicità vale la pena continuare a rischiare. Voglio te perché non voglio altro. Se non posso avere te non posso avere niente.

Quello che vorrei sarebbe entrare nella tua vita e migliorarla, anche solo un po’, perché se dovessi scoprire di renderla più brutta, ti giuro che sparirei subito, sparirei per sempre.