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Le parole più belle si nascondono dietro interminabili attimi di esitazione

In cuffia suona Cousteau

con You My Lunar Queen

Domenica 26 novembre 2015

«Ti ho comprato un gilet di filo e uno di lana, dei colori che piacciono a te. Uno è grigio con piccolissimi punti blu e l’altro è nero, così butti quelli che metti di continuo, su quelle tue T-shirt sbiadite.»

«Grazie mamma, ma a me piacciono i miei gilet, non voglio buttarli. E mi piacciono anche le mie T-shirt...»

«Ma li metti da anni, amore mio, sono logori! Risulti sempre così trasandato...» Non rispondo e lei continua: «Guarda che le donne le notano certe cose, sono molto attente ai dettagli...».

La interrompo prima che ricominci con la solita manfrina: «Ok, ok, mamma, passerò a prendere i gilet!». Il mio tono è leggermente alterato.

«Va bene.»

«Dài, a domani...»

«Oggi non esci?»

«Non credo. Vabbè, ciao, basta, ora mi hai rotto!» rido, e ride anche lei.

«Lo so, lo so... Va bene, amore di mamma, ci vediamo domani, allora!»

«Sì... un bacio.» E metto giù.

Domenica rarefatta: letto, musica e divano. Latte e Pan di Stelle. Felpona in pile. Non male.

Metto su i Cousteau, tutta la discografia su Spotify, e mi chiedo perché non tirino fuori un album da così tanto tempo. Pare che le cose migliori siano sempre dispensate col contagocce, e forse è un bene. Sgranocchio biscotti con lo sguardo perso nel vuoto, facendo a volte “nanananà” dietro al pezzo con un filo di voce.

“Fragile”... È il termine che leggo sullo scatolone accanto al divano, quello su cui ho appoggiato i piedi. Credo sia lo scatolone dei bicchieri – ce ne sono da vino e da spumante, da rum, da cognac e da grappa... Fissazioni di Ludovica, la mia ex. Non poteva portarli via con sé, insieme a tutte le sue noiose certezze e a tutte quelle ridicole pretese? Insieme a tutta quella odiosa e disumana arroganza? Cosa me ne dovrei fare, io? A volte mi chiedo che diavolo m’abbia detto la testa. Perché ho perso tutto quel tempo con lei?

“Fragile”... È la parola chiave di una conversazione telefonica con Mary, una delle poche che valga la pena ricordare, una delle poche in generale.

Era settembre.

«Non lo so, ecco, la mia vita mi piace, Luca, sai? Non è niente male, la mia vita! La mia casa. Il rapporto con Giulio... E tu, tu chi sei? Tu, quante vite hai, tu? Eh, Luca? Non so nulla di te. Il fatto è che tutto questo mi destabilizza, mi fa sentire fragile, e io non voglio essere fragile, Luca, lo capisci? Io ho bisogno delle mie certezze, quelle che ho costruito con fatica...»

«Mary, le certezze...» ho esitato un attimo e accennato una risatina nervosa e leggermente ironica, poi ho proseguito: «Ma non lo vedi? Non ti rendi conto? Le certezze... Sappiamo dove trovare le nostre certezze solo perché ce le inventiamo giorno dopo giorno, Mary... E a chi non se ne inventa viene appioppata l’etichetta: “fragile”. Stigmatizziamo, stigmatizziamo di continuo, offendiamo i nostri sentimenti, i nostri desideri, li svalutiamo in modo mediocre e meschino e lo facciamo per non vedere. Abbiamo il terrore di guardarle negli occhi, le nostre emozioni, abbiamo il terrore di vedere quello che c’è dopo, quello di cui abbiamo bisogno. Abbiamo il terrore di andare oltre...».

Dopo un attimo di silenzio, ha risposto: «Ecco, non lo so, magari è come dici tu, non so che dirti, ma so una cosa: ho bisogno di controllare la mia vita, di non deludere chi crede in me, chi mi ama... Lo capisci, vero? Questa fragilità mi rende sbagliata, e ridicola...».

Ho sentito una leggera e inedita rottura nella sua voce.

«Non sei ridicola... Sei ancora più bella così, sei ancora più bella quando sei fragile...» L’ho detto in modo lento, e con tutta la grazia che potevo, con l’intento di essere quanto più convincente possibile. Un attimo di silenzio, entrambi abbiamo sospirato, poi ho ripreso: «Vedi, Mary, vedi... È solo nella fragilità di chi mi guarda negli occhi che riconosco me stesso, è in quella fragilità che mi specchio, davvero! Io... Io solo lì so guardarmi sul serio, per quello che sono». Ho sentito che esitava, stava per parlare ma poi non l’ha fatto. Quindi ho affondato: «E vuoi saperlo? Anche io sono fragile...».

«Lo so...» ha detto, in modo dolce ma secco. «Ora torno al lavoro, ho un sopralluogo da fare, il cliente mi aspetta... E, Luca, ecco... Carino parlare con te, davvero molto...»

Io sono rimasto zitto, e lei, con un filo di voce: «Ciao, Luca...».

Ho fatto passare qualche secondo, sperando di trovare altro da dire, poi mi sono arreso e ho ricambiato il saluto, anche io con un filo di voce.

«Ciao...» E ho messo giù.

Le parole più belle si nascondono dietro interminabili attimi di esitazione.

Prendo il mio quaderno rosso e scrivo:

Fra le cose che vedo, Mary, quando ti guardo, ci sono i tuoi silenzi, gli attimi di esitazione, i dubbi, la paura, le parole che non dici, la voglia di lasciarti andare che barcolla per il contraccolpo delle regole di matematica. Uno più uno quanto fa nei tuoi silenzi? Nonostante la sicurezza apparente, in quei silenzi vedo una bambina nel corpo di una donna e una donna con gli occhi da bambina. Però, ecco, lì dentro, ho deciso, cercherò le risposte che non puoi darmi per via delle domande che non ti ho fatto e non ti farò, perché ho smesso da tempo di fare domande, da quando ho capito che le domande sono quasi tutte stupide, banali, che sono quasi sempre un modo vigliacco di non prenderci le nostre responsabilità o di correre meno rischi, ottenendo, come effetto, la morte della magia... Adesso cerco direttamente le risposte, e le cerco al buio, senza chiedere, e le cerco lì sotto, senza timore, le cerco nel fondo, lì dove scendi solo se hai deciso di scendere, lì dove scendi solo se hai deciso che la tua mano dovrà rimanere incollata alla sua, comunque vada, fosse anche solo per un viaggio di qualche minuto, perché senti che ne vale la pena, lo senti sulla pelle, sai che scendere è facile, ma risalire non è detto, non è poi così scontato.

Questo e molto altro avrei voluto dirle.

Nel frattempo si sono fatte le tre del pomeriggio, metto dell’acqua a bollire in un pentolino, ho voglia di pasta. Per fare una cosa semplice decido di condirla con del pesto di pistacchi già pronto in barattolo. Me l’ha portato un cliente dalla Sicilia, un tipo che esporta frutta e verdura da Catania. È un prodotto biologico, originale di Bronte: scoli la pasta, ce ne butti su una cucchiaiata, aggiungi un filo di olio, e il gioco è fatto.

Intanto i Cousteau vanno, e mentre suonano la meravigliosa You My Lunar Queen rifletto ancora sulla fragilità dell’animo umano, su quanto la trovi piena di bellezza e verità.

Mary è fragile, meravigliosamente fragile, nonostante si sforzi di recitare un ruolo che non le appartiene. O, almeno, era questo quello che pensavo fino a che non è sparita di punto in bianco dalla mia vita.

Mi distoglie lo squillo del telefono, è Valeria.

«Ciao.»

«Ciao, Vale...»

«Come stai?»

«Bene, dài, non mi lamento. Giornata casalinga, oggi. Tu che fai?»

«Io alle terme con Annarita, la mia collega, ricordi? Poi ceno con Marco...»

«Ma certo che la ricordo... Salutamela. E brave che andate alle terme!» Ridacchio.

«Senti, volevo dirti che fra una decina di giorni ci sarà una rassegna su Arthur Fellig. Capita di mercoledì.»

«Arthur Fellig? Non lo conosco...»

«Arthur Fellig, Weegee! È il precursore del fotogiornalismo d’assalto, da strada, roba forte, ne rimarrai soddisfatto! Si svolgerà all’INS, io dovrò occuparmi di alcune relazioni per la stampa, se ti va vieni con me... Te lo dico ora perché ho bisogno della conferma per il pass, domani mattina devo dare i nominativi.»

«Certo che mi va, grazie, Vale!»

«Allora buon proseguimento di domenica casalinga!»

«Buone terme, buona cena, e...» esito un attimo «... e grazie ancora, Vale!»

«Scemo, finiscila! Un bacino» dice con la voce dolce e amorevole, quella da bimba. E io penso che sia davvero un bene averla nella mia vita.

La domenica va avanti così: cibo, musica, lunghi dialoghi con me stesso sull’opportunità o meno di scrivere a Mary, internet, ricordi molesti, musica, libri (leggo Exit Strategy di Walter Siti e Funny Girl di Nick Hornby), riviste, scatti improvvisi a ogni nuovo beep di notifica sperando in un messaggio di Mary, ricordi molesti, pensieri molesti su Mary, sogni a occhi aperti su Mary, sogni a occhi aperti su Mary, sogni a occhi aperti su Mary, imprecazioni contro Mary, musica, musica, musica, scatti improvvisi a ogni nuova notifica sperando in un messaggio di Mary. Mary, Mary...

Nel mezzo c’è stato aprire gli ultimi due scatoloni e maledire ancora Ludovica per tutti quegli inutili bicchieri dei quali non so che farmene. Ricordo come fosse oggi le sue minuziose spiegazioni sulle differenze fra un bicchiere e un altro. Quello del cognac a forma di tulipano doveva avere un diametro maggiore di sessantacinque millimetri, e quello del rum un’altezza non superiore a venti centimetri, quello del Martini, che va “shakerato e non mescolato gnègnègnè”, doveva avere il lembo fino, la forma a V con il diametro intorno ai dodici centimetri, e così via, e così via in un delirio ossessivo che non aveva fine... «Ludovica, ma cosa ce ne facciamo di tutti questi bicchieri, non siamo mica degli intenditori, noi... Non abbiamo nemmeno tanto spazio nella vetrina!» le dissi una volta, e lei, indispettita e quasi delusa da tanta pochezza: «Luca, è incredibile che tu me lo stia davvero chiedendo... Guarda, proverò a spiegartelo in modo semplice. Questa si chiama estetica, e-s-t-e-t-i-c-a!». Rimasi in silenzio a fissarla, cercando di dare un senso all’enfasi con cui scandiva la parola “e-s-t-e-t-i-c-a”, poi buttai un occhio a tutti quei bicchieri e, sentendomi quasi in colpa per non capire, non ne parlai più.

Ah, Ludovica... Ripensandoci, non è la prima volta che mi capita di avere a che fare con donne impegnate, pur non essendo un amante dei giochi di gruppo... Ma con Mary è la prima volta che mi succede consciamente.

Con Ludovica fu davvero squallido: la frequentai per almeno tre mesi senza avere il minimo sospetto che stesse ancora, pressoché ufficialmente, con il ragazzo con il quale era fidanzata da tre anni. In quei mesi disse pure di amarmi. E sono certo che lo disse anche a lui. Mi aveva chiesto di andarci piano, perché in quel periodo aveva la nonna malata e doveva accudirla, quindi non diedi peso alla sua scarsa e bizzarra disponibilità nel vederci, forse anche in considerazione del suo lavoro: Ludovica ha quattro anni meno di me e fa la fotomodella, è sempre in giro e in quel periodo viveva con i suoi, che per inciso la viziavano senza ritegno, essendo molto ricchi e poco appassionati all’universo della figlia. Scoprii la cosa per caso quando, un giorno, li vidi in un bar, mano nella mano. Si giustificò accampando varie scuse, fra le quali quella di non aver trovato il coraggio di parlare con lui perché sapeva che lo avrebbe ferito spaventosamente, e che, in fondo, era una persona che rispettava e stimava tanto, a cui voleva bene, una persona che aveva amato profondamente...

Dopo una sfuriata iniziale, durata un paio di giorni, accettai la cosa, se pur di traverso. Ludovica sapeva essere molto convincente quando voleva, e io non avevo poi tutta questa voglia di rompere e litigare con lei. Forse perché, avrei scoperto dopo, non avevo nemmeno tutta questa voglia di lei... In ogni caso, la perdonai a patto che lasciasse subito quel poveraccio. Lo lasciò un mese dopo.

Ludovica era giovane, bella e arrogante. E soprattutto era spregiudicata. Valeria la detestava, e a ragione. Ricordo come fosse oggi una conversazione fra di noi: «E cosa ti piace di lei? Voglio dire, siamo qui e ne stiamo parlando, dimmi perché». Non ero riuscito a trovare una caratteristica, nemmeno una, nulla di socialmente accettabile, nulla che non mi facesse sembrare mediocre o patologico. Valeria aveva insistito: «Dimmene una, anche assurda, anche fosse una cosa che non va detta, una di quelle di cui ti vergogni o che non ammetti nemmeno con te stesso».

L’avrei uccisa, e infatti avevo reagito con stizza. «Scusa, Valeria, che cazzo intendi con “non va detta” o “di cui ti vergogni”?»

«Voglio dire che credo a tutto quello che mi hai raccontato, corrisponde a un profilo preciso, un profilo che conosco bene, e una persona sana di mente non proverebbe il minimo interesse per una donna del genere. Quindi dobbiamo dare un senso a questa cosa: è orgoglio? Ti piace soffrire? Ti piace subire? Sogni una donna tanto piena di sé da confondere l’amore con la noia? Così superba e figlia di puttana da umiliare i sentimenti di chiunque abbia intorno, persino di quelli che dice essere i suoi affetti più cari, di quelli che dice di amare, giustificando le sue stronzate oggi con la scusa di non voler ferire, domani con quella di un bicchiere di troppo, o del suo bisogno di libertà? Vuoi davvero crepare avvelenato nel sonno? O con due buchi sul collo?»

«I due buchi nel collo sono quelli del vampiro? Ma che cazzo!» avevo fatto una faccia schifata, ma solo per gioco.

«Rifletti un attimo: di una donna che offende e umilia in quel modo tutti quelli che ha intorno, dall’ultimo coglione appena arrivato – che sei te – a chi dice di avere amato e rispettato profondamente... Ecco, di una donna così, cosa ti attira? Perché ti piace?»

«Qualcuno direbbe che “a qualche livello inconscio” ho bisogno di una persona così...»

«“Qualcuno” credo abbia ragione...»

«“Qualcuno” costava novanta euro l’ora...»

Ecco, ho sentito spesso discorsi su questo genere di cose, sul fatto che se un rapporto inizia con una bugia non potrà prospettarsi nulla di buono o di pulito, che se una persona tradisce il suo partner non c’è da fidarsi, probabilmente lo farà anche con te, prima o poi, perché tradire è nel suo Dna... Ragionamenti simili si risolvono in semplicistiche generalizzazioni o stigmatizzazioni: o puttane o sante.

Non lo so, pensandoci adesso, non lo so proprio... Mica è facile addentrarsi in roba del genere con la presunzione di stabilire regole e verità... Sarà che non tollero più la banalità, non la sopporto nemmeno in quelli che cercano di non esserlo, banali, con atteggiamenti forzatamente anticonvenzionali. E ascoltare discorsi su temi come “corna”, “relazioni” e “tradimenti”, trattati con quel perbenismo tipico dei bigotti, o degli ottusi, o degli ipocriti, lo trovo più che banale, e molto noioso.

Ho una mia mezza idea sulla questione, un presupposto: la monogamia e l’amore sono concetti che è complicato subordinare l’uno all’altro, per quanto questo sia difficile da digerire. Osservo solo il mondo come gira, dico che può capitare, che faccia parte del “gioco”, che è umano che succeda, che “sta nelle cose”, soprattutto in quelle che nessuno vuole dire, in quelle che nessuno dice. Ci sono milioni di possibilità e di retroscena in un tradimento, miliardi di motivi che non starò qui a elencare. Soprattutto c’è la presa di coscienza di ognuno di noi, l’assunzione di responsabilità verso se stessi, il fatto che non si possa mettere d’accordo tutto l’universo.

Quello della lealtà è un concetto abusato, spesso travisato, strumentalizzato, adoperato a uso e consumo del momento e dell’interesse personale specifico. Dietro a certi tradimenti si nascondono sofferenze assurde, pressioni, richieste di aiuto. Segnali non percepiti, non colti o ignorati. Solo chi non vive non capisce che certe cose non sono giuste o sbagliate, ma solo possibili, certe volte ineluttabili; le cose succedono, a prescindere da noi e dalle nostre aspettative. A prescindere dall’educazione che abbiamo ricevuto o da quanto rispettiamo e amiamo qualcuno. Certe cose succedono perché non potevano non succedere. Certe cose “sporche” sono solo il mezzo per arrivare a certe cose “pulite”, un passaggio obbligato, la via per il paradiso. O per l’inferno. L’alternativa? La morte. Il decesso dell’anima. La resa totale e incondizionata.

E allora forse è il caso di prendere il bene di quello che viene, vivere al massimo ciò che abbiamo, godere delle chance che ci mette sul piatto la vita, cercando di “costruire”, certo, ma senza “distruggerci”. E forse dovremmo cercare di farlo giorno dopo giorno, piuttosto che stare a giudicare il comportamento degli altri , o il nostro, col culo stretto sulla poltrona. Certe volte abbiamo così tanta paura di vivere che saremmo disposti a morire di noia, di frustrazione, di silenzio, di monotonia. Di non vita. E allora viva le corna e la non morte, viva la carne e l’energia, viva il coraggio di prendere certe decisioni e dilaniarsi dentro. Viva le palle di attraversare certe tempeste emotive, di farlo e non soffrire per il resto della vita di inutili sensi di colpa e rimpianti. Viva le palle di farlo, e farlo bene, e non confessarlo solo come scarico di coscienza, per sentirsi “migliori”, o “a posto”. Non tradire la nostra anima è già un buon punto di partenza. Dobbiamo ascoltare il nostro cuore e seguire il nostro istinto. Pagando, nel caso, di tasca propria. Prendendoci tutte le responsabilità che ci competono, che ci spettano. Cercando di fare il minor danno possibile alle persone che amiamo, compresi noi stessi. I conti dovremo farli allo specchio, alla fine, perché alla “festa di chiusura” non ci sarà nessun altro. Non ci sarà nessun prete. Non ci sarà nessun Dio.

E penso non si possa generalizzare, né in un modo né in un altro... Il bene e il male non hanno un perimetro distinto e preconfezionato. Intendo dire che ci sono delle differenze, che dietro a ognuno degli sguardi che incrociamo c’è una storia, ci sono dei motivi. Ci sono dei perché. Ci sono dei quando e dei come. Silenzi e aspettative. Rabbia e speranza. Amore e odio. E noi non siamo nessuno per giudicare quegli sguardi. Perché, a nostra volta, noi siamo storie, motivi e perché, siamo quando, come, silenzi e aspettative. Siamo rabbia e speranza. Ecco, a nostra volta, noi siamo odio e amore...

Ludovica si è lavata la coscienza con il suo ex in modo perfido e vigliacco, in modo veloce e superficiale: gli ha raccontato tutto di me, del tradimento, di quanto si sentisse in colpa, ha pure incassato un perdono... si è comportata in modo disgustoso e meschino. Quello che ha fatto Ludovica con me, con lui – e indirettamente anche io, accettando di rimanere con lei – oggi, dopo essermi fatto un’idea sul suo conto e sulla sua leggerezza, sulla sua scarsa sensibilità, io dico che è stato un errore, è stato sbagliato. È stato qualcosa di sporco, un passo falso, l’ennesimo del mio percorso, forse l’ennesimo passo falso per arrivare ad altro... L’ennesima nota stonata dettata dall’inettitudine, dalla paura, dall’immobilismo emotivo che farà suonare in modo ancora più magnifico e armonico la prossima... O, almeno, me lo auguro.

Una cosa è certa: con Mary è tutta un’altra storia, un universo a parte... Al tradimento di Mary, ecco, non riesco ad attribuire alcuna valenza morale negativa. A differenza sua, che fin dal primo momento si è sentita molto in colpa. Penso che il motivo del suo strazio, oltre che dal tradimento in sé, e dal dispiacere verso il suo partner, dipenda dalla difficoltà di accettare di perdere il controllo, da quella fragilità che si ostina a dissimulare.

Mi infilo sotto le coperte che sono ormai le 2.30. Domani alle 9 ho appuntamento con Valentina da Poletti, spero che almeno lei mi dia buone notizie e che quel grattacapo legale relativo al marchio della mia società si risolva senza conseguenze...

Accendo il portatile e metto su la mia playlist “Luna”, su Spotify:

Lorenzo Fragola con # fuori c’è il sole

Francesco De Gregori con Rimmel

Tiziano Ferro con Ed ero contentissimo

Max Gazzè con Mentre dormi

Bassi Maestro con Foto di gruppo

Queen con Bohemian Rhapsody

Queen con Under Pressure

Beirut con Elephant Gun

Songs of Water con Bread & Circus

Marracash con Chiedi alla polvere

Mavis Staples con You Are Not Alone

Mauro Ermanno Giovanardi con Bang Bang/Auschwitz

Controllo il cellulare, nessun messaggio di Mary.

Non resisto, le mando un WhatsApp: “Sogni d’oro...”.

Nessuna risposta. Nemmeno visualizza.

Alcune volte penso che tutto questo non abbia nemmeno un nome.

Sei bella come le cose che non puoi avere, quelle che stanno lì, a un millimetro dalle tue mani, ma non arrivi mai a toccarle, per pochissimo, ma non ci arrivi. Perché forse non sono vere. Perché forse non sono mai esistite. Perché, forse, sono troppo per te. Ecco, tu sei così, come quei sogni che sembrano veri ma poi ti accorgi che restano sempre quello che sono: sogni.

Volevamo toccare le cose vere con le mani, ma poi abbiamo finito per mancare l’amore con gli occhi. Ché a cercare in tutti gli angoli che non conosciamo, nascosti e bui, magari inesistenti, fantasticando su chissà quali scenari futuri, si fa presto a perdere di vista il senso delle nostre traiettorie più profonde. È facile, facilissimo, e ogni alibi ha il suo perché, e guardare quello che abbiamo sotto il naso è troppo complicato. O troppo noioso. E così succede che il bello, e tutto l’amore che c’era, resta lì, scordato, muto; quelle bellissime parole, quei bellissimi sorrisi, timidi, fragili, restano lì, finiscono così, smettono così, così... Persi in certi nostri silenzi, in colpevoli silenzi, figli di rincorse senza più un senso, verso obiettivi a cui non sappiamo più dare nemmeno un nome. Finiscono così, ecco, senza nemmeno un nome.

Notte...