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Avremmo fatto l’amore...

In cuffia suona Brunori Sas

con Una domenica notte

Lunedì 27 novembre 2015

«Ma questi cosa cazzo vogliono, Valentina? Ma insomma... il nome è diverso, c’è una lettera diversa! Ma poi io sono una pulce e loro una S.p.A., possibile che vengano a prendersela con me? Roba da pazzi...» Unisco le mani come volessi trattenere un’imprecazione, mentre cerco di capire come giri il mondo...

Poletti è un bar-ristorante storico di Roma, punto di riferimento per appuntamenti di lavoro e aperitivi semi-formali, frequentato da gente del cinema e dello spettacolo anche per via della vicinanza alla sede della Rai. Nelle ore di punta c’è sempre da attendere qualche minuto per sedersi, sia dentro che fuori. A pranzo, a colazione, nell’ora del cocktail.

«Sì, in effetti è atipico in ambito commerciale che si intenti una causa verso un’azienda solo per un’assonanza col nome... Comprendo che siete nello stesso settore, ma, voglio dire, anche i colori del logo sono nettamente diversi, non riscontro alcun pericolo di ambiguità. Credo tu possa stare tranquillo, saranno loro a pagarci i danni per il disturbo, Luca!» mi dice con un sorriso rassicurante.

«Ok, Valentina, grazie. Mi darebbe davvero noia dover cambiare il nome alla società o, peggio, pagare a questi squali gli assurdi risarcimenti che chiedono... guarda, ti dico, a quel punto lascio tutto. Chiudo tutto e via, e vaffanculo...»

«Certo, ti capisco! Ripeto, comunque, non vedo grossi problemi.»

«Meglio...»

Decisa definitivamente la strategia legale da adottare – e l’esigua e amichevole parcella che Valentina avrebbe percepito per supportarmi – scambiamo due chiacchiere bevendo una spremuta, dopo aver fatto colazione insieme. Parliamo del più e del meno, della sua vita, della mia, di Carla, del suo ex, di quello che è stato...

«Vedi, Luca, dopo la prima fase, quella delle farfalle e degli occhi a cuoricino, quella nella quale accetti tutto e non capisci niente, e accetti tutto – sia chiaro – proprio perché non capisci niente, dopo quella fase, l’amore va curato, rispettato, ci vuole impegno, costanza, empatia e sensibilità... E un po’ di follia, sennò – è ormai sotto gli occhi di tutti – le cose tendono ad andare a puttane.»

«Sono d’accordo, Valentina, tanto d’accordo! E, credimi, con Carla ce l’ho messa tutta, per me lei era davvero importante, ma alla fine, ecco...» Allargo le braccia senza terminare la frase.

«Lo so, lo so... E sono certa che è stato così anche per lei. Il fatto che abbia deciso di metterlo tu, un punto, non fa ricadere alcuna responsabilità specifica su di te...» mi fa un sorriso, poi riprende: «Eppure, guarda, ancora non mi spiego come possa essere finita fra voi. Eravate così perfetti, così complici...». Scuote la testa assumendo un’aria un po’ delusa, e un po’ frastornata...

Abbozzo una smorfia con la quale cerco di esprimere un sottinteso: “Capisco quello che intendi...” e lascio passare qualche secondo di silenzio. Nel frattempo arriva il cameriere che lascia lo scontrino del conto sul tavolo, lo prendo in mano per pagare e ne approfitto per cambiare discorso: «E com’è, avere dei figli?».

«Massacrante e meraviglioso» sorride.

Ora lei ha due figli, mentre io due brevi convivenze fallite entrambe in tempi record, entrambe per colpa mia, o per mio merito, dipende da come vogliamo guardare la cosa. Tutto il resto è invariato e questa mi pare una bella notizia. O forse non lo è.

«Dimmi, Valentina, te l’avrei sempre voluto chiedere: tu perché non hai seguito le orme di tuo padre, perché hai scelto di fare l’avvocato?»

«Non avrei potuto fare il giudice, impossibile.»

«Perché?»

«Perché, nonostante tutto, io non volevo essere imparziale. Io ho sempre voluto essere di parte, prendere una posizione netta. Schierarmi.»

«Cazzo! Wow...» le dico, fra l’ammirato e il sorpreso. E lo sono davvero: la sua frase mi lascia senza parole.

Tornato in ufficio, mi metto a lavorare sull’analisi delle coperture assicurative di un gruppo di clienti, che mi hanno chiesto una relazione e una proposta a breve. La giornata scorre senza grosse novità. Qualche incombenza burocratica e altri brevi giri di lavoro.

Insieme a Nicola, di recente ho deciso di riorganizzare l’archivio delle pratiche, sostituendo tutti i vecchi raccoglitori. Oggi, mentre ci passiamo le schede, lui fischietta e abbozza sorrisi. Pare piuttosto allegro, il che mi provoca un velato senso di malsana irritazione.

«Cos’hai, Nicola, felice?»

«Hai saputo del concerto a Tor di Valle?»

«No, quale concerto?»

Sospira, molto compiaciuto del fatto che non ne sapessi nulla. Poi, con aria sicura e ghigno beffardo, butta lì un: «Ah ah!».

«Nicola...» Lo fisso con lo sguardo di chi non ha granché voglia di indovinelli.

Lui capisce e risponde: «Roba pesantissima, old school: A.T.P.C. e Bassi Maestro...».

Il suo ghigno che ora è più simile a quello di un bambino che dopo averti dato una notizia bomba attende un’esultanza quanto più palese possibile.

«Figo! Ci andrai?»

«Certo, è fra una settimana esatta, lunedì sera!»

«Ottimo! Ma gli A.T.P.C. sono quelli di Dammi solo un’ora?» Non aspetto nemmeno la risposta e continuo: «Nicola, hai sistemato le polizze di novembre? Siamo già in ritardo, ne ho bisogno... Insomma, erano loro, quelli di Dammi solo un’ora?».

«Sì, sono loro!»

«Cazzo, ne è passato di tempo! All’epoca impazzivo per i Sottotono e per gli Articolo 31. Comunque io verrei soprattutto per sentire un paio di pezzi di Bassi, come Foto di gruppo o Il tipo di persona...»

A differenza di Nicola, io prediligo il rap più melodico, o musicale, quello pop. La gente dovrebbe avere più dimestichezza con la parola pop, meno pregiudizi. La Gioconda è pop, la Divina Commedia è pop, la Nona Sinfonia di Beethoven è pop, la Cappella Sistina è pop. Pop non significa banale, non sempre, così come “di nicchia” non è sinonimo di qualità. E anche del rap preferisco la versione pop, un po’ perché non l’ho mai seguito in modo ortodosso, non sono un integralista del “bit”, un fanatico dello stile e della cultura hip hop, tanto è vero che amo nello stesso modo, e in alcuni casi forse di più, anche molti altri generi come il rock, l’indie, il punk, il jazz; e poi perché in fondo le cose estreme e troppo rigide, chiuse, senza aperture, senza respiro, ecco, non le ho mai digerite. Del rap, poi, ho sempre apprezzato più che altro i testi che, rispetto ai brani di musica leggera, sono molto, molto più lunghi e articolati; amo il modo geniale che hanno alcuni rapper di usare le parole, di giocare con esse, con il loro suono, con il loro ritmo, con il loro senso, doppio e triplo senso. Trovo vincente il modo diretto di arrivare al punto, ritengo che alcuni passaggi siano poesia pura, in certi casi poesia di strada, metropolitana, ok, con un linguaggio e un codice precisi, a volte ruvidi e sporchi, ma sempre di poesia si tratta. Molti esponenti della categoria sono parolieri di altissimo livello. È per questo che per certi versi il rap, nel panorama artistico, io lo percepisco più vicino alla letteratura che alla musica.

«Foto di gruppo è una pietra miliare del rap italiano. A volte sono felice di averti come capo.» E poi prosegue: «E sì, le polizze di novembre sono tutte pronte».

«Bene.» E aggiungo: «La parola “capo” è proprio brutta».

«Uhm... Non so, “datore di lavoro”?»

«Ok, va bene “capo”.»

Prima di cena svolgo l’ormai consueta corsa al parco dietro casa, a Villa Pamphilj; da quando conosco Mary ho intensificato fortemente l’attività sportiva, è l’unica cosa che riesca a distendere un po’ i miei nervi. A scaricare la tensione. Ho comprato un iPod e creato playlist in base ai giorni e ai minuti di allenamento, e allo stato d’animo... Stato d’animo che ultimamente si sta livellando sempre più verso una linea costante di inquietudine e malinconia piuttosto preoccupante, soprattutto per la quasi totale assenza di variazioni. Come sempre da mesi ormai, mi imbatto in quella signora silenziosa, solitaria e schiva, dagli occhi di ghiaccio, che legge un libro sulla panchina. Ogni giorno un libro diverso. Oggi è la volta di Murakami con Nel segno della pecora.

Tornato a casa, doccia bollente e cena, bistecca alla piastra, un paio di bicchieri di Chianti e un film in streaming: Crash, Contatto fisico. Ma non riesco a concentrarmi, non riesco a seguire il film come vorrei. I pensieri, molesti, e i ricordi, molesti, mi tormentano... È sempre lei a torturarmi: Mary, Mary e ancora Mary...

E allora spengo, allungo le gambe sul divano, accendo un po’ di musica e chiudo gli occhi... La sera di Fregene, quella magica, tornando a Roma, avevo messo un CD. Era una selezione di pezzi indie pop, ma in particolare associo al rientro il pezzo che ho appena fatto partire: Una domenica notte di Brunori Sas, che, con il pianoforte e la sua voce graffiata, sporca e dolcissima, mi fa sentire alleggerito, e mi riporta a quel momento. Non abbiamo parlato molto, durante il viaggio di ritorno, eravamo come in un’altra dimensione. Io di sicuro non ero lì, non ero in me, né sulla terra, ero su un pianeta lontanissimo; le ho tenuto la mano per tutto il tempo, e ogni tanto sbirciavo nello specchietto retrovisore, dal pianeta lontanissimo, per non farmi beccare a fissarla, e cercavo di capire se era reale, se lei era davvero lì, con me, nella mia macchina, se davvero era successo quello che era successo...

Dopo la corsa al parco e la doccia, sarebbe stato bello ritrovarti da me, magari sul mio divano, con le gambe incrociate e gli occhi pieni di vita. Saremmo usciti a camminare, o avremmo visto un film, o forse tu mi avresti letto un breve passo di un libro che ti ha colpito, e il mio bilocale senza pretese sarebbe stato il posto più bello del mondo. Di sicuro avremmo fatto l’amore, e sarebbe stato meraviglioso.

Ricordo ancora l’espressione del tuo viso, quella mattina di luglio, nel bar della stazione. Ci siamo incontrati per pochi minuti, il tempo di un caffè. «In te c’è qualcosa che mi fa impazzire» ti ho detto. Tu mi hai chiesto: «Cosa?» e hai sorriso. Io ho risposto: «Tutto» e ho sorriso.

Mi addormento con la penna in mano e il mio piccolo quaderno sul cuore.