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Perdere

In cuffia suona Fedez (feat. Francesca Michielin)

con Cigno nero

Mercoledì 13 dicembre 2015

L’anno di analisi (“analisi transazionale”, per gli addetti ai lavori) è caduto in un periodo fondamentale del mio percorso esistenziale. È stato circa cinque anni fa. In quel momento il rapporto con Carla volgeva al termine, e la cosa, nonostante dipendesse in gran parte da me, mi dilaniava. Carla aveva tutte le carte in regola, era brillante, intelligente e molto affascinate. Neurochirurgo, all’epoca specializzanda. Ma a un certo punto venne meno l’interesse di condivisione. Le volevo e le voglio un bene difficilmente descrivibile, ma a quanto pare questo non bastava.

Il contributo della psicoterapia fu decisivo, per vari motivi. Andai “volontario”, senza camicia di forza, senza il timore di diventare dipendente dal “medico dei matti”. La motivazione ufficiale con la quale mi presentai a testa alta dallo “strizzacervelli” era proprio la crisi con Carla – una donna che, a prescindere dal tipo di sentimento, ha inciso profondamente nella mia vita. Volevo assolutamente trovare una soluzione. Non potevo credere stesse davvero succedendo, e che fosse colpa mia. O forse volevo che qualcuno mi dicesse che sì, poteva succedere, e che non era colpa di nessuno. Che non ero un mostro e non la stavo uccidendo, e che non stavo uccidendo nemmeno me stesso. Che avrei superato anche quel distacco, e che lo avrebbe superato anche lei. Negli anni ho scoperto che gli addii più sconvolgenti sono quelli che devi pronunciare tu. Io ho sempre preferito riceverli i colpi, piuttosto che assestarli.

Quindi che faccio? Mi presento dal “normalizzatore”, dal “quieta schizzati”. E il primo giorno, dopo un minuto, appena seduto, lui mi dice: «Perché è qui?».

Che sembra una domanda facile facile, ma poi ho capito che più le domande sono semplici semplici, e più è complicato complicato rispondere.

Le domande, più sono dirette e più ti imbarazzano. Più colgono nel segno e più ti fanno incazzare.

«Fondamentalmente» provo a formulare, «la causa è il rapporto con la mia fidanzata. Sta andando a rotoli. Non ci sentiamo più, non parliamo più. E in larga parte tutto questo dipende da me. Non ho più voglia né entusiasmo, ecco... E vorrei capire. E magari capendo, ho pensato, potrei provare... tentare... Non lo so».

Lui mi fissa e mi assesta un bel gancio sul mento, di quelli micidiali, di quelli che ti spengono la luce: «Perché non la lascia?». Mi ha fatto questa domanda, in modo pacato, guardandomi negli occhi...

Non ho saputo rispondere.

Il metodo del mio “curapazzi” prevedeva la sottoscrizione di un contratto, una sorta di obiettivo, anche in base al tuo “copione di vita” (ché ognuno ha il suo, l’ha detto Berne, teorico dell’analisi transazionale, del quale il mio “moderasbroccati” era un adepto. Quindi, per le lamentele scrivete a lui!). Io ne avevo uno da modificare, da correggere: la mia relazione sentimentale. O si rimetteva sulla giusta strada o qualcuno avrebbe dovuto metterci un punto. Secondo lui, però, avevo anche qualcos’altro da rivedere: l’equilibrio fra il mio Io Genitore, il mio Io Adulto e il mio Io Bambino, equilibrio sul quale si basa il metodo in questione. Nel mio caso, l’Io Genitore e l’Io Bambino rompevano un po’ troppo il cazzo.

Il “rimetti a posto suonati” approfittò dunque per farmi celebrare il funerale di mio padre, morto quattordici anni prima. Secondo lui era necessario per farmene prendere atto, per far sì che io potessi parlarne sentendolo davvero, e non a macchinetta, solo per dimostrare al mondo che potevo affrontare il tema senza il minimo cedimento. L’ha fatto per permettermi di piangere, finalmente, in modo liberatorio, per lui. Mai versate così tante lacrime a un funerale... Mai.

Il “raddrizza storti”, indirettamente, ha cercato di insegnarmi a guardare la vita da punti di vista sempre diversi, con occhi sempre diversi. E con una filosofia ogni volta diversa. Grazie a lui, in quell’anno di terapia, ho compreso l’importanza di non prendersi troppo sul serio, e ho imparato ad apprezzare i risultati raggiunti, anche quando piccoli. Ho imparato a gestire un po’ l’ansia, la rabbia e i sensi di colpa, non a vincerli, eh, ma a gestirli, un po’, un po’ meglio. Il “risolvi stranezze” mi ha spiegato che l’aggressività e l’irruenza, se ben canalizzate, non vanno represse, e che avere paura è naturale. Grazie a lui ho modificato leggermente, di riflesso, il mio modo di andare incontro al mondo, ai problemi, alla vita, alla morte, allo stress, alle paure, alle ansie. Inutile sottolineare quanta strada ci sia ancora da fare, con o senza il “correggi scemi” di turno. Anzi, penso che dovrei proprio valutare la possibilità di tornarci.

In quel periodo mi successe un fatto che non potrò mai dimenticare in vita mia.

Era un sabato, le 15 circa, mi trovavo in centro, per la precisione in corso Vittorio. Strada a due corsie, incidente. Uomo a terra, senza vita. Tante macchine, come sempre, ferme da una parte e dall’altra della carreggiata. Tanta gente che guarda, che chiede, che fissa. Per aiutare. Per spiare. Perché la curiosità non è femmina, no, è soprattutto umana e a volte becera e meschina.

Il poveraccio era lì, a terra. Cinquanta metri dopo, c’era la sua moto. Lui era in uno stato pietoso a cui non voglio nemmeno ripensare. Io ero a piedi, che casualmente uscivo da un bar dopo aver preso un caffè. Attratto dalla confusione, mi sono avvicinato. Più mi avvicinavo più tremavo. Quando ho intravisto la scena mi sono fermato.

Pietrificato. Terrorizzato.

Pensavo a lui. Guardavo la sua moto che non era più sua, e non lo sarebbe stata mai più. Pensavo a quanto doveva esser stato felice di averla comprata, orgoglioso, come tutti i motociclisti, della sua “piccola”. Mi domandavo dove fosse diretto, da chi stesse andando, da dove venisse. Avrebbe potuto avere la mia età. Pensavo che magari aveva una ragazza, che forse andava da lei. Oppure era sposato con dei figli. Pensavo ai genitori, al padre orgoglioso di lui. Magari era appena stato dalla mamma, per farle un saluto, e lei lo aveva ingozzato di roba da mangiare, come solo le mamme sanno fare. Pensavo alla mamma felice di averlo “sfamato”. Felice di aver trascorso un po’ di tempo con il suo cucciolo. Pensavo a tutti i propositi e ai progetti che aveva in mente, ai quali, magari, stava pensando anche poco prima di volare via, in un lampo. Poco prima di ritrovarsi così, sul cemento, fra l’asfalto e i sassolini, fra le sirene e il vociferare dei curiosi. Fra sguardi invadenti e occhi famelici. Senza nessuno dei suoi cari a proteggerlo, a soccorrerlo, a coprirlo...

Ed ero triste, desolato, disperato, ecco, disperato. E tremavo. E non avrei potuto parlare dal gelo che sentivo dentro, avrei voluto scappare e piangere, ma non muovevo un dito. Se avessi pianto, le mie lacrime sarebbero diventate all’istante cristalli gelati e spigolosi. Ero perso, spaesato, traumatizzato.

A un certo punto ho sentito un suono molto simile a una risata ma – mi sono detto – è impossibile! Chi? Chi potrebbe ridere in un momento del genere? Davanti a una scena come quella. “È impossibile” ho pensato, “mi sono sbagliato, sarà il forte stato confusionale a farmi percepire cose che non esistono.”

Invece no. Mi sono girato e ho visto tre ragazzi, età indefinita, fra i venti e i trenta. Erano lì. E ridevano. Facevano delle battute fra di loro, e si divertivano. Si spintonavano, a pochi metri da lui. Senza ritegno, senza contegno, senza umanità, indifferenti alla fine di una vita. Indifferenti a quel che a me devastava il cuore e l’anima...

Ecco, ricordo di essermi chiesto: ma le persone normali, il cuore, come ce l’hanno? La forma, intendo. Ce l’hanno come il mio? E il colore? È rosso? Rosso come il mio? E batte in modo simile? E per gli stessi motivi? E quando si spezza, si spezza per gli stessi dispiaceri? Per le stesse delusioni? E quando ride, il loro cuore, e sghignazza in modo sguaiato, lo fa per roba che farebbe ridere anche me? E, soprattutto, mi chiedo: certa “normalità”... è curabile?

«Certa normalità... è curabile?»

Rivolsi questa domanda al mio analista, che mi rispose con un sorriso. E io pensai: “Bel colpo, Luca!”.

Il punto è che ancora me lo chiedo. Non sapevo rispondere allora e non so farlo oggi, ma forse quello che conta è l’essermela fatta, questa domanda, è molto importante averlo fatto, è molto importante farlo di continuo, anche quando ci si sente sconfitti dalle risposte, dai fatti, dalla verità, anche quando si ha la sensazione di stare perdendo, e tanto.

«Ascolti: la ama?» mi chiese a un certo punto.

Sbam. Al tappeto. KO. Manifesta superiorità dell’avversario...

Non l’amavo. Non so come succedano certe cose, e perché, ma non l’amavo più. O forse non l’avevo mai amata, pur rispettandola come ho rispettato poche persone nella mia vita. E il mio cuore moriva per il dispiacere di spezzare il suo. Non avrei potuto dirle “basta” guardandola negli occhi, questo non era proprio nelle mie potenzialità.

Mi lasciò. Dopo mesi di silenzi. Dopo milioni di sguardi e carezze sfiorate e perse. Trovò lei il coraggio che mancava a me. Il coraggio di perdere.

Se c’è una cosa che mi ha davvero insegnato la terapia è che saper perdere è il vero segreto della vita. Devi avere il coraggio di perdere, se non vuoi perderti per sempre. Io non ho avuto questo coraggio, non sempre, e sapevo che avrei pagato per la mia vigliaccheria, per certe scelte, e soprattutto per certe non-scelte: le mie silenziose assordanti non-azioni. Quando non segui il tuo cuore tradisci te stesso, ti fotti. Ecco chi è un vero traditore: chi fotte se stesso.

Mi chiedo cosa ne penserebbe Arthur Fellig, mentre sono immerso nella sua formidabile vita raccontata da una signorina di bell’aspetto nella rassegna a lui dedicata, quella nella quale mi ha trascinato Valeria.

Arthur Fellig, alias Weegee, è uno che ce l’ha fatta. E non mi riferisco solo ai soldi, alla fama, alla gloria, alle donne, no, parlo di vita: ce l’ha fatta a vivere. Forse ce l’ha fatta perché ha avuto il coraggio di essere povero, di sporcarsi davvero, di prendere delle decisioni, di rifiutare un posto fisso come fotoreporter in un giornale per non essere costretto a vestirsi in giacca e cravatta e a dire quello che volevano loro. Ce l’ha fatta perché ha avuto il cuore di fotografare crimine e violenza e poi di commuoversene. Forse ce l’ha fatta perché ha avuto le palle di fare delle scelte, di cambiare la posizione degli elementi rifiutando quella imposta, di essere impopolare, di non essere per forza benvoluto da tutti, forse ce l’ha fatta perché, per strada, ha avuto il coraggio di capire gli onesti e i disonesti, gli angeli e i demoni e di camminare in punta di piedi su quella sottilissima linea immaginaria che divide il bene dal male. Ma in fondo forse ce la fai quando sai cogliere e far tuoi i dettagli della vita che nessuno vuole vedere perché troppo piccoli, o troppo scomodi.

Ho smesso di affidare tutte le mie attenzioni alla sola forma quando ho compreso che, al contrario, è solo la sostanza che ti può salvare la vita, e l’anima. E la coscienza. Ho smesso di ritenere vere le comuni definizioni di termini come “troia” o “fallito” proprio quando ho capito che quasi tutti quelli che ne abusano sono persone perlopiù meschine, spesso molto volgari nei propri sentimenti, che è l’unico posto in cui si può essere veramente volgari, gente debole che proietta le proprie insicurezze sugli altri, persone che hanno bisogno di dare un nome alla loro personale frustrazione e ai propri fallimenti, tentando di vomitarli addosso al resto del mondo, senza avere il coraggio di viverli, e di accettarli per quello che sono. Nella vita non puoi rinunciare a niente se vuoi tentare di capire, se vuoi provare a esserci davvero, esserci in pieno, senza essere solo un numero, o un passaggio di qualcos’altro, o la spia luminosa e telecomandata dei piani e della rabbia di qualcun altro.

Ho sempre pensato che per capire il significato di una cosa la devi vivere almeno un po’. Anche le testimonianze contano molto: c’è bisogno di umiltà nell’ascoltare chi è più saggio di te, certo, anche di quella... Ma vivere è il segreto, essere, provare, quella è la chiave. Non ci possiamo sottrarre alla vita, sarebbe un suicidio, un insulto. E allora tanto vale fare le nostre scelte, consapevoli, col cuore, anche con la pancia, ma a testa alta.

Le cose succedono, ok, ma c’è quasi sempre un motivo, non prendiamoci per il culo, è questo che la gente finge di non vedere. È questo che la gente ti nasconde, o nasconde a se stessa. È questo che odio nella gente e in me stesso: l’ipocrisia. Un bacio, del sesso, un tradimento, un rifiuto, un incidente, anche il gesto più stupido può fare la differenza, cambiare il corso delle cose. Guerre, canzoni, monumenti, libri e poesie, amicizie e fratellanze, nascite e suicidi... I dettagli possono pesare molto, tantissimo, ma facciamo tutti finta che non sia così. Non si dice, non si dice... Fingiamo tutti che certi dettagli non siano un aspetto profondo della vita, invece lo sono, sono un aspetto molto profondo.

Certi piccoli gesti rappresentano scelte enormemente significative. Una mano tesa. O una pallottola, o l’onestà intellettuale, o la fiducia, o l’abbraccio di un amico, anche l’amore, sì, anche l’amore. Perfino l’amore. Siamo qui per questo, in questa catena di azioni e reazioni, in questo vortice di emozioni e collegamenti, in questo delirio di bisogni senza appagamento, di richieste senza aiuto, di favole senza lieto fine, e ogni cazzo di scelta cambia il corso delle cose. Ogni. Cazzo. Di. Scelta. Mettiamocelo in testa, e, la testa, teniamola fuori dalla sabbia se vogliamo renderci conto di quella direzione. Come tutte le volte che non facciamo alcuna scelta e ce ne stiamo fermi, immobili, convinti che, in quel modo, il corso delle cose non sarà influenzato dai nostri pensieri, ecco, anche in quel caso, soprattutto in quel caso, facciamo delle scelte che cambieranno la dinamica degli eventi. Penso a chi non va a votare, a chi finge di non capire, a chi fa il vago, il finto tonto, a chi non esprime le proprie preferenze quando potrebbe. Tutte le volte che, per esempio, per strada assistiamo a un’aggressione e scegliamo di non intervenire, abbiamo fatto una scelta, netta, una scelta chiara, spesso oltre bene e male, oltre giusto e sbagliato, ma pur sempre una scelta. Azioni e reazioni. Questo siamo noi: scelte, giuste o sbagliate, dolci o amare. L’importante è ricordarci che le nostre decisioni, anche quelle che ci pare di non prendere, o di non aver preso, quelle che fingiamo e ci assicuriamo di evitare, anche quelle avranno un peso sugli eventi, e dobbiamo tenere a mente che girare la testa dall’altra parte, o tapparci il naso, non ci rende esenti da responsabilità, anzi, ce le carica addosso.

Qualche volta capita di essere quello che non ci piace essere per scelta, altre per condizione, ed essere qualcosa “per condizione” mi fa girare le palle, mi fa sentire in trappola, pilotato, passivo... Ma può succedere, è umano che succeda, basta rendersene conto e decidere come reagire. Non ci sarà nessun Dio a giudicarci, questo è quello che penso. Ci sarà la nostra coscienza, il nostro cuore, l’educazione dei nostri genitori, i valori, la strada, la dignità... E il rispetto degli altri. Io, per esempio, non ho avuto il coraggio di essere povero, di scommettere su me stesso; non ho avuto il coraggio di perdere Carla, ma poi l’ho persa lo stesso e in modo molto più doloroso. Non ho avuto il coraggio di allontanarmi da Ludovica, di non subirla passivamente. Non ho avuto il coraggio di tornare su quel palco, di metterci la faccia, di riprovarci, di seguire la mia natura e il mio cuore. Ho nicchiato, ho tremato, ho abbassato lo sguardo e girato la testa, e questo gesto ha cambiato molte cose.

Non succede nulla per caso, noi scegliamo, scegliamo sempre. E a volte riconosciamo la bellezza di certe anime in mezzo a miliardi di persone, sentiamo quella bellezza nel cuore e la facciamo nostra e in un attimo, nel modo più magico possibile, ci sentiamo alleggeriti dal peso di una vita intera.

Questo è l’effetto che mi ha fatto Mary: ha alleggerito il peso della mia vita, senza saperlo, pur avendomela irrimediabilmente incasinata, tanto da sentire l’esigenza di spogliarmi di ogni cosa, di essere nudo, di seguire il mio cuore, di volare...

«Ti piace?» mi sussurra Valeria, che mi ha raggiunto, sedendosi accanto a me.

«È il mio preferito» dico, con un tono che non ammette repliche.

«Lo sapevo che ti sarebbe piaciuto, lui è un grande, rappresenta l’avanguardia del fotogiornalismo d’inchiesta.» Poi prosegue: «Allora, come è andata con la tipa, l’amica di Franco?».

«Lasciamo stare... Terribile!»

«Terribile? Non avevi detto che era interessante, che ti aveva colpito?»

«Terribile il tutto, terribile la serata. Terribile lei. Terribile io. Terribile la mia vita...»

«Non te ne va bene una! Poi mi racconti...»

«C’è poco da raccontare, Valeria, non c’è proprio nulla da raccontare...»

«Mi spiace, Luca, vorrei poterti aiutare, davvero!»

Proprio in quel momento arriva il beep di un WhatsApp.

Franco: “Non potevi evitare di trattarla così?”.

Luca: “Così come? Non ha colto il senso delle mie parole, Franco, io le facevo degli esempi, riflessioni, e lei...”.

Franco: “Luca...”.

Luca: “Mi spiace...”.