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BALLARD

Ballard iniziò il turno presentandosi all’appello. I detective del turno di giorno non le avevano lasciato nulla nella sua casella, perciò salì per informarsi della situazione per le strade. Il tenente Washington era venuto di persona, un altro segno che la nottata si presentava tranquilla. Di solito lasciava gestire a un sergente l’appello e la distribuzione degli incarichi, mentre lui restava in sala controllo a monitorare ciò che succedeva fuori.

Washington chiamò le squadre assegnando a ciascuna un distretto.

«Meyer e Schuman: sei-A-quindici. Doucette e Torborg: sei-A-quarantacinque. Travis e Marshall: stanotte vi tocca il quarantanove.»

E così via. Annunciò che la compagnia di assicurazioni State Farm continuava la sua campagna di un mese contro le auto rubate, premiando con spille da appuntare sulla divisa gli agenti che ne recuperavano cinque o più. Tra i poliziotti presenti, disse Washington, alcuni avevano già totalizzato cinque auto, altri erano bloccati a tre o quattro. Voleva un totale appoggio all’iniziativa. A parte questo, non c’era molto da dire. La riunione finì con un avvertimento.

«Queste notti sono state tranquille, ma la situazione cambierà» disse il tenente. «Succede sempre. E non voglio nessuno che faccia il sottomarino. Ricordatevi che non sono più i vecchi tempi, ora ho il vostro segnale gps sullo schermo e se vedo qualcuno che gira intorno alla base, al prossimo dislocamento gli assegno il trentuno.»

“Fare il sottomarino” significava lasciare la propria area di pattuglia e restare vicino alla centrale in modo da poter tornare subito non appena arrivava la comunicazione che il turno del mattino stava entrando in servizio. Il sei-A-trentuno era il settore più lontano, a East Hollywood, con un alto tasso di senzatetto, ubriachi e altro, e riceveva frequenti chiamate per disturbo della quiete pubblica. Nessuno voleva lavorarci, specialmente per un intero periodo di dislocamento, che durava ventotto giorni, perciò di solito veniva assegnato a chi finiva sulla lista nera del comandante del turno.

«Bene, ragazzi» concluse Washington. «Andiamo a lavorare.»

Tutti cominciarono a uscire, ma Ballard restò seduta per parlare con il tenente da sola. Lui notò la mossa e ne capì subito il senso.

«Ballard, cosa c’è?»

«Tenente, ha qualcosa per me?»

«Non ancora. Hai da fare?»

«Devo finire un paio di cose dalla notte scorsa e rintracciare un numero telefonico. Mi chiami se c’è bisogno di me.»

«Va bene.»

Ballard scese le scale ed entrò in sala detective, sedendosi nel suo solito angolo. Accese il laptop e aprì il programma per le intercettazioni, nel caso che Elvin Kidd decidesse di fare una telefonata o mandare un sms di mezzanotte. Era improbabile, ma tenere il canale aperto non costava nulla, e un colpo di fortuna era sempre possibile.

Si mise al lavoro per rintracciare il numero a cui Kidd aveva inviato l’sms, dopo la telefonata di Dennard Dorsey. Il primo passo fu consultare un database di Google con un elenco telefonico inverso, che però non produsse nessun risultato. Una ricerca su LexisNexis fu ugualmente inutile: il numero non era nei loro elenchi. Allora entrò nel database del dipartimento per vedere se comparisse in qualche rapporto o altro documento ufficiale. Stavolta ebbe fortuna, e lo trovò riportato sulla scheda di un colloquio sul campo, o CSC, di quattro anni prima. La scheda era stata digitalizzata e fu in grado di aprirla sul computer.

Il colloquio era stato condotto da una squadra di intelligence sulle gang del South Bureau: si erano fermati a parlare con un uomo che gironzolava fuori da un ristorante chiuso, tra Slauson e Keniston Avenue, al confine tra Los Angeles e Inglewood, in pieno territorio dei Rolling ’60. L’uomo si chiamava Marcel Dupree, cinquantun anni. Benché avesse negato di appartenere alla gang, aveva sul dorso della mano sinistra il tatuaggio della stella a sei punte dei Crips.

Aveva dichiarato che stava aspettando che lo venisse a prendere la sua ragazza, perché aveva bevuto troppo. Visto che non era stato commesso alcun crimine, gli agenti avevano riempito una scheda CSC, completa di numero di cellulare, indirizzo di residenza, data di nascita e altri dettagli, ed erano andati via.

Ballard inserì nel computer il nome di Marcel Dupree, e vennero fuori parecchi arresti e almeno due condanne, risalenti a trentatré anni prima. Dupree era stato in carcere una volta per rapina a mano armata e l’altra per aver usato un’arma da fuoco in un edificio abitato. La cosa più importante, tuttavia, era il mandato di cattura ancora in atto contro di lui per non aver pagato il dovuto per il mantenimento dei figli. Non era molto, ma Ballard ora aveva in mano uno strumento di pressione, se fosse stato necessario.

Trascorse un’altra ora esaminando i rapporti dei vari arresti, che più di una volta si riferivano a lui come un membro importante dei Rolling ’60 Crips. Il problema degli alimenti era sfociato in un mandato di cattura perché ormai doveva a due donne diverse più di centomila dollari.

Ballard era elettrizzata. Aveva collegato due punti importanti e aveva qualcosa su Dupree che poteva usare per far avanzare l’indagine. Voleva dirlo a Bosch ma pensò che forse dormiva. Scaricò l’ultima foto segnaletica di Dupree, risalente a dieci anni prima, e una foto di quattro anni prima dal database della Motorizzazione. L’uomo aveva una testa perfettamente rotonda e i capelli a cespuglio. Mandò le due foto a Bosch perché sapesse che faccia aveva Dupree, prima della loro operazione di sorveglianza del giorno dopo.

Non sapeva se Bosch avesse inserito il segnale acustico che lo avvisava dei messaggi in arrivo, ma dopo cinque minuti non era ancora arrivata una risposta. Ballard prese il rover che aveva prelevato dalla base di carica a inizio turno e avvisò il tenente Washington che stava per fare un codice 7 (una pausa per mangiare), ma che portava come sempre la radio con sé. Uscì nel parcheggio deserto della stazione, salì sull’auto di servizio e partì.

C’era un furgone di tacos aperto di notte in un parcheggio tra Sunset e Western. Ballard ci mangiava spesso e conosceva Digoberto Rojas, l’uomo che lo gestiva. Le piaceva praticare il suo spagnolo con lui, anche se spesso riusciva solo a confonderlo perché lo mescolava con l’inglese.

Quella notte Rojas era solo e Ballard gli chiese in uno spagnolo zoppicante dove fosse suo figlio. Il giovane lavorava sempre con il padre, ma le ultime due o tre volte che lei era passata non l’aveva visto. Il fatto che Digoberto fosse solo la preoccupava, perché lo rendeva un bersaglio più vulnerabile. Mentre le preparava due tacos ai gamberetti, l’uomo rispose, da dietro il finestrino delle consegne: «È diventato pigro. Vuole solo stare tutto il giorno con i suoi vatos e poi dice che è troppo stanco per lavorare».

«Se vuole che ci parli io,» disse Ballard, lasciando perdere lo spagnolo «lo faccio volentieri.»

«No, non c’è problema, grazie.»

«Digoberto, è pericoloso lavorare tutta la notte da solo.»

«Anche lei è sola.»

«È diverso.» Ballard aprì la giacca, scoprendo la pistola al fianco, e sollevò il rover. «Basta una chiamata e i miei amici arrivano di corsa.»

«La polizia protegge anche me» disse Digoberto.

«Ma non possiamo essere sempre qui. Non vorrei mai ricevere una telefonata e scoprire che lei è stato rapinato, o ferito. Se suo figlio non vuole più lavorare qui, trovi qualcun altro. È importante.»

«Va bene, va bene. Ecco i tacos.»

Spinse fuori dal finestrino un piatto di carta, con dentro due tacos avvolti nella carta stagnola. Lei gli allungò dieci dollari e Digoberto alzò le mani come se fosse in arresto.

«No, scherza? Lei mi piace e porta qui altri poliziotti.»

«Grazie, ma lei lavora per guadagnare.»

Ballard lasciò la banconota sul bancone, prese il piatto e andò a sedersi a un tavolino pieghevole con sopra tovagliolini e una varietà di salse piccanti.

Mangiò rivolta verso Sunset Boulevard, con le spalle al furgone. Il cibo era delizioso e al secondo taco non aggiunse neppure la salsa. Prima che lo finisse, Digoberto venne a portargliene un altro.

«Mariscos» disse. «Deve provarlo.»

«Diventerò una gorda» rispose lei. «Pero gracias

Mangiò un boccone del taco ai frutti di mare e lo trovò buono come quelli ai gamberetti, ma meno saporito, quindi aggiunse della salsa piccante. Il secondo boccone fu ancora più soddisfacente, ma non arrivò al terzo. Tramite la radio portatile, Washington la inviò a un semaforo su Cahuenga, sotto il cavalcavia della 101, a meno di cinque minuti di macchina. Ballard gli chiese come mai c’era bisogno di un detective e la sua risposta fu: «Lo capirai da sola».

Poiché non aveva sentito nessuna chiamata relativa a quell’indirizzo dal centro di smistamento, capì che si trattava di un problema che non era stato gestito via radio. Troppi curiosi ascoltavano le frequenze della polizia, pronti a sfruttare ogni opportunità che potesse produrre un video vendibile.

Ballard rivolse a Digoberto un gesto di ringraziamento, gettò i piatti nel bidone e risalì in macchina. Prese Sunset fino a Cahuenga, poi si diresse a nord verso la 101. Vide una sola auto di pattuglia con i lampeggianti sul tettuccio accesi, dietro a un vecchio furgone con la pubblicità di una ditta che assicurava la pulizia di tappeti ventiquattr’ore su ventiquattro. Non ebbe il tempo di chiedersi chi poteva aver bisogno di far pulire dei tappeti nel cuore della notte. Uno degli agenti che aveva fermato il furgone venne verso di lei, con la torcia in mano. Era Rich Meyer, lo aveva visto prima all’appello.

Ballard spense il motore e scese. «Rich. Cos’abbiamo?»

«Il tizio nel furgone deve essere uscito dall’autostrada, venendo qua sotto perché le donne che aveva nel retro potessero fare i loro bisogni. Io e Shoo passiamo e vediamo quattro donne accucciate sul marciapiede.»

«Accucciate?»

«Per pisciare! Sembra traffico di esseri umani ma nessuno ha un documento e nessuno parla inglese.»

Ballard si diresse verso il furgone, dove Shuman, il partner di Meyer, attendeva in compagnia di un uomo e quattro donne, tutti con le mani legate dietro la schiena da fascette di plastica. Le donne erano scarmigliate e in abiti succinti, tutte con i capelli neri e i tratti latini. Nessuna sembrava avere più di vent’anni.

Ballard prese la minitorcia dalla cintura e puntò il fascio di luce oltre i portelli posteriori aperti del furgone: un materasso, alcune coperte consunte, borse di plastica piene di vestiti. Puzza di sudore e disperazione.

Spostò la luce in avanti e vide uno smartphone in un supporto sul cruscotto. Sullo schermo illuminato c’era una mappa gps. Fece il giro del furgone, aprì la portiera del conducente e tolse il cellulare dal supporto. Toccando lo schermo scoprì la destinazione del furgone: un indirizzo su Etiwanda Street, nella valle. Mise il telefono in tasca e tornò da Meyer e Shuman, che attendevano insieme ai fermati.

«Chi abbiamo in giro stanotte che sa lo spagnolo?» chiese.

«Ah, c’è Perez nell’U-boat» rispose Meyer. «E anche Basinger lo parla.»

Ballard ricordò di averli visti entrambi all’appello. Conosceva Perez abbastanza bene e inoltre una donna era la scelta migliore per comunicare con le quattro fermate. Se era di turno nell’U-boat, il nome in gergo di un’auto con a bordo una sola persona, che accettava solo chiamate riguardanti reati minori, far venire lei non avrebbe tolto dalle strade una pattuglia attiva. Prese il rover e richiese la presenza dell’agente Perez sulla scena. Perez confermò la disponibilità, stimando il tempo d’arrivo in otto minuti.

«Dovremmo chiamare l’ICE e passare il caso a loro» disse Shuman.

Ballard scosse la testa, alla menzione dell’Immigration and Custom Enforcement. «Non è il caso.»

«Ma è la procedura» insisté l’agente. «Sono evidentemente immigrati illegali. Quindi chiamiamo l’ICE

Shuman aveva una sola barra sulla manica della divisa: cinque anni di servizio. Ballard guardò Meyer, che aveva quattro barre. L’altro agente, alle spalle di Shuman, alzò gli occhi al cielo, come a dire che non le avrebbe creato problemi.

«La detective sono io» disse Ballard. «E sono io ad avere il controllo di questa indagine. Niente ICE. Se non ti va bene, Shuman, torna in auto e riprendi il tuo giro di pattuglia. Da qui in avanti me ne occupo io.»

L’agente distolse lo sguardo e scosse la testa.

«Se chiamiamo l’ICE, le rimandano indietro e loro ci riprovano» spiegò Ballard. «Riattraversando di nuovo tutti gli orrori e le violenze subite la prima volta.»

«Questo non è un problema nostro.»

«Forse dovrebbe esserlo.»

«Senti, Shoo» intervenne Meyer. «Qui ci penso io. Perché non torni al negozio e cominci a scrivere il rapporto?»

Il “negozio” era l’auto di pattuglia. Shuman ci andò senza dire una parola e salì dal lato del passeggero, voltando verso di sé il terminale di bordo con un gesto di stizza, per scrivere il rapporto.

«Spero che scriva il mio nome nel modo giusto» disse Ballard.

«Ne sono sicuro» disse Meyer.

Perez arrivò con due minuti d’anticipo. Con il suo aiuto, Ballard interrogò prima il conducente del furgone, il quale disse solo di essere stato pagato per portare quattro giovani donne a una festa. Non ricordava dov’era andato a prenderle, né chi lo aveva pagato. Ballard disse a Meyer di portarlo in cella di custodia, alla stazione di polizia di Hollywood, dove più tardi lei lo avrebbe formalmente messo in stato d’arresto per traffico di esseri umani.

Una volta tolto di mezzo l’autista, le donne trovarono la voce e, con la traduzione di Perez, una alla volta raccontarono storie tristi e orribili, ma tipiche di quei viaggi della disperazione. Venivano da Oaxaca, in Messico, avevano attraversato illegalmente il confine su un camion di avocado che aveva uno scomparto segreto, e ciascuna di loro aveva pagato il viaggio facendo sesso con vari degli uomini coinvolti. Una volta a Calexico, sul suolo americano, erano state caricate sul furgone e portate a nord fino a Los Angeles. Quel viaggio, era stato detto loro, costava migliaia di dollari, che avrebbero dovuto restituire. Non sapevano cosa le aspettasse a quell’indirizzo nella valle, ma lo sapeva Ballard: schiavitù sessuale in bordelli gestiti da gang e una fossa nel deserto se avessero smesso di fruttare soldi. Tanto nessuno si sarebbe accorto della loro scomparsa.

Dopo aver organizzato il traino del furgone con un carro attrezzi della polizia, Ballard chiamò una clinica per donne maltrattate a North Hollywood, a cui si era già rivolta in passato. Parlò con il proprio contatto spiegando la situazione e la donna acconsentì a prendere in carico le quattro messicane, per assicurare loro un trattamento medico, un letto e vestiti puliti. La mattina dopo sarebbero state presentate loro le opzioni possibili: tornare a casa volontariamente o richiedere asilo sulla base del fatto che il gruppo che le aveva inviate negli USA avrebbe fatto loro del male se fossero tornate in Messico. Nessuna delle due era una buona scelta. Ballard sapeva che quelle donne sarebbero andate incontro a molte altre avversità.

Dopo l’arrivo del carro attrezzi per il sequestro del furgone, Ballard e Perez caricarono due donne ciascuna sulle rispettive auto per portarle al rifugio di North Hollywood.

Ballard tornò in centrale alle cinque del mattino. Scrisse il rapporto per l’arresto dell’autista del furgone, usando il nome Juan Doe perché l’uomo rifiutava di identificarsi. In ogni modo, lo avrebbero identificato le impronte digitali, se aveva già avuto contatti con la polizia americana, il che era più che possibile.

Il dipartimento aveva una task force per il traffico di esseri umani, con sede al PAB. Ballard aprì un fascicolo sul caso e lo mise nella scatola di documenti in transito, perché fosse consegnato in centro al mattino. Era una delle poche volte che non le dispiaceva passare di mano un caso, come dettava il protocollo del turno di notte. La tratta di esseri umani era uno dei peggiori crimini di cui le fosse mai capitato di doversi occupare, e lasciava troppe cicatrici. Inoltre le ricordava il proprio passato, quando viveva sola a quattordici anni per le strade di Honolulu.

Lasciò la centrale alle sette e si diresse verso il suo furgone. Sapeva di doversi trovare nel distretto Crenshaw al più tardi a mezzogiorno, se voleva spiare l’incontro tra Elvin Kidd e Marcel Dupree, ma al momento aveva bisogno della spiaggia. Stanca com’era, non pensava di dormire. Voleva andare a prendere il suo cane e uscire in mare, per pagaiare controcorrente sulla sua tavola fino a esaurire corpo e mente, in modo che nulla potesse affacciarsi a tormentarla.