XXXIII.

Il primo volto che riconobbe rinvenendo fu quello di Frese.

-    Giacomo... Giacomo... mi senti?

Amaldi fece fatica a metterlo a fuoco. Poi sentì le mani degli infermieri che tentavano di sollevarlo. Provò a parlare ma la voce gli si impantanò in gola. Allungò un braccio e fece segno agli infermieri di fermarsi. Sbattè le palpebre e cercò di ricordare. Accanto a lui il corpo di una suora, con la testa spappolata da una pallottola. Si aggrappò a Frese, con una domanda negli occhi che la voce non riusciva a sonorizzare.

-    Vuoi sapere di Giuditta? - intuì il vice. - Sono qui per questo. Ero venuto per dirti che abbiamo una speranza...

Amaldi sorrise appena e sentì una corrente vitale invadergli il corpo, come se si destasse da un incubo.

-    An... diamo... - riuscì a balbettare cercando di alzarsi mentre una lacrima liberatoria gli appannava nuovamente la vista. - Non cerca... re di fermarmi... Devo... devo veni... re...

Frese guardò il medico che stava controllando le ferite di Amaldi. Il dottore scosse la testa.

-    Sei sicuro di farcela? - domandò Frese al superiore. - Sei ridotto da far schifo.

-    Aiutami, - rispose Amaldi e cercò ancora di sollevarsi in piedi.

Frese lo sorresse azzittendo il medico con un cenno.

-    Ti devono fasciare, però, - disse ad Amaldi.

-    Non... serve...

-    Serve eccome. Sanguini come un animale macellato. Se ti faccio montare così su una macchina la riduci una merda.

Amaldi sorrise appena.

-    Mettetelo sulla barella, - ordinò prontamente il medico, - e portatelo di sotto.

Nel breve tragitto lungo il corridoio Amaldi sentì lo scalpiccio dei piedi degli infermieri risuonare sonori e martellanti, isolati, come fossero l’unico rumore in tutto l’ospedale. La luce delle lampade appese al soffitto lo bagnava e poi lo abbandonava e poi ancora lo colpiva mentre avanzava disteso sulla barella. Per tre volte. Per tre ondate. Per tre lampade e per tre zone d’ombra. Intanto il dottore gli stava stringendo una fascia al polpaccio squarciato, riducendo l’emorragia, e un infermiere gli medicava la ferita alla spalla e al collo.

Amaldi era abbandonato alle cure, incapace di parlare. Riviveva la scena della suora che lo accoltellava e poi gli puntava la pistola alla fronte.

Le porte dell’ascensore di servizio si chiusero con un tonfo assordante, che gli ricordò lo sparo. Non era morto. E c’era una speranza per Giuditta, aveva detto Frese. Si voltò e lo cercò con lo sguardo. Il vice aveva il volto teso. Amaldi lottava con il desiderio di arrendersi. Il polpaccio ferito era insensibile ma il dolore s’inerpicava oltre il ginocchio e lungo la coscia levandogli il fiato. La spalla bruciava e sapeva di disinfettante.

Poi l’ascensore si fermò, le porte si aprirono e la barella sfilò in mezzo a un cordone di curiosi, dipendenti dell’ospedale, pazienti in pigiama e visitatori, a fatica trattenuti dai pochi agenti disponibili. Amaldi chiuse gli occhi. L’aria fredda, all’aperto, gli diede una sferzata e sembrò risvegliarlo.

-    Ce la fai? - domandò allora Frese porgendogli il cappotto.

Amaldi annuì e cominciò lentamente ad alzarsi. Due agenti lo aiutarono a infilarsi il cappotto, lo trasportarono fino alla macchina, chiusero lo sportello e Frese gli si sedette accanto.

-    Dove? - chiese Amaldi con un filo di voce appena la vettura cominciò a muoversi.

-    Al porto, - rispose Frese. - Muffa ha fatto centro un’altra volta. È un fenomeno quel ciccione. Ha trovato l’ultimo documento mancante. Il testamento della signora Cascarino... vedova Avildsen. Il documento numero diciannove. Lascia tutto al Comune, in special modo la villa, perché venga trasformata in un centro specializzato in ustioni infantili. Ci crederesti? Ustioni infantili, porca troia... Sembra una presa per il culo, vero? Prima li abbrustolisce e poi li vuole curare...

-    Do... ve?

-    Nell’elenco dei beni è descritto un locale che appartiene alla famiglia Cascarino da quando commerciavano per mare. Un magazzino al porto... Abbiamo la ragionevole speranza che Giuditta sia lì -. Guardò il suo superiore. - È lì, Giacomo. Deve essere lì...

Amaldi non riuscì a sorridere. Quasi sicuramente era lì. Ma bisognava ancora accertare se era viva. Le probabilità erano nulle, si diceva. Perché altrimenti il professor Avildsen sarebbe passato alla sua vittima successiva? Il fatto che avesse cercato di decapitare Ajaccio indicava che la testa era il pezzo mancante. L’ultimo pezzo. Il tronco doveva averlo già preso.

Nell’abitacolo della macchina, che procedeva a sirene spiegate in mezzo alle strade devastate dall’immondizia, scese un silenzio lugubre. Amaldi spostò lo sguardo fuori del finestrino e trasse un profondo respiro che risvegliò il dolore alla gamba.

-    Non è un testamento, - riprese a dire Frese, cercando di smorzare la tensione dell’attesa, - è una confessione. Della signora Cascarino e... del testimone che ha firmato il documento.

Amaldi lo guardò.

-    Il commissario che condusse le indagini sull’incendio dell’orfanotrofio. Il nostro attuale sindaco, - gli sussurrò in un orecchio Frese, in modo che i due agenti seduti davanti non lo sentissero.

Amaldi non riuscì a formulare la domanda successiva. Si sentiva troppo debole. Mosse appena la mano.

-    Non so che dire, Giacomo, - continuò sottovoce Frese. - Ha controfirmato la clausola in cui la signora Cascarino accettava questo testamento come unico valido, rinunciando alla possibilità di stilarne un altro. E la data in cui è stato redatto corrisponde a quella della chiusura delle indagini. Serve altro per tirare le somme?

Amaldi scosse la testa.

-    Per... ché...?

-    Non lo so. Era un commissario capo, non un cretino qualsiasi, sapeva benissimo che la sua firma equivaleva a una confessione, - rispose Frese.

-    Perché?

-    Temo che per saperlo glielo dovremo chiedere.

Amaldi gli appoggiò la mano sulla gamba.

-    L’indagine è tua... - disse. - È tuo... il merito.

-    Già... be’... ne avrei fatto volentieri a meno di tutta questa merda.

Amaldi annuì, poi guardò la strada. Stavano scendendo verso il porto. Ancora poche centinaia di metri e avrebbe saputo se la sua vita sarebbe stata segnata da un’altra ragazza come un sacco.

Frese avvertì l’angoscia del superiore.

-    Devi essere forte, Giacomo, - disse. - Almeno l’hai preso.

-    Non l’ho... preso... io... - rispose Amaldi pensando alla suora distesa sul pavimento della stanza d’ospedale. Guardò Frese. - Ajaccio... era già morto... È stata questa... la mia fortuna... e quella di Ajaccio.

Frese annuì. Stava pensando all’agente ucciso. Lui non era stato fortunato.

-    Perché? - fu la sua volta di domandare.

Amaldi si strinse nelle spalle. C’erano domande che non avrebbero avuto risposta.

La macchina si fermò. La sirena smise di gemere. Le luci illuminavano uno spiazzo deserto, disseminato di buste dell’immondizia che brillavano colpite dai fari. Mentre apriva lo sportello Amaldi si scoprì a pensare che il suo incubo, nato tra i rifiuti vent’anni prima, tra i rifiuti avrebbe trovato una soluzione. In un modo o nell’altro. E che anche la vita di Ajaccio, iniziata in una scatola abbandonata nella spazzatura, nella spazzatura si era conclusa.

-    È quello là, - disse Frese indicando una saracinesca arrugginita. - Aspettami qui.

-    No, - rispose Amaldi aggrappandoglisi a un braccio. - Devo farlo io.

Uscì dall’auto e insensibile al dolore, trascinando la gamba ferita, sorretto da Frese, arrancò fino alla saracinesca.

-    Giuditta ! - urlò, picchiando i pugni sul metallo arrugginito mentre i due agenti forzavano la serratura per alzare la saracinesca. - Giuditta! - urlò ancora, con rinnovata energia, incapace di controllarsi. - Giuditta! -urlò una terza volta, dando fondo alle ultime risorse fisiche e mentali residue. Era giunto il momento di sapere se il mondo gli sarebbe crollato addosso. E non si poteva più rimandare.

Con un sinistro clangore la saracinesca si sbloccò e risali le guide.

-    Giuditta! - gridò lanciandosi nel locale.

La luce scendeva pigramente da un lucernario lurido e illuminava l’ampio spazio quasi deserto. Al centro, come un altare, un piano di lavoro. Giuditta, immobile, giaceva crocifissa, le braccia aperte fissate a due cinghie di cuoio, le gambe tese e bloccate da una ruvida corda di canapa. Aveva i capelli scompostamente sparsi sul piano metallico. Era quasi completamente nuda. Accanto a lei un altro corpo. O quel che rimaneva di un corpo. Due braccia umane. Due gambe umane. Il tronco di legno. Senza testa.

Amaldi avanzò disperato. Vedeva sangue sulla faccia di lei. Poi, quasi giunto al tavolo, Giuditta si voltò.

Amaldi sentì un tuffo al cuore. Le arrivò addosso. Le accarezzò il volto mormorando frasi sconclusionate. Le liberò le braccia dalle cinghie, le gambe dalla corda e la copri con il suo cappotto insanguinato. Giuditta era livida, disidratata e quasi incosciente.

-    Un’ambulanza! - strillò istericamente Amaldi rivolto a Frese.

-    Sta arrivando, - rispose il vice, voltandosi impercettibilmente verso il suono di una sirena che s’avvicinava.

Amaldi abbracciò Giuditta, l’alzò, le baciò le guance, accarezzando lievemente il labbro spaccato.

Giuditta aveva lo sguardo lontano. Poi, lentamente, sembrò riprendere coscienza. Incrociò gli occhi di Amaldi. Non capì cosa dicesse ma vide che era sporco di sangue. Gli passò una mano sulla ferita al collo. Amaldi le puliva il labbro. Quasi tornassero a riconoscersi attraverso la carne straziata.

Giuditta aprì la bocca secca.

-    Non parlare, - le disse Amaldi sorridendo.

Le lacrime di entrambi annacquavano il sangue, rendendolo meno vivo, meno presente.

I due agenti aiutarono Giuditta a guadagnare l’uscita e Frese offrì la sua spalla ad Amaldi. Giuditta, mentre camminava, continuava a voltarsi verso Amaldi e Amaldi cercava di accelerare il passo per raggiungerla. Entrambi ridevano, adesso.

Mentre la caricavano sull’ambulanza Giuditta vide Max Peschiera e si irrigidì. Il ragazzo fece una smorfia preoccupata.

-    È lui... che ti ha salvato... - le mormorò Amaldi sedendosi accanto a lei.

Giuditta si abbandonò sulla lettiga. Sentì un ago che le penetrava nel braccio e un liquido caldo e appena irritante che l’invadeva. Poi, mentre le applicavano un respiratore sul viso, avvertì una gran stanchezza, i polmoni si saturarono di ossigeno e la testa cominciò a girarle. Mosse appena la mano e subito Amaldi gliela prese e la strinse nella sua, accarezzandola. Giuditta lo guardò e pensò che lo amava.

-    Perdonami, - le sembrò che dicesse. Ma non aveva importanza. Nulla aveva più importanza.

Giuditta si levò la maschera dell’ossigeno dal volto.

-    Resta con me, - riuscì a dire.

Amaldi annuì dolcemente, socchiudendo le palpebre.

-    Ti sei arreso?

Amaldi si chinò verso il suo volto con un’espressione seria e le sfiorò le labbra con un bacio. Poi le mise a posto la maschera e si portò l’indice alla bocca, facendole segno di tacere.

Giuditta chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal lamento monotono della sirena.

Amaldi le stringeva sempre la mano.