VIII.
L’uomo risali il corso per la settima volta, assecondando il flusso domenicale di gente che passeggiava sotto i portici. Era pomeriggio inoltrato. La luce si faceva sempre più obliqua disegnando ombre lunghissime e sottili, riscaldate appena dalle nuove sfumature lilla della sera che si annunciava.
Presto sarebbe stato buio. Uno speciale sbocciare d’oscurità perché l’uomo aveva un appuntamento. E un disegno.
Quella mattina aveva ricoverato la madre in una luminosa stanza dell’ospedale cittadino. Aveva osservato l’andirivieni di infermieri e dottori, aveva fiutato nell’aria l’odore stucchevole dei medicinali e quello penetrante dei disinfettanti, aveva spiato negli occhi dei degenti, la sofferenza e la paura di morire con febbrile impazienza. Ma non poteva andarsene subito, non doveva attrarre l’attenzione con un comportamento anomalo. La coscienza di avere un disegno grandioso portava con sé un regalo straordinario. Davanti a lui, come la madre aveva sempre voluto, si dispiegava un fulgido avvenire. La sua solitudine sarebbe stata colmata. L’unico prezzo da pagare era l’anonimato. Doveva imparare a essere invisibile. Qualsiasi. Nonostante fosse eccezionale. Perciò, rincantucciato in un angolo della stanza, aveva recitato fino in fondo la sua parte, rivolgendo querule domande ai medici, sopportando la loro maleducata condiscendenza, il loro professionale distacco. Ma in un certo qual modo era grato a questa marcia genia di sanitari perché l’avevano involontariamente e ottusamente aiutato a sentirsi piccolo e invisibile, insignificante e inutile. Era questa la grandezza del disegno: il mondo intero pareva piegarsi ai suoi scopi. Dopo appena un’ora s’era sentito pronto. Aveva attraversato corridoi e reparti dell’ospedale con sicurezza, seguendo una mappa che aveva in testa, senza farsi notare da nessuno e senza che nessuno gli rivolgesse una sola occhiata. Rasentando i muri come un’ombra. Aveva raggiunto il primo piano, era entrato in una sala operatoria incautamente lasciata aperta, aveva frugato con efficienza nei cassetti e trovato quel che gli serviva. Il bisturi, la sega, le matite grasse che talvolta usavano i chirurghi. Aveva messo tutto in una sacca di tela, insieme all’ago ricurvo per suture, al collante a presa rapida, agli ami da pesca, al resistente filo di refe, a quello di nylon e al nastrino di velluto verde. Poi aveva nascosto la sacca sotto il pesante cappotto grigio spinato, non troppo elegante né troppo rovinato. In tasca, conservate integre in una busta di cartoncino rigido, tre foglie secche.
Si era sentito invincibile dietro la sua nuova maschera di uomo comune. Era andato verso l’uscita a passi calmi, come un qualsiasi visitatore, con le spalle appena curve, fingendo di portarsi appresso il doloroso peso di aver ricoverato un parente o un conoscente. Giunto alla porta si era voltato per tornare indietro, attratto dallo squallore dell’ingresso. L’aveva studiato come se fosse la prima volta che lo vedeva. Ai due lati estremi, a destra e a sinistra, due salottini d’attesa. Le poltrone e i divani erano ricoperti di similpelle marroncina che sui braccioli s’arricciava intorno a un grosso bottone. I tavolini erano neri e opachi, di materiale plastico. Il ripiano invaso di riviste vecchie e a brandelli. Di alcune rimanevano solo le copertine. Nel salottino di destra resisteva gloriosamente un tappeto che agli angoli s’arrotolava verso l’alto. Si lasciò sprofondare in una poltrona. Gli strumenti chirurgici che aveva sottratto tintinnarono appena, sbattendo fra loro.
Di fronte a sé aveva l’imponente bancone di marmo verde scuro, venato di nero e ocra. Da dietro sbucava un’infermiera. L’uomo la guardò. Aveva una cinquantina d’anni, capelli color paglia unti e radi, con un’evidente ricrescita scura, tenuti insieme da un vezzoso nastrino celeste che s’intonava agli occhi chiari, vuoti. Le mani, che giocherellavano con una penna con la destrezza tipica di chi compie automaticamente quei movimenti, avevano unghie lunghe, appuntite, laccate d’argento. Mentre era intenta a rispondere al telefono la donna le controllò con un’occhiata fuggevole. L’uomo era certo che da qualche parte, opportunamente occultata al pubblico, l’infermiera avesse un’attrezzatura di taglierine, lime, acetone e smalto. L’uomo assaporò a pieni polmoni l’atmosfera profondamente umana che si respirava nell’ingresso di quella valle di lacrime. Tutto ciò che aveva rifiutato fino ad allora, tutto ciò che la madre gli aveva imposto di ripudiare, da quella mattina in poi sarebbe divenuto la sua seconda pelle. Chiuse gli occhi e finse di assopirsi. Concentrò la sua attenzione sui rumori; sulle scie di odori che la dolente comunità ospedaliera si trascinava dietro, entrando e uscendo; su brandelli di conversazioni, la maggior parte dei quali riguardavano lo sciopero dell’immondizia. Quando li riaprì la sua imitazione di un uomo qualsiasi era ormai perfetta.
Allora se ne andò.
Prese dal bagagliaio della sua macchina un pacco informe che aveva un diametro di una trentina di centimetri ed era lungo un metro scarso. La carta marroncina scricchiolò appena quando si mise il pacco sotto l’ascella destra. Poi si infilò a piedi nella città.
Adesso che la sua metamorfosi stava accadendo, come un magnifico evento, adesso che finalmente era invisibile e, crescendo, pregustava la sua libertà, adesso che nessuno avrebbe potuto puntare l’indice su di lui e mostrarlo come una vergogna, si lasciava trasportare e spintonare senza più paura dal fiume di gente che sembrava non sfociare in alcun mare. Ora poteva farlo. In attesa delle tenebre che il suo atto avrebbe illuminato. Neanche una delle persone che gli camminavano accanto per pochi passi aveva coscienza di ciò che stava accadendo, nessuno vedeva la malattia come la vedeva lui, lanciata per le strade della città, acquattata tra i bidoni dell’immondizia stracolmi, danzante tra le rovine del teatro dell’opera, furtiva per i vicoli bui. E non se ne rendevano conto perché la malattia era furba, sapeva nascondersi agli occhi degli uomini proprio mostrandosi, camminandogli spalla a spalla, come uno qualsiasi di loro, visibile e comune. Ma intanto agendo, contaminando, diffondendosi. Senza preoccuparsi né del bene né del male perché nell’uno come nell’altro caso essa aveva il solo scopo di aiutarlo a compiere il suo destino.
La sua vita, ormai, non era altro che un disegno già nella mano e nella matita del pittore. La sua vita era dritta e semplice come un lungo corridoio. Non gli restava altro che percorrerlo fino in fondo. Era solo una questione di tempo. E il tempo, di cui teneva conto per motivi pratici, sembrava riguardare più gli altri. Quelli, o quella, che il tempo avrebbe condannato. Per lui invece scorreva lento e veloce contemporaneamente a mano a mano che il prologo delle tenebre annunciava l’imminente passo. Lento perché, decisa la cosa, la cosa stessa, in fondo, era già compiuta, o era almeno compiuta la parte più importante della cosa: il decidere di farla. Accettare la grandezza implicita nella decisione. Per questa ragione non aveva fretta. Veloce, al contrario, perché una piccola porzione della sua coscienza ancora resisteva alla decisione e questa resistenza lo avvicinava al momento della verità e del volere in cui avrebbe dovuto consacrarsi all’azione, risolversi nell’istante dell’atto. E poiché la velocità e la lentezza si conciliavano in un’unica sensazione, ciò che gli restava nella mente era un’impressione d’immobilità in cui non era veramente lui a camminare bensì, più probabilmente, era la città a scivolargli sotto i piedi.
Così, scivolando, la città gli portò il negozio e il destino gli offrì l’antiquaria.
L’aveva vista per la prima volta trentadue anni addietro, quando lei era una giovane commerciante che godeva della fiducia delle famiglie nobili e lui un adolescente di dodici anni. Era stata ricevuta dalla madre in una stanza al primo piano della villa. Lui le aveva sentite chiacchierare amabilmente, all’apparenza, ma aveva colto nei toni conviviali delle due donne una tensione sotterranea. Questo lo aveva incuriosito e spinto a spiarle. La donna aveva esaminato con occhio rapace dei gioielli e poi, girando per le stanze, aveva toccato e ispezionato i mobili. Degli uni e degli altri la padrona di casa voleva sbarazzarsi con discrezione. Lui, nell’ombra, le seguiva. Le poteva vedere solo a tratti, per non rischiare d’essere scoperto, ma distingueva chiaramente i loro passi. Quelli nervosi e ticchettanti della madre, quelli strascicati e falsamente annoiati dell’antiquaria. Finita l’ispezione si erano rinchiuse di nuovo nella stanza al primo piano, al riparo dalle orecchie indiscrete delle suore. La commerciante aveva stabilito per ogni oggetto un prezzo, senza bisogno di consultare l’elenco scritto che la padrona di casa le aveva fornito. Lui, da una nicchia a metà della scala che portava al secondo piano, dietro una grata di ferro battuto impreziosita da un Cupido in bronzo dorato, aveva visto il volto della madre irrigidirsi, gli occhi stringersi fino a diventare due fessure. Non aveva detto niente all’antiquaria, non aveva discusso le stime. Una volta cresciuto, l’adolescente che le aveva spiate avrebbe compreso che quell’offerta miserabile era il prezzo della discrezione. Ogni sigillo, ogni segno di riconoscimento della famiglia, ogni stemma sarebbe stato cancellato. Tutte le tracce di quella transazione sarebbero scomparse, come se non fosse mai avvenuta, assicurò l’antiquaria. Il prezzo del silenzio. Quando si erano salutate le due donne parevano trasfigurate. La madre era avvizzita. La giovane antiquaria spandeva in giro sorrisi radiosi per l’affare appena concluso. Aveva capelli platinati, con due virgole volgari che dall’orecchio s’arricciavano verso la guancia, la parte superiore dell’acconciatura gonfia, cotonata. Alzandosi si era raddrizzata la gonna attillata, verde acqua, che arrivava appena sopra il ginocchio, si era infilata velocemente l’indice in bocca, l’aveva strofinato contro il pollice e s’era chinata alzando una gamba per fermare una smagliatura della calza. Mentre si piegava, il seno pallido e morbido s’era affacciato dalla scollatura quadrata della camicetta senza maniche, rosa. Poi si era infilata una giacchina corta, avvitata, verde acqua come la gonna. Aveva aperto la borsa chiara, piccola e rigida, al cui manico era annodato un foulard, aveva estratto il libretto degli assegni e scritto la cifra che avrebbe corrisposto alla padrona di casa. In un impeto d’euforia mal controllata s’era avvicinata alla signora Cascarino come per baciarla su una guancia. Lui aveva visto la madre ritrarsi prontamente e farle strada verso l’uscita. L’antiquaria aveva un sedere molle, nonostante la giovane età, che tendeva la stoffa e forzava la cerniera lampo della gonna. L’adolescente, guardandolo ondeggiare, aveva sentito una fitta acuta al mignolo sinistro. I recenti punti di sutura erano incrostati di sangue e il moncherino gonfio e giallastro pulsava dolorosamente. Ma ormai l’infezione era sotto controllo.
Trentadue anni dopo, come fosse davvero invisibile, l’uomo si infilò nella bottega dell’antiquaria. La città andava spopolandosi. I negozi chiudevano. La gente faceva ritorno a casa. Si nascose dietro una credenza ottocentesca che sapeva di cera d’api e poggiò a terra il suo pacco senza fare il minimo rumore. Attese immobile almeno dieci minuti, riducendo il respiro a un impercettibile ansito che non superava le assi grezze del retro della credenza. Il cuore gli rimbombava nelle orecchie, calmo, sottolineando i secondi che trascorrevano lenti e inesorabili.
Quel pomeriggio l’aveva spiata per l’ultima volta attraverso la vetrina ingombra d’oggetti impolverati. Era rimasto a osservarla da dietro una colonna annerita dalle esalazioni delle macchine e delle lontane fabbriche, concentrato sulle braccia tonde, sulle mani grassocce che avevano avviluppato quelle di sua madre e che avevano firmato l’assegno con cui aveva pagato la signora Cascarino trentadue anni prima, sulle dita strizzate come salsicce dagli anelli antichi in oro basso appartenuti a chissà quale famiglia in difficoltà. Adesso aveva cinquantacinque anni, capelli ancora platinati come un tempo, grandi boccoli, pelle chiara, quasi trasparente, occhi stupidi che sembravano di vetro. Era sola e s’aggirava per il locale stretto e lungo con aria indaffarata. In realtà, aveva dedotto l’uomo, era assillata dalla vecchiaia e dal decadimento fisico e si controllava in continuazione negli specchi dei guardaroba e dei comò. Supponeva che fosse il tipo di donna che andando avanti con gli anni ingrassava scientemente per tendere la pelle e far scomparire le rughe. Il sedere era sempre più molle.
L’aveva spiata per molto tempo senza sapere il perché. Fino a quando aveva compreso il ruolo della donna che aveva toccato sua madre nel grandioso disegno che lui doveva portare a termine. Era passata una settimana dalla sua gita in campagna. Dalla rivelazione.
Da quando aveva avuto la certezza che non esisteva casualità nel suo destino. Ogni avvenimento era concatenato a quello precedente e a quello successivo dalla precisa volontà di fargli compiere ciò che era già stato deciso che compisse, non giorni prima né mesi prima, ma da sempre, da quando era nato, perché era scritto che una parte del suo sangue lo avrebbe condotto alla fine a trovare la strada che gli era riservata. La strada che l’avrebbe innalzato dalla pozza scura e maleodorante nella quale era stato immerso solo per mostrargli che era destinato a emergerne ancora più pulito di prima. Più forte. Più solo.
Sentì l’antiquaria che faceva scendere la serranda del negozio, sbuffando mentre si piegava per bloccare la serratura, e immaginò il seno bianco che forzava la scollatura, come allora. Aspettò che spegnesse le luci poi uscì dal suo nascondiglio.
Forse la donna ravvisò in quell’ombra il volto del cliente che anni prima aveva acquistato da lei un oggetto molto particolare, forse no. Ma quando lui le fu quasi addosso certamente riconobbe il bagliore sinistro negli occhi dell'uomo. Immediatamente capì cosa le sarebbe successo, indietreggiò, le mani grasse e le unghie laccate opposte all’assassino. Cercò di scappare ma senza riuscire a correre, senza la forza di correre, e l’uomo le fu subito accanto. Neanche lui correva perché sapeva che avrebbe potuto correre se fosse stato necessario. La prese e la girò. Per un breve istante i due si ritrovarono stretti, avvinghiati l’uno all’altra, l’uno trattenendo e l’altra respingendo, agitandosi in una danza scomposta e pesante. I piedi si pestavano e scalciavano. Poi i piedi di lei, trattenuti al pavimento dal desiderio di non staccarsi dalla vita, furono sollevati insieme al corpo e la donna si ritrovò seduta su un’antica cassettiera.
- Ferma, - ordinò l’uomo a quegli occhi sbarrati, a quella bocca muta e spalancata, a quei muscoli irrigiditi dallo spasmo della paura.
Allora prese con calma dal muro un’alabarda seicentesca con la lama arrugginita che ricordava un giglio.