XXV.
Accucciati dietro una macchina Giacomo Amaldi e Nicola Frese si riparavano dalla pioggia di sassi e bottiglie che i cittadini inferociti scaricavano sulle forze dell’ordine. C’era un nuovo giro di vite. La gente si era stancata delle guerre tra vigilantes, tra quartieri e singole vie, e si era riversata per le strade della città come obbedendo a un segnale. Non era stata annunciata nessuna manifestazione di protesta, non c’erano organizzatori o sobillatori. Semplicemente la città, prima di morire soffocata dall’immondizia si era impennata. E come un cavallo imbizzarrito tirava calci e schiumava.
- Se non li fermiamo questi si ammazzeranno, - urlò Frese per superare il frastuono.
Amaldi si sporse per guardare la folla. I poliziotti, armati di scudi e fumogeni, cercavano senza successo di disperdere i dimostranti.
- Andiamocene, - disse.
Frese lo segui, un occhio al cielo per evitare i sassi.
- Non potremmo consegnargli tre o quattro spazzini e farglieli impiccare? - disse. - Si calmerebbero, ne sono sicuro.
Girarono per una via deserta e si avviarono verso l’appartamento della dottoressa Eleonora Cerusico. La visita ad Ajaccio era stata infruttuosa. L’agente si era improvvisamente aggravato. L’avevano trovato in uno stato pietoso e impressionante. Non faceva altro che parlare del profumo dell’incenso che pervadeva la sua stanza, come un segno premonitore. Amaldi e Frese, quando avevano compreso che non sarebbero riusciti a farlo ragionare, con un peso nel cuore erano andati via. Poi erano incappati nella folla. Ora camminavano guardandosi le spalle, a passi veloci, rasentando i muri. A un tratto, erano ormai alla fine della strada, gli si parò dinanzi un uomo alto e grosso, con il bavero della giacca strappato e la cravatta che pendeva tutta da una parte. Aveva un’andatura barcollante ma non da ubriaco. Sembrava piuttosto che gli avessero riempito il corpo di molle che non si decidevano a scattare. In mano aveva una pistola. Immediatamente Amaldi e Frese si fermarono. L’altro li vide solo allora. Gli puntò addosso l’arma, ma come un dito e non aggressivamente, e si avvicinò.
- Allora? - disse come proseguendo un discorso. -Ne avete trovati? Neanche uno?
Frese gli fece segno di no, assecondandolo. Amaldi era pietrificato.
- Neanche uno? - continuò l’uomo che ormai era a ridosso dei due, il braccio armato sempre teso in avanti. La canna della pistola si appoggiò allo sterno di Amaldi. L’uomo aveva gli occhi rossi, spiritati, e gli angoli della bocca erano secchi e biancastri.
- Perché non metti giù quell’affare? - disse Frese.
Amaldi notò che non c’era traccia di paura nella sua voce. Lui invece sentì le gambe farsi molli per il sollievo quando l’uomo guardò stupito la pistola, puntandosela verso gli occhi.
- Neanche uno? - ripetè abbassando l’arma.
- Neanche uno, - gli fece eco Frese. - Forse dovremmo andare tutti a riposare per un po’ e riprendere la caccia più tardi. Che ne dici?
L’uomo ebbe un lampo negli occhi. Sovrastava Frese di quasi due spanne. Amaldi non sapeva che fare. Frese allungò la mano verso l’uomo e gli toccò la spalla. Quello fremette, come morso da un impulso elettrico. Allora Frese aumentò la pressione sulla spalla. L’altro sussultò, alzò la pistola, gesticolò per un attimo senza riuscire a dire una sola parola anche se continuava
ad aprire la bocca e poi le lacrime gli colmarono gli occhi. Frese prese l’arma e quello cadde. Ansimò un paio di volte.
- È ora di andare a casa, - disse Frese all’uomo che, sporco e informe a terra come le buste dell’immondizia, non sembrava più così grosso. - Dove abiti? Vuoi che ti ci accompagniamo?
Quello scuoteva la testa a destra e a sinistra, sempre più lentamente, finché fu completamente immobile, lo sguardo tra i rifiuti.
- Ehi, - continuò Frese, - dài, forza, alzati, - e lo sollevò quasi tutto da solo, riuscendo a metterlo in piedi. - Vai a casa, forza, - gli prese le guance e lo costrinse a volgere il capo verso di lui, poi gli diede uno schiaffetto. - Vai a casa, hai capito?
L’uomo ciondolò il capo.
- Bravo, - disse Frese. - Te lo ricordi dove abiti?
L’uomo fece segno di sì.
- Guarda qua come ti sei conciato, - disse ancora Frese cercando di aggiustargli il bavero strappato e raddrizzandogli la cravatta. - Adesso chi la sente tua moglie? Non vorrei essere nei tuoi panni.
L’uomo sorrise appena.
- Dài, vattene, - disse Frese e gli diede una pacca sulla schiena come si fa con i somari. E quello, come un somaro, cominciò a far ritorno verso la stalla.
Lo guardarono finché girò l’angolo, poi anche loro si mossero. Non dissero una parola per alcuni minuti. Amaldi continuava a ripetersi che non era stato capace di reagire, che si era fatto prendere dal panico. E Frese doveva averlo notato.
- Grazie, - disse Amaldi dopo un po’.
- Se non l’avessi fatto io, l’avresti fatto tu, - rispose generosamente il vice.
- No, - disse Amaldi, - non l’avrei fatto.
L’ispettore capo, camminando a testa bassa e in silenzio, rivedeva la scena, gli occhi rossi del pazzo che l’avevano inchiodato e la canna dura della pistola contro lo sterno. E la paura, la terribile paura che aveva provato. Sentì il peso tremendo della sua sconfitta. Aveva perso. Era accaduto. La sua grande, superiore intelligenza aveva fatto cortocircuito. Allora gli montò una rabbia incontenibile, un odio feroce per se stesso. Mentre mostravano il distintivo a due agenti che piantonavano l’appartamento della dottoressa uccisa Amaldi si portò una mano al cuore, come per sincerarsi di averlo. Come per chiedergli scusa di averlo dimenticato, messo da parte.
- Porca troia, - esclamò Frese sulla porta.
Già dall’ingresso si vedeva la pozza di sangue sul pavimento della cucina.
Amaldi si staccò la mano dal cuore e meccanicamente ritornò a essere quello di sempre, concentrato, attento a ogni particolare. Era come se fosse una faccenda personale tra lui e l’assassino, ogni volta. I suoi movimenti tornarono fluidi, da gatto.
- Lo conosceva. L’ha fatto entrare. Si fidava di lui, - disse a Frese.
Il vice annuì poi puntò un dito verso una parete, in silenzio. Amaldi guardò nella direzione indicata da Frese. Sul muro una scritta.
- La notifica, - disse Amaldi.
Si avvicinarono. La scritta diceva: «La pura e intemerata religione, dinanzi a dio e al padre, è questa : visitare orfani e vedove nella loro afflizione e mantenersi senza macchia dal mondo, san Giacomo».
- Che cazzo vuol dire? - domandò Frese.
Amaldi scuoteva il capo.
- È strano, - disse dopo un po’, come parlando da solo. - Di solito questo genere di persone tendono a semplificare il messaggio a mano a mano che vanno avanti. Lo rendono più comprensibile. Non si divertono se chi gli dà la caccia non riesce a capire quanto siano intelligenti. Ti vogliono coinvolgere nel loro disegno. Tu sei la parte obiettiva, ciò che dà loro stabilità, in un certo senso.... tu sei la realtà e loro devono essere parte integrante della realtà...
- Solo due maiuscole, - esaminò Frese. - La L e la G. Mi paiono anche più spesse, come se ci avesse passato il dito due volte. Ma la L è all’inizio della frase e andrebbe comunque scritta maiuscola, volendo, e la G di Giacomo... Fa impressione vedere il proprio nome scritto col sangue?
- Non è il mio nome. È un nome e basta.
- Sì, certo... Ma perché l’ha sottolineato?
- Ricominciamo daccapo. La L e la G, due lettere soltanto. Non a caso. Altrimenti avrebbe scritto anche «dio» e «padre» maiuscolo... e «san», visto che prima c’è un punto. L e G...
- Le iniziali della prossima vittima. Questo stronzo pensa che abbiamo scoperto il suo giochino e non vuol farsi beccare.
- No.. non ha senso. Ci deve essere qualcos’altro.
- Cosa?
- Non lo so... Ragioniamo... Le foglie. Cerchiamo le foglie secche. Deve averle lasciate da qualche parte. Vediamo se ha in mente... una specie di caccia al tesoro... - e ciò dicendo Amaldi si infilò dei guanti di lattice e prese a ispezionare la cucina.
Frese lo imitò dedicandosi al salotto.
Per dieci minuti i due poliziotti cercarono tra i piatti, sotto i mobili, tra i cuscini, nel letto, in bagno, dovunque, rimettendo ogni cosa al suo posto.
- Giacomo, - chiamò Frese con un brivido nella voce.
Amaldi, che era in camera da letto, avverti immediatamente la nota tesa. Tornò subito in ingresso e trovò Frese che reggeva in una mano una busta e una lettera spiegazzate e due foglie secche nell’altra. Amaldi riconobbe subito la lettera, prima ancora di prenderla.
- Mi spiace, l’ho letta, - disse Frese. - Ecco perché ha sottolineato... il tuo nome.
« Vorrei chiederti di darmi del tempo, Giuditta... »
- Lì dentro... Le foglie erano... lì dentro? - balbettò Amaldi.
Frese fece segno di sì.
Amaldi dovette sedersi su una poltrona. Si slacciò il colletto della camicia. Si sentiva soffocare. Adesso sì che era una faccenda davvero personale. Come tanti anni addietro. Come quella prima volta.
- Chi cazzo è, Giacomo? - domandò Frese.
Ma forse questa volta aveva tempo e modo di intervenire. Scattò in piedi.
- La L vuol dire Luzzatto e la G sta per Giuditta. Devo avvertirla, - disse Amaldi e si attaccò al telefono. Chiamò le informazioni e si fece dare il numero di casa di Giuditta. Lo compose con un nodo alla gola. La signora Luzzatto gli disse che Giuditta era all’ospedale, quel giorno.
- Signora, se torna a casa le dica di rimanere lì e di non aprire a nessuno. Anche se è un conoscente. È importante, - poi riattaccò senza dare ulteriori spiegazioni alla donna.
Chiamò di nuovo le informazioni e si fece dare il numero dell’ospedale. Le linee erano tutte occupate.
- Manda una pattuglia, - disse a Frese, - e poi riprova a telefonare. Digli di trattenere Giuditta. Io vado lì, - e senza aspettare una risposta uscì, verso l’ospedale.