VI.
L’ispettore capo Giacomo Amaldi si infilò in una buia viuzza della città vecchia dopo aver spento il cercapersone. Aveva bisogno di stare da solo. Di pensare.
- Sono stanco, - aveva detto quella mattina a Frese e s’era stupito di sentire quanto fosse vero.
Il fondo della strada era umido e scivoloso, sconnesso, coperto di carte e detriti. Ma non per via dello sciopero dell’immondizia. La città vecchia era sempre stata così sporca. I muri delle case ai quali s’appoggiava per rendere più sicura la sua discesa erano intrisi della stessa umidità della strada, l’intonaco si sfaldava e si attaccava polverizzato al palmo delle mani. Il «talco dei poveri», lo chiamavano al porto. In quel buio in pieno giorno si fermò davanti a una porta laccata di verde, con un battente d’ottone che penzolava penosamente storto, come fermato nell’atto di cadere. Appoggiò la fronte alla porta cercando qualcosa che temeva d’aver perso. Spaventato da quella stanchezza che gettava ombre sulla sua missione. All’interno sentì uno scalpiccio, poi la porta si aprì. Amaldi si tese, come se s’aspettasse di vedere un fantasma.
- Cercavi me, caro?, - disse sorridendo una donna che poteva avere più o meno cinquant’anni. Era una prostituta.
Il cliente che stava uscendo abbassò il capo a terra, con aria colpevole, borbottò un saluto e si dileguò.
- No, io... - cominciò Amaldi.
- Sei timido? Vieni dentro che ci facciamo un caffè... e anche qualcos’altro, - ammiccò la donna.
L’ispettore entrò nella casa, buia più del vicolo.
- Devi avere un po’ di pazienza, caro, - disse la donna stringendosi in una vestaglietta di tessuto sintetico.
- Ho bisogno di un caffè. Ti spiace?
- No, no... - disse Amaldi.
- Ecco, bravo. Accomodati di qua, - e gli indicò una stanza minuscola, senza finestre.
Amaldi sprofondò in una poltrona di velluto verde a costine consunte. Si pulì il palmo della mano sporco d’intonaco sul bracciolo. La stanza in realtà assomigliava più a un loculo, basso e stretto, nel quale non entrava altro che una sedia sgangherata oltre alla poltrona. La penombra odorava di maschi impazienti. Sotto i piedi, sul pavimento ondulato di linoleum appiccicoso, sentì una rivista accartocciata. Non si piegò a prenderla. Respirò a fondo quell’aria viziata che sapeva del lattice dei preservativi e di creme stimolanti. L’odore dell’amore, pensò. Non conosceva la prostituta ma quella casa sì. E l’odore, l’unica volta che ci era entrato, era esattamente quello. In vent’anni non era cambiato.
- Eccomi, - disse la prostituta comparendo.
Amaldi si alzò in piedi.
- Mi spiace, c’è un equivoco, - disse.
- Cioè? - fece la donna sulla difensiva.
- Tanti anni fa conoscevo una persona che viveva qui.
- Una puttana? - disse la donna aprendo ad arte la vestaglia e scoprendo un reggiseno rosso con un foro intorno al capezzolo. Il buco era orlato da un pizzo. Sorrise, si portò il cucchiaino del caffè alla bocca e lo succhiò ammiccando. Poi se lo passò tra le gambe. Anche le mutande erano rosse e avevano una fenditura praticabile.
- Volevo solo vedere la casa, - disse Amaldi.
- Sei impotente? - la prostituta era diventata aggressiva.
- Devo andare. Mi spiace. Non volevo farle perdere tempo.
- Sei un finocchio - gli urlò dietro la donna, seguendolo fin sulla porta.
Amaldi affrettò il passo, senza risponderle, come per distanziare quella sensazione di dolore che improvvisamente gli si era appiccicata addosso. E più il dolore aumentava più si sentiva forte. Stava ritrovando la strada. Una strada che pensava di aver perso da qualche tempo. Si mise a correre. A correre come aveva fatto fino a pochi mesi prima, quando era cominciata a ronzargli in testa quella domanda alla quale non voleva rispondere. Ma adesso sapeva d’avercela fatta. Sapeva di aver risuscitato ancora una volta un cadavere mai seppellito. Ecco cos’era andato a fare nella città vecchia. A cercare quello che già sapeva. Non certo a scopare con una puttana. Il dolore che non riusciva a seminare, un dolore antico vent’anni, lo fece sentire di nuovo al sicuro. Protetto. No, non avrebbe dimenticato. L’aveva promesso. Non avrebbe mai dimenticato. Che i colleghi lo chiamassero pure «Il Crociato», non aveva importanza. Lui era diverso da tutti loro. Non faceva il poliziotto per guadagnarsi da vivere. Aveva una missione.
Raggiunta la linea di demarcazione tra la città vecchia e il resto dell’abitato, si fermò. Dal negozio accanto al quale si era arenato uscirono due persone che lo urtarono. Amaldi non badò loro. Sentì che si scusavano. Non rispose. Riprese a camminare.
- Che avranno intenzione di fare? Questo è un ricatto bello e buono, - diceva uno dei due.
- Non m’interessa quello che faranno purché mettano fine a questa merda di sciopero, - rispose l’altro e assestò un calcio a una busta dell’immondizia.
Amaldi si girò a guardarli. Ormai non li sentiva più. Vide che gesticolavano, presi dalla loro invettiva contro lo sciopero. La busta, volata in mezzo alla strada, fu stritolata dai pneumatici di una macchina. Il guidatore cominciò a gesticolare anche lui, da solo, nel suo abitacolo.
L’ispettore camminava a testa bassa, sfondando l’aria che gli si parava davanti. La sua mente aveva ripreso a lavorare. Quando alzò gli occhi si accorse che stava entrando nei quartieri nuovi. Grandi caseggiati senza storia, senza odore, senza rancore o ricchezza o povertà. Il bianco del travertino, nell’idea originaria, doveva dominare su tutto. Ma ora, a pochi decenni dalla costruzione, il bianco si era rivelato un pessimo investimento estetico ed era stato soppiantato dal grigio, un grigio modesto, timido apparentemente, non un grigio scuro con carattere, semplicemente un non-colore sbiadito, piatto, che non levava il respiro ma che non lasciava abbastanza aria, che filtrava la luce senza mai rifletterla, in una confusione abulica, senza volontà e senza desideri. E tale appariva il mondo all’ispettore capo Giacomo Amaldi. E la gente. Tutto sopravviveva senza morire. Tutto vegetava senza che un cuore pulsasse dentro quella città finta. I giorni di ogni essere umano erano comandati da un moto inerziale. Si rotolava tutti insieme. A volte ordinatamente.
Poche centinaia di metri più in là sorgeva l'ospedale. In una di quelle stanze stava morendo di cancro un agente. Confortarlo, fargli sentire che erano una grande famiglia, mostrargli che i capi si prendevano a cuore la sua penosa situazione: questo volevano da Giacomo Amaldi. Anche se non sapeva che faccia avesse quell’agente. Anche se non ne ricordava nemmeno il nome.
Ora l’ospedale si stagliava tra i palazzi. La sagoma imponente, volgare, anch’essa di travertino screpolato e poroso si proiettava sulla strada con una pensilina. Al di sopra di questa spiccavano grandi lettere, di notte ravvivate dal neon, che componevano il nome dell’istituto. Amaldi cominciò a muoversi stancamente nella direzione opposta. Non aveva fatto il poliziotto per consolare malati terminali. La sua specialità era fiutare maniaci assassini. Era questa la sua missione. Non aveva fatto altro in quei vent’anni, anche mentre si fingeva occupato a catturare scippatori e ladri di macchine. Lo interessavano soprattutto gli assassini di donne. Per quella ragione aveva conservato sulla scrivania il fax che parlava della «Strage delle Risaie», com’era stata ormai soprannominata dai giornalisti. Aveva fiutato un maniaco ed era certo di non sbagliarsi.
La polizia locale ipotizzava che si trattasse di un regolamento di conti ai danni del guardone, che aveva precedenti penali e non frequentava certo un giro raccomandabile. Una specie di punizione esemplare. In alternativa cercavano un ex fidanzato geloso, colto da una generica follia omicida. Ma erano fuori strada. Amaldi lo sapeva. L’aveva saputo da subito. Non si poteva escludere a priori la premeditazione né che fosse qualcuno che conosceva le vittime ma la gelosia o il regolamento di conti non c’entravano niente. Non aveva visto la scena del delitto però i verbali che aveva ottenuto dal collega incaricato delle indagini, con la debole scusa di confrontarli con un caso che si era inventato lì per lì, erano piuttosto dettagliati. A favore della teoria della premeditazione c’era l’arma: non si trattava di un comune fucile da caccia. I pallettoni erano di un diametro più grosso del normale. Un cacciatore sparava per uccidere ed esibire la propria preda. Quei pailettoni avrebbero spappolato qualsiasi animale, fosse un uccello o un coniglio. L’avrebbe ridotto a un grumo informe di sangue. E quindi tecnicamente non era un cacciatore. Amaldi, dando retta al suo istinto, s’era convinto che si trattasse d’una specie di prova generale. All’assassino piaceva uccidere. Il primo sparo era stato per il ragazzo. Era morto sul colpo. Il bossolo era stato trovato nell’acqua. Era evidente che all’assassino non importasse nulla di lui. Questo, per Amaldi, già a priori escludeva il movente della gelosia. Poi si doveva essere concentrato sul vecchio. Il vecchio aveva quattro ferite. Quella mortale al cuore era presumibilmente l’ultima. Amaldi concordava con la ricostruzione della polizia. Il primo sparo l’aveva raggiunto a un fianco, mentre era di spalle. C’era una traccia di sangue che indicava che aveva cercato di mettersi in salvo, strisciando sull’erba, dopo essere stato colpito. Ma non era stato ucciso in quanto testimone di un altro delitto, quello del ragazzo cioè. Altrimenti gli avrebbe sparato al cuore e basta. Invece doveva essersi accostato attratto da qualcosa e doveva aver ricaricato l’arma pensando a quel qualcosa. E quello era il secondo colpo. Il fatto che gli avesse sparato all’inguine, un colpo ravvicinato secondo la perizia balistica, testimoniava una furiosa volontà. La volontà di cancellare una parte del corpo del vecchio. Probabilmente perché sconcia. La teoria del regolamento di conti si basava su questo elemento e in effetti era piuttosto convincente, a una prima analisi. Al vecchio mancava anche buona parte di una mano. Secondo la polizia locale il vecchio aveva perso casualmente l’arto perché istintivamente s’era protetto l’inguine al momento dello sparo. Ma più Amaldi ci pensava e più si convinceva che doveva essere andata diversamente. Era possibile che l’assassino gli avesse ordinato di portarsi la mano al pene e poi avesse fatto fuoco. Poteva essere andata così. Quell’uomo era evidentemente un sadico. Comunque, qualsiasi fosse la dinamica, la teoria del regolamento di conti fin qui reggeva. Amaldi era convinto che fosse stato il vecchio ad attrarre l’attenzione dell’assassino. Aveva diretto tutta la sua furia su di lui. Il perché non riusciva ancora a immaginarlo.
Amaldi aveva provato a parlarne di nuovo con Frese, quella mattina. Ma il vice ispettore era contrario a questo genere di intromissioni. Ognuno doveva badare ai propri affari. Era questa la sua filosofia. In realtà Amaldi sospettava che cercasse di dissuaderlo perché era preoccupato per lui. Non erano amici ma certo Frese era la persona che lo conosceva meglio. Era quella l’unica ragione per cui il vice poteva pronunciare impunemente la parola ossessione. Amaldi non l’avrebbe permesso a nessun altro. Ma la sua era vocazione, non ossessione. Missione, promessa, natura. Non ossessione. Anche se Amaldi, avendo sotto gli occhi la scheda di qualcun altro che fosse stato come lui, in base alla sua laurea in psicologia avrebbe diagnosticato un comportamento ossessivo. E se fosse dipeso da lui ne avrebbe incoraggiato la sospensione temporanea dal lavoro. Ma forse avrebbe sbagliato. Che si poteva capire da una scheda, da una serie di incontri? Secondo i parametri ufficiali era un comportamento ossessivo ma la normalità era un concetto astratto, l’effimero risultato matematico di frequenze statistiche. L’unica cosa che aveva valore era il singolo individuo, senza termini di paragone. Misurato nella sua inalienabile unicità, prodotto di esperienze irripetibili perché le combinazioni possibili erano infinite. Certo, era un ragionamento pericoloso, lo sapeva. Lo si sarebbe potuto estendere ai maniaci cui dava la caccia. Ma la differenza saltava subito agli occhi: lui non aveva mai fatto deliberatamente del male a nessuno. Se si escludeva quel ragazzo che violentava le donne negli androni dei palazzi. Gli aveva sparato. A un ginocchio. Mentre assaliva la settima vittima. E non in testa come avrebbe voluto. Il ragazzo era diventato uno storpio. Amaldi da quel giorno aveva smesso di girare armato. Ma nessuno aveva vissuto quello che aveva vissuto lui. Nessuno di loro sapeva cosa fosse una ragazza come un sacco.
Si scosse da quei ragionamenti melmosi e si incamminò verso il suo ufficio. Si ricordò anche di accendere il cercapersone. Tornò alla «Strage delle Risaie». Era certo che l’assassinio fosse stato scatenato da qualcosa che aveva a che fare con il vecchio. Il modo in cui l’omicida aveva infierito su di lui testimoniava la necessità di cancellarlo. Poteva essere una cosa che riguardava il suo passato oppure no. Poteva perfino essere un esaltato religioso. Poteva essere chiunque e averlo fatto per una qualunque ragione. Ma il motivo per cui Amaldi era certo che non si trattasse di un regolamento di conti dipendeva da quel che era verosimilmente seguito. L’assassino si accorgeva della ragazza ferita al seno. L’autopsia parlava di una mutilazione rilevante. Il sangue della ragazza era concentrato in un’unica zona del pontile, segno che non si era mossa. Non era scappata.
Perché? Poteva essere svenuta. Improbabile vista la quantità di adrenalina che le scorreva nelle vene. Ma certo poteva essere svenuta. Oppure era pietrificata dal trauma. In tutti e due i casi aveva permesso all’assassino di avvicinarsi. Lo conosceva? Un’eventualità. Non era scappata perché lo conosceva. L’istinto diceva ad Amaldi che non poteva essere così ma per principio non scartava nulla. Non era questo il punto. La sua attenzione di poliziotto non era stata attratta dalla strage in sé e per sé. C’erano decine di morti ogni giorno. Ma questo pazzo, Amaldi sapeva di non poterlo definire altrimenti, l’aveva fasciata. E prima aveva pulito e tamponato la ferita. Era stato trovato un pezzo di coperta intriso di sangue e di tessuti della mammella. Le aveva rimesso a posto il seno. Questo aveva fatto, prima di fracassarle il cranio con un oggetto contundente. Perché non le aveva sparato come agli altri? Più rapido, più comodo. Non aveva altre munizioni? Difficile. Non aveva tempo? Impossibile, si era preso tutto il tempo che voleva. Il tempo di quell’uomo, e del mondo intero, s’era fermato finché non le aveva messo a posto il seno. E questo, per Amaldi, significava inequivocabilmente che l’assassino era uno squilibrato. Significava che quell’uomo, più o meno per caso, aveva scoperto la sua natura, fino in fondo. La maggior parte delle persone erano convinte che l’essenza della follia si concentrasse in un atto brutale. Invece spesso era esattamente il contrario. Un raptus omicida era una cosa che succedeva piuttosto di frequente e con una certa facilità. La psiche dell’uomo non era stata costruita per disobbedire in eterno alle inclinazioni animali, per resistere alle pulsioni dell’aggressività. Chiunque poteva commettere un delitto. Perfino una strage. Era lo stesso impulso che portava qualcun altro a buttarsi da una finestra, in fondo. Ma mettere ordine, sistemare il mondo, quello era un segno che avrebbe dovuto far accapponare la pelle a qualsiasi poliziotto. L’assassino aveva messo a posto il seno della ragazza. Il conto alla rovescia era iniziato. Come il germe di una malattia.
L’organismo era stato contagiato e non c’era antidoto che avrebbe potuto debellare il morbo. L’uomo avrebbe messo insieme i pezzi, magari dimenticando i morti, magari sarebbero trascorsi degli anni. Avrebbe ricordato solo l’atto, in fondo gentile, di ricomporre il seno. E da lì chissà dove sarebbe potuto approdare.
- È sicuro che arriverà? - sentì che chiedeva una voce femminile mentre oltrepassava la porta blindata del commissariato, come al solito a testa bassa. - Ho una lezione all’università tra poco... Ah, buongiorno, ispettore.
Amaldi strizzò gli occhi e girò il capo verso una zona in penombra, dove venivano fatti accomodare i cittadini in attesa d’essere ricevuti. La riconobbe subito, anche prima che la luce fredda del neon appeso al centro dell’ingresso la rischiarasse, anche prima che si alzasse dal sedile duro, da quell’angolo buio studiato apposta per comunicare oppressione e disagio in modo da scoraggiare i perdigiorno. E ricordò immediatamente il suo nome che s’era appuntato pochi giorni prima su un biglietto giallo. Giuditta gli tese la mano proprio mentre Amaldi stava visualizzando tutte le impronte che l’assassino aveva lasciato in giro, soprattutto sul corpo della ragazza. Polpastrelli intrisi di sangue. Impronte rosse, scure, appiccicose. Non riuscì a darle la mano. Notò con dispiacere che la ragazza diventava seria e il sorriso le sfioriva in volto. Ma in quel momento non poteva toccarla. Se l’avesse fatto l’avrebbe contaminata. Non avrebbe potuto toccare nessuno al mondo dopo aver pensato quello che aveva pensato.
Giuditta, dal canto suo, era più di un’ora che si trovava lì, resistendo agli educati ma continui tentativi dell’agente al di là del vetro antiproiettile di dissuaderla dalla sua idea di attendere Amaldi, agitandosi sul sedile scomodo e cercando di nascondere le lunghe gambe che sempre lo stesso agente non smetteva di sbirciare. L’attesa aveva fatto crescere la sua rabbia ansiosa, invece che acquietarla. S’era torturata le mani, aveva cercato di leggere un libro e poi una rivista, tanto per ingannare il tempo, ma il posto dove le avevano detto di sedersi era buio. Infine aveva frugato nella borsa alla ricerca di chissà cosa, non lo sapeva neanche lei, e si era ritrovata a palpare il parallelepipedo ruvido del registratore portatile. Aveva sfilato le mani dalla borsa con un gesto esagerato, che per un attimo aveva distratto l’agente al di là del vetro dall’imbarazzante contemplazione delle sue gambe. Gli aveva sorriso mentre si sentiva di nuovo sporca e furente.
Il giorno prima, tornata a casa, seduta al suo tavolo, aveva acceso il registratore con la lezione di antropologia per prendere appunti e studiare. Ma verso la fine, quando lei ricordava di aver interrotto la registrazione, il nastro aveva ripreso a frusciare. Un sussurro, delle parole oscene, la descrizione minuziosa di pratiche ancor più oscene che, prometteva la voce, sarebbero presto divenute realtà. Giuditta era rimasta immobile, senza riuscire a interrompere il flusso sonoro. Impotente. E questo l’aveva fatta sentire peggio, quando finalmente la cassetta si era fermata da sola. Non era nemmeno capace di pigiare un tasto, s’era detta furibonda. La voce le ronzava ancora nelle orecchie e non aveva cessato neanche quando si era messa a dormire, la sera, rincantucciandosi nel divano letto che poteva aprire solo dopo che il padre smetteva di guardare la televisione. Allora, mentre il sonno la vinceva e gli schiamazzi degli ubriachi per le strade della città vecchia salivano d’intensità, urlando tutta la loro solitudine, Giuditta aveva ripensato a quell’ispettore che pochi giorni prima, trovandola a sporgere la denuncia per molestie verbali contro ignoti, l’aveva confortata, pur non dicendole nulla di particolare. La sua espressione l’aveva colpita. Era dura e risoluta. Ma anche imbronciata, a guardarlo bene. Nonostante i primi capelli grigi sulle tempie, appena visibili nel diffuso color paglia della testa fiera, Giuditta in quell’uomo aveva colto una purezza da bambino. Un bambino serio, su cui contare. Giuditta aveva perfino avuto la sensazione che lui volesse prenderle le mani nelle sue. E lei l’avrebbe lasciato fare. Si sarebbe affidata a lui senza esitare, senza timore d’essere sporcata.
- Ho sporto una denuncia per molestie qualche giorno fa... - disse.
E lui nemmeno le allungava la mano, adesso.
- Mi ricordo benissimo di lei. Giuditta Luzzatto, - la interruppe Amaldi, cercando di sorridere nella maniera più amichevole possibile. - Mi scusi, ero soprappensiero. .. Cosa posso fare per lei? - domandò. - Cosa posso fare io?
A Giuditta piacque quell’io, così oltre il suo lavoro e il suo ruolo, così personale. Lo guardò bene e ricordò d’averlo trovato anche attraente. Il mento volitivo e squadrato, le sopracciglia luminose, il naso dritto, quasi tagliente, come taglienti dovevano essere gli zigomi che tendevano la pelle abbronzata delle guance. Gli occhi chiari erano di un indefinibile colore, circondati da scure occhiaie in basso e palpebre appena cadenti in alto, che gli conferivano un’aria da pugile stanco e dolente se si riusciva a superare lo sguardo forzatamente distaccato. Si accorse di arrossire. Sì, l’aveva trovato attraente. E continuò a pensarlo anche quando lui la guidò gentilmente verso l’ascensore ma evitando accuratamente di toccarla. Aveva movenze feline. Pur essendo alto e muscoloso dava l’idea che sarebbe stato capace, esattamente come un gatto, di farsi sottile e d’infilarsi in spazi angusti spinto sia dalla necessità di fuggire che da quella d’inseguire una preda. Ogni suo gesto era morbido ma trasmetteva la sensazione che, dietro quell’apparente indolenza, muscoli e nervi e tendini si sarebbero potuti contrarre fulmineamente, tanto per scavalcare un ostacolo insormontabile quanto per colpire. Guardandolo con più attenzione ancora, Giuditta ebbe la certezza che possedesse la qualità propria dei felini di arrotondare gli spigoli del mondo e di rendere le superfici, anche le più impraticabili, elastiche per un balzo e sicure per un atterraggio. Le sue scarpe di cuoio non scricchiolavano. Piuttosto, appoggiandosi al terreno, emettevano un impercettibile sbuffo d’aria, come per ammorbidire ulteriormente il contatto di per sé già vellutato. Scivolava. Dominava senza mostrarlo.
Era all’erta fingendosi distratto.
Lo studiò, cercando una fede al dito, e per un momento restò ipnotizzata da quelle mani sottili e sensibili, delicate senza essere femminili, piene di una forza che non metteva in allarme. Lo studiò inseguendo un indizio che le dicesse qualcosa della vita privata dell’ispettore Giacomo Amaldi, dimenticandosi che non amava prendere gli ascensori, soprattutto se moderni, piccoli e soffocanti come quello.
- Prego, si accomodi, - fece Amaldi indicandole la poltrona girevole nel suo ufficio. Poi andò al di là della scrivania e sedette anche lui.
La ragazza era ancora rossa in viso. Doveva essere timida. Una bella ragazza. Ad Amaldi piaceva. Ne era stato attratto subito, cosa che gli succedeva di rado. Ma adesso, trovandosela di fronte, nella fredda intimità del suo ufficio, pensò che tutto dipendesse dalla sua stanchezza. In realtà non gli piaceva quella ragazza, si disse, era lusingato dall’idea di mollare tutto, di smettere di correre dietro al suo dolore e alla sua promessa. Quella ragazza era una distrazione che si era inventato per fermarsi.
- Mi ripeta tutto daccapo, - le disse con un tono distaccato.
Giuditta, mentre raccontava, aveva visto qualcosa che non le era piaciuto. L’ispettore non era più l’uomo caldo e protettivo che le era sembrato di intuire durante il loro primo, casuale incontro. E non era nemmeno l’uomo gentile che l’aveva portata nel suo ufficio. Improvvisamente era diventato freddo. Giunta rapidamente alla fine del suo resoconto si alzò.
- Mi spiace disturbarla con queste sciocchezze...
Amaldi scattò in piedi.
- Si sieda, la prego.
Mentre tornava ad accomodarsi sulla poltrona girevole Giuditta lo ritrovò. Rivide oltre il ghiaccio degli occhi l’espressione calda e fanciullesca che l’aveva attratta. Anche Amaldi si sedette. Giuditta puntellò i gomiti sul piano della scrivania e si proiettò in avanti, invadendo lo spazio che la separava dall’ispettore, allungando con un gesto casuale le mani verso il bordo oltre il quale si trovava lui.
Amaldi avvicinò la poltrona al tavolo e, altrettanto casualmente, s’appoggiò al piano. Le loro mani non erano lontane. Loro stessi non lo erano. Le mani rimasero inerti a pochi centimetri le une dalle altre.
- Non potrebbe essere successo da un’altra parte? -domandò l’ispettore.
- No, in sottofondo c’erano le voci di altri studenti che parlavano della lezione...
- Ah, già...
- Infatti...
- Sì, dev’essere andata proprio così...
Giuditta pensava di saper pesare gli esseri umani ed era convinta di capire cosa provavano. E l’istinto le diceva che l’ispettore Amaldi non era il tipo di persona che non ricordava i particolari, come quello delle voci di sottofondo degli studenti, per esempio. Poteva essere semplicemente una tecnica della polizia quella di fingersi distratti, per stimolare l’osservazione e la memoria dei testimoni, certo, tutto poteva essere, ma lei sapeva che entrambi parlavano del maniaco solo per restare ancora insieme. Come se lei non volesse andarsene e lui non volesse farla andare via.
- Quindi è plausibile supporre che qualcuno di quegli studenti abbia potuto vedere chi incideva il messaggio, - disse Amaldi.
- Sì... - rispose Giuditta, improvvisamente rendendosi conto che avrebbero potuto identificare il maniaco ponendo fine a quella tortura. - Forse... Ma c’è sempre una gran confusione...
- Vale la pena di tentare, - insistè Amaldi.
Aveva una bocca carnosa, Giuditta. Naturalmente carnosa, pensò Amaldi. Una bocca che sorrideva spesso. E denti bianchi e grandi, come gli erano sempre piaciuti. Il labbro superiore aveva delle piccole increspature che con l’età si sarebbero fatte più profonde. Amaldi immaginò di carezzargliele. Giuditta, nella sua fantasia, rideva divertita mentre stringeva ancora di più quegli occhi grigi e miopi dalla forma così inusuale, allungati, con la palpebra tirata all’ingiù, al centro, verso il naso, che li faceva sembrare malinconici anche quando non lo erano. Sorpreso da questi pensieri gli sembrò che la ragazza muovesse impercettibilmente la mano verso la sua. Con uno scatto si raddrizzò.
Proprio in quel momento udì bussare alla porta e Frese, senza aspettare che qualcuno gli desse il permesso d’entrare, infilò la testa nell’ufficio dicendo: - Ah, sei arrivato.
Anche Giuditta si irrigidì sulla poltrona girevole.
- Disturbo? - disse Frese, dando una lunga occhiata a Giuditta.
- No, - fece la ragazza.
- No, - disse Amaldi alzandosi in piedi.
- Oh, scusi... - fece Giuditta intendendo che toccava all’ispettore rispondere a quella domanda e non certo a lei. Poi si alzò.
Frese le arrivava alla spalla. Istintivamente il poliziotto fece un passo indietro, allontanandosi.
- Bene, - disse Amaldi a Giuditta. - Farò quelle indagini e poi la informerò...
- Le lascio il mio numero di casa... se vuole...
- Dovremmo averlo nella sua denuncia. Ma forse è più pratico...
- Ha una penna?
Frese le allungò una penna, tenendo gli occhi fissi su Amaldi. L’ispettore evitò di incrociare il suo sguardo.
- Dove glielo scrivo?
Amaldi le porse un blocchetto di fogli gialli.
Giuditta, dopo aver appuntato il suo numero di telefono, non gli tese la mano.
- Arrivederci, - disse a Frese senza dare la mano neanche a lui e se ne andò.
- Aspetta qui, - fece Amaldi al vice mentre scarabocchiava qualcosa su un altro foglietto giallo e subito dopo uscì dall’ufficio. Raggiunse l’ascensore ma non vide Giuditta. Poi sentì uno scalpiccio per le scale. S’affacciò alla balaustra e vide le lunghe gambe.
- Signorina Luzzatto, - chiamò.
La testa di lei comparve nella tromba delle scale. I capelli lisci pendevano a piombo nel vuoto. Amaldi la raggiunse.
- Se ha bisogno di qualcosa può chiamarmi... nel caso... Questo è il mio diretto, questo è il cercapersone... e questo è quello privato, di casa, voglio dire... il cercapersone me lo dimentico quasi sempre spento perciò...
- Grazie, - disse la ragazza e ad Amaldi parve che accarezzasse il biglietto.
- Arrivederci.
- Arrivederci.
Amaldi allungò la mano verso di lei.
Giuditta la strinse nella sua, con uno sguardo grato. Non sapeva perché ma era certa che lui avesse fatto un enorme sforzo.
Aveva una pelle morbida e calda, pensò Amaldi. Poi si voltò e scomparve per le scale.
Anche Giuditta se ne andò, sorridendo.
- Da quando in qua un ispettore della squadra omicidi si occupa di certe stronzate? - domandò Frese appena Amaldi rientrò nell’ufficio. - Comunque, sai cosa ci farei con una che ha delle tette così? - proseguì.
- Dovevi dirmi qualcosa di urgente? - lo bloccò il superiore.
Frese scosse la testa, allargò le braccia e si lasciò cadere nella poltrona girevole. Emise un mugolio di piacere.
- Che meraviglia. Sento ancora il calduccio di quel bel culo qua sopra, - scherzò.
Amaldi lo guardò con un’espressione gelida.
- Allora? - chiese.
- Ho trovato uno dei documenti mancanti dal fascicolo dell’orfanotrofio. E sai dove? Nella scheda personale di Augusto Ajaccio.
- Di chi? - chiese distrattamente Amaldi, che non riusciva a capacitarsi di quello che aveva appena fatto. Dare il suo numero di casa a una sconosciuta. Probabilmente un’isterica che lo avrebbe torturato di telefonate per raccontargli le prodezze di un segaiolo.
- Ajaccio. Quel disgraziato che sta morendo di cancro... A proposito, sei andato a trovarlo?
- Sì, - menti Amaldi.