XXI.
- Ma tu lo ricordi l’odore della benzina? - domandò Frese.
Augusto Ajaccio era steso sul suo letto, dimagrito, la carnagione di un pallido colore giallognolo, due profonde occhiaie scure, i capelli spettinati. Il torace ampio ormai scheletrito. Guardò Frese con occhi assenti.
- Benzina?
- Sì, ho trovato una perizia che dice che l’incendio fu doloso.
L’archivista Peschiera e suo nipote Muffa avevano trovato il terzo e il quarto documento mancanti. Il numero tredici e il numero tredici bis. Il tredici era un primo resoconto dei pompieri, in cui già si formulava l’ipotesi dell’incendio doloso. Il tredici bis era la conferma ufficiale, stesa da un perito che aveva indicato con precisione l’origine dell’incendio, il combustibile usato e il percorso che avevano seguito le fiamme prima di avvolgere tutto il cadente orfanotrofio comunale. Poiché l’incendio era stato appiccato volontariamente a un edificio stabilmente abitato si trattava di omicidio di primo grado.
Frese si sporse in avanti, facendo cigolare la sedia. Allungò una mano e scosse leggermente Ajaccio. Il malato sembrò rinvenire per un attimo.
- L’incendio... - fece.
- Sì, l’incendio, - confermò Frese.
- L’incendio... - iniziò faticosamente Ajaccio.
Cominciò a raccontare di stanze fumose, piene dell’odore della benzina dalla quale era certo nato l’incendio, mentre rivedeva scene grottesche di bambini poveri che salvavano le loro poverissime cose; mentre ricordava una suora grassa che s’aggirava per l’istituto cercando il registro con i nomi dei ragazzi, come se fosse l’unico scopo del suo ministero, come se quei ragazzi non avessero altro che la loro identità. E pensò che per molti anni aveva cancellato dalla sua memoria la colonna sonora straziante delle urla degli orfani che ora invece gli tornava alle orecchie.
- Sa una cosa? Solo ora me ne rendo conto... che strano. Il pianto dei più piccoli non era diverso dal solito. Le note erano le stesse di quando cadevano e si sbucciavano un ginocchio o di quando avevano fame. Capisce cosa voglio dire? Come se anche il pianto fosse una lingua della quale bisogna imparare la grammatica...
- Dimmi ancora dell’odore di benzina, - lo interruppe elettrizzato Frese.
- La benzina? - balbettò Ajaccio inseguendo la scia di ragionamenti astratti del mondo alterato nel quale si trovava e che si intersecava di continuo con la vita pratica, le domande pertinenti, le puntualizzazioni rigorose. - La benzina...?
- Mi hai detto che ricordi l’odore della benzina. Perché c’era benzina nell’orfanotrofio? Che ve ne facevate della benzina? - lo incalzò Frese.
- La benzina? Ah, sì, la benzina... - La voce di Ajaccio era divenuta così flebile che Frese dovette accostarsi. - La benzina... l’odore di benzina... - ripeteva monotono, gli occhi persi lontano che rivedevano i giorni all’ospedale quando le bende si appiccicavano alle ustioni e dormire era quasi impossibile e si parlava solo dell’inspiegabile odore di benzina. Tutti pensavano che qualcuno avesse dato fuoco di proposito all’orfanotrofio anche se nessuno riusciva a comprenderne la ragione. Il passato gli scorreva davanti alle pupille sbarrate con una ricchezza di colori e odori e particolari che non aveva affatto la connotazione del ricordo. Piuttosto il risveglio da un coma. - La benzina... - diceva e diceva ancora, - la benzina la ricordano tutti... le strisce rosse di benzina che prendono fuoco... le esplosioni. .. la benzina... - ma non diceva altro perché le immagini fluivano troppo veloci e le parole non riuscivano ad afferrarle e a tradurle. Ma certo ricordava bene l’arrivo al nuovo orfanotrofio, con quel grande giardino che sarebbe stato loro, con le piante dalle foglie larghe e fresche di rugiada che gli orfani si strusciavano sulle ferite che stavano guarendo e che prudevano. Rivedeva la ghiaia bianca che avevano coperto come un’ondata pigra di fango, marroni nelle loro divise di iuta ruvida; rammentava i dipinti ai soffitti che ritraevano eroi e donne bellissime; vedeva il bambino che li spiava dal primo piano e poi da dietro una finestra. E i colori correvano e mutavano e componevano nuove scene e Ajaccio ricordava che aveva puntato un dito oltre quel bambino e aveva urlato: - È lui! È lui! È lui! - finché una suora gli aveva dato uno schiaffo. Ma neanche questo riuscì a dire a Frese che lo scuoteva per un braccio e lo richiamava indietro, nella stanza d’ospedale dove sarebbe morto. Quando se ne accorse gli resistette, non voleva tornare.
- Dimmi della benzina, Ajaccio. La benzina. Lo sapevi che la signora Cascarino era sul lastrico? Ne parlavate? Che si diceva? Lo sapevate che il marito era morto tra le braccia di una puttana e aveva dilapidato tutta la fortuna della famiglia? Ajaccio. Ajaccio, mi senti? - gridò Frese scuotendolo.
La porta della stanza si socchiuse e un’infermiera fece capolino.
- È tutto a posto, - la rassicurò Frese e aspettò che richiudesse la porta. Allora tornò a scuotere Ajaccio, ma tenendo la voce più bassa di prima.
- Ajaccio... Ajaccio... - lo chiamava.
Quello si voltò con un sorriso drogato. Non si poteva accennare all’incendio nel nuovo orfanotrofio, gli spiegò. Era proibito. E la punizione era severa, più che per altre trasgressioni. La parola benzina era bandita dal loro vocabolario. Poi l’immagine della «signora», come tutti la chiamavano, gli si materializzò davanti. Limpida. Viva. Ajaccio guardava con gli occhi spalancati la donna che li aveva accolti e solo adesso capiva che era cattiva, crudele. - Era capace di uccidere... -disse. In lontananza sentì Frese che chiedeva: - Chi? Chi? - Lo mise a fuoco, per un momento. Ne sentiva l’alito che gli si spandeva addosso. Gli sorrise. - Se avesse visto con che durezza trattava il figlio... il figlio, sì, l’avrebbe ucciso. Ne parlava sempre come di un ragazzo prodigio, destinato a diventare qualcuno... e tutti noi non stentavamo a crederlo, era speciale, davvero... ma forse l’avrebbe ucciso, sì, penso di sì... se non avesse fatto quello che s’aspettava da lui...
Frese lo adagiò sul cuscino e gli accarezzò la fronte. Era freddo. Molto freddo. Stava per alzarsi quando Ajaccio gli prese una mano e lo trattenne.
- Io l’ho visto, sa? - disse.
- Chi? - domandò Frese senza speranza.
Ajaccio, abbandonato sul cuscino, aveva un’espressione affaticata ma gli occhi si erano liberati del velo che li appannava.
- Ero nello scantinato, - cominciò a dire con una voce calma e presente. - Dovevo prendere la legna. Ero il più grande. Il più forte. L’ho visto solo per un attimo. Basso, magrissimo, con una faccia da topo. Lui non mi ha visto. Deve avermi solo sentito ed è scappato. E subito dopo sono divampate le fiamme. Brillavano dappertutto. Solo allora ho capito da dove veniva quell’odore di benzina. Tutto lo scantinato era cosparso di benzina. Sono scappato di sopra ma anche lì c’era odore di benzina e fuoco. È successo in un attimo. Le sedie, i tavoli, le tende, i letti... ha preso fuoco tutto quanto in un attimo. Ma io l’avevo visto...
- Chi era? - disse Frese trattenendo il fiato.
- ... e l’ho riconosciuto.
- Chi era, Ajaccio? - insisteva Frese, temendo che l’attimo di lucidità s’esaurisse.
- Quando siamo arrivati al nuovo orfanotrofio ho visto il bambino alla finestra del primo piano. E poi l’ho visto dietro una finestra del cortile. E oltre il bambino ho visto lui, quello dello scantinato, chino su una siepe. Vestito da giardiniere, con delle cesoie in mano... basso, magrissimo, con quella faccia da topo che ghignava... Ho urlato. Avevo paura che facesse male al bambino... L’ho indicato. «È lui! È lui!» gridavo... Mi hanno dato uno schiaffo, hanno aperto la finestra... ma lui non c’era più. Era scappato. C’era solo il bambino. Un bambino bello, dall’aria smarrita... pietrificato dalla paura. La madre è uscita, l’ha preso e scaraventato per terra, nella ghiaia. Poi l’ha costretto ad alzarsi mentre gli diceva che l’avrebbe chiuso al buio e l’avrebbe lasciato senza cena...
- Torna al giardiniere.
- ... ma non era lui, non era il bambino... L’ombra della morte... - gli occhi di Ajaccio vagavano di nuovo lontani. - L’uomo del fuoco... l’ombra della morte... era alle sue spalle... un bambino così bello e così impaurito... L’ombra della morte e del fuoco alle sue spalle...
Frese gli diede un colpo sulla guancia con la mano aperta.
Ajaccio lo guardò. Gli sorrise con tristezza.
- Non l’ho mai più incontrato, - disse. - Quel giorno stesso notai una macchina che portava via della gente dal casotto del guardiano. Ma lui non lo vidi. Forse era in macchina. Forse era già lontano. E poi vidi la «signora», un paio di giorni dopo, che parlava con della gente e uno di questi era un giovane, con una moglie ancora più giovane. Lo assunse come giardiniere e andarono a vivere nel casotto. La «signora» disse che non c’era mai stato un altro giardiniere... Lo disse a me...
- Le hai parlato?
- No, parlò lei a me. La superiora le aveva riferito che volevo raccontare la cosa, che avevo pensato che la polizia dovesse sapere... Mi convocò nel suo studio e mi disse... mi disse... Sono sempre stato stupido... ero stupido... Mi disse che non potevo aver visto nessuno... che la polizia mi avrebbe preso per scemo e avrei fatto fare una brutta figura a lei e alle suore... che avrebbero chiuso l’orfanotrofio e che tutti i miei compagni sarebbero stati buttati in un posto umido e schifoso... Mi disse che l’avevo sognato... e io mi convinsi d’averlo sognato... - Ajaccio scosse la testa. - Ma non l’ho sognato... e non ho sognato il falso Civita... non mi sono scritto sul torace da solo... e non ho... Non sono pazzo -. Fissò Frese intensamente. - Non sono... - si fermò, affaticato, gli occhi colmi di un dolore che non sapeva chi addolorare. Si guardò intorno, sicuro che la voce, se avesse ripreso a parlare, gli sarebbe uscita roca e senza speranza. Serrò le labbra. Non voleva sentire la voce di un moribondo rimbombargli dentro. Si guardò intorno cercando di ricordare quegli inutili concetti che aveva appena enunciato e che già cominciavano a frantumarsi contro le pareti della stanza come fossero di cristallo.
- Adesso calmati, - gli disse Frese. - Calmati. Mi sei stato molto utile.
- Davvero?
Frese annuì e gli sembrò che il viso di Ajaccio si rasserenasse.
- Hai fatto un ottimo lavoro, - aggiunse.
- Davvero? - disse ancora il malato.
- Sì, davvero.
Ajaccio sorrise. Sembrava un bambino.
- Lo sai che l’ispettore capo deve assegnarti un’altra indagine?
- L’ispettore capo Amaldi?
- Amaldi, sì.
- Me l’aveva detto. Me lo ricordo...
- Bene.
- Amaldi? Per un caso?
- Sì, - depositò una busta sul letto del malato. - È una frase latina scritta da un assassino. È stata tradotta e sappiamo che era usata dagli alchimisti. Ma questo non è importante. Ci sono alcune lettere minuscole e altre maiuscole. Pensiamo che le maiuscole vogliano dire qualcosa, che l’assassino volesse dirci qualcosa. Ma in realtà non riusciamo a capirci un cazzo. Ci devi aiutare.
Ajaccio prese la busta in mano, senza aprirla, come fosse un tesoro.
- Io? - disse.
- Tu, agente Ajaccio.
Facendo uno sforzo fisico immane Ajaccio si sollevò e si buttò al collo di Frese. Si strinsero l’uno all’altro con vigore. Due carcasse forti che cozzando risuonarono vuote e impaurite.
Quando l’infermiera entrò, un quarto d’ora più tardi, per avvertire che l’orario di visita era terminato, li trovò ancora abbracciati. Ajaccio, mentre Frese lo aiutava a distendersi, si era scordato la ragione per cui si era avvinghiato al petto dell’altro. I suoi occhi avevano un’aria assente e sognante. Come fosse in un altro mondo. In una mano stringeva ancora la busta con il rebus dell’assassino dell’antiquaria.
Uscito in corridoio Frese si intrattenne con l’infermiera per cercare di comprendere cosa stesse succedendo ad Ajaccio. Le chiese se trovasse plausibile che il cancro potesse renderlo più intelligente e quella rispose in modo vago, lusingata d’essere interpellata e nello stesso tempo impreparata a domande tanto specifiche. Frese se ne accorse e lasciò cadere l’argomento.
- Ha mai visto altra gente entrare in camera di Ajaccio? Voglio dire oltre a me e a quell’altro ispettore, un tipo alto...
- Quello carino? - fece l’infermiera.
Frese ciondolò il capo in segno di assenso. Se Amaldi era «quello carino» lui doveva essere «quello non carino».
- Sì, è venuto due o tre volte... Ma è una persona molto discreta, vero? Si muoveva come se non volesse essere visto... Sa, guardandosi in giro...
- Due o tre volte? Ne è sicura?
- Sì, certo... Io l’ho visto almeno un paio di volte. È un uomo che si nota, insomma... Alto, vestito bene, una bella barba...
- Che barba?
- Questo suo collega... non ha la barba?
Frese le serrò le spalle.
- Saprebbe descrivermelo bene?
- Ma sì, certo... È alto... sarà almeno un metro e ottanta, magro, spalle larghe. Ha la barba, gliel’ho detto... Ma scusi, perché...?
- Non si preoccupi, continui. Barba e poi?
- Barba corta, curata, sa, di quelle barbe rasate sul collo... capelli castani, media lunghezza, occhi affilati, stretti. E chiari... direi marroncino chiaro, nocciola, sì, nocciola. Dorati insomma... Un naso da nobile, molto affascinante, aquilino... e una bocca carnosa. Labbra rosa, quasi da donna. Un bell’uomo, davvero, mi creda...
- Sì, sì... le credo.
- Peccato per quell’imperfezione. Ma io ho sempre pensato che certe imperfezioni...
- Che imperfezione? - domandò subito Frese, attento a quelli che si definivano segni particolari, fondamentali nell’individuazione di una persona.
- Sì, adesso ci arrivo, - reagì indispettita l’infermiera, che voleva esporre il suo concetto fino in fondo. - Certe imperfezioni, le dicevo, in un uomo tanto attraente finiscono per renderlo ancora più umano, più... come dire...
- Accessibile? - suggerì Frese inarcando un sopracciglio.
- Bravo, accessibile, - confermò l’infermiera senza cogliere il sarcasmo.
- Bene. Ora vogliamo definire in modo più comprensibile questa imperfezione?
- Il dito, - sbuffò l’infermiera, infastidita. - A quel poveretto manca un dito. Il mignolo, se proprio lo vuol sapere, anche se non vedo cosa c’entri tutto questo...
- Di quale mano? - la incalzò Frese.
- Ma chi è questo signore?
- Mi dica di quale mano sennò la strangolo !
L’infermiera arretrò d’un passo, indecisa se offendersi e andarsene oppure collaborare. Sapeva che era un poliziotto. Lo detestava ed era brutto, ma era un poliziotto.
- La sinistra, - disse infine.
- E...?
- E cosa? - fece stizzita.
- Gli manca completamente... gliene rimane un pezzetto arricciato come la coda di un porco... se lo infila nel naso per scaccolarsi... Che ne so? È lei che l’ha visto.
- L’ho notato una volta mentre accarezzava la porta del signor... dell’agente Ajaccio, prima di entrare. Io ero in quello sgabuzzino -. Si voltò a indicare una porta qualche metro più in là. - Ho sentito dei passi e temevo che fosse la caposala... - si interruppe e divenne rossa.
- Senta, - disse sbrigativamente Frese. - Non mi frega niente se era là con qualche infermiere carino o a fumare una sigaretta. Vada avanti.
- Mi sono affacciata e l’ho visto.
- E accarezzava la porta?
- Lo so che è strano. Ma stava proprio accarezzando la porta. Come fosse una persona, sa? E poi ci ha passato il mignolo... cioè, il...
- ... moncherino?
- Sì, il moncherino.
- Quindi qualcosa è rimasto, del dito.
- Sì... la prima falange soltanto... credo.
- Crede?
- La prima falange, ne sono sicura.
Frese sospirò. Aveva ottenuto quel che voleva. Ma era strano che Ajaccio non avesse mai nominato quell’uomo che andava a trovarlo. E Frese voleva scoprire fin dove arrivasse la malattia di Ajaccio.
- E non ha visto nessun altro?
- Una signora... vecchia. Dall’aria... diciamo... povera.
Doveva essere la padrona di casa di cui gli aveva parlato Amaldi.
- La ringrazio... E mi scusi per il tono.
- Che tono? Non l’ho notato, - disse l’infermiera e se ne andò a testa alta.
Frese rimase nel corridoio per qualche secondo poi accostò l’orecchio alla porta di Ajaccio. Lo sentì parlare. Aprì e infilò la testa. Ajaccio si voltò verso di lui.
- Sei tu? - domandò biascicando le parole.
Frese capì subito che non era in sé. Non gli aveva mai dato del tu e aveva gli occhi chiusi.
- Sì, - rispose comunque entrando.
- Tu non sei il professor Civita.
- No... - disse Frese assecondando il malato.
- Sei qui per la notifica, vero?
- Sì...
Ajaccio si rincantucciò sotto le coperte, impaurito. Frese gli si avvicinò e sentì che stava parlando ancora. Un bisbiglio. Alzò le coperte e ascoltò. Ajaccio pregava, sommessamente, raccomandando la sua anima a Dio. In una mano stringeva il foglio con la frase dell’assassino, nell’altra una matita. Frese glieli levò dolcemente ed esaminò la carta. Sotto la frase stampata a macchina Ajaccio aveva scritto il suo stesso nome e cognome usando l’identico sistema dell’assassino. Alcune lettere minuscole, altre maiuscole. Apparentemente a caso. Le lettere maiuscole del suo nome erano: u, s, t, j, c, 1. Frese pensò che potessero avere a che fare con i ricordi dell’orfanotrofio. Ustioni. Forse intendeva ustioni.
In quel momento l’infermiera entrò nella stanza con un vassoio sul quale c’erano un termometro, un bicchiere d’acqua, delle pillole colorate e una siringa appoggiata su un batuffolo di cotone imbevuto d’alcol.
- Ancora lei? Che ci fa qui? - domandò a Frese.
- No, ti prego, non voglio... - si lamentò ad alta voce Ajaccio.
L’infermiera appoggiò il vassoio sul comodino e diede un’occhiata truce a Frese.
- Non lo tormenti. Non lo vede come soffre?
- È stata lei a scoprire Ajaccio con quella scritta sul petto? - le disse Frese invece di difendersi dall’accusa.
- Sì, perché?
- Guardi qua, - e gli mostrò la firma di Ajaccio in fondo al foglio. - Era scritta così?
- Sì... nome e cognome...
- No, guardi bene. Vede che certe lettere sono minuscole e altre maiuscole?
- Sì, ora che mi ci fa pensare... Ma non saprei dirle se erano proprio quelle le maiuscole oppure no... quello non me lo ricordo.
- Ma più o meno era così, vero?
L’infermiera annuì.
- Lei è un angelo, - disse Frese. - Si prenda cura del mio amico.
Poi uscì di corsa dalla stanza e si precipitò giù per le scale. Aveva un presentimento e doveva comunicarlo ad Amaldi.