XIII.
Giuditta guardò la madre andare verso la cucina con il piatto fumante di zuppa, strascicando i piedi. Sentì che lo riponeva nel forno.
- Tuo padre ha detto che non viene a mangiare, - disse la donna con una voce rassegnata e lagnosa. - Tanto per cambiare.
- Mamma, per lui è una specie di vacanza questo periodo, - cercò di sdrammatizzare Giuditta accarezzando la poltrona foderata nel salottino povero e squallido sulla quale sedeva sempre il genitore. Da quando era iniziato lo sciopero dell’immondizia il padre, che era un addetto alla nettezza urbana, non tornava quasi mai a cena. Restava al bar o nelle osterie con gli amici. «Ti dispiace, tesoro?» aveva chiesto alla figlia e non alla moglie. Giuditta gli aveva dato la sua benedizione.
- Se almeno non avvertisse sempre all’ultimo momento, - continuava a borbottare la madre dalla cucina unta, impregnata dell’odore del pesce a poco prezzo che si trovava al porto, con il pavimento a mattonelle ottagonali marroni e sbeccate, ricoperto da una consunta stuoia di linoleum in prossimità del lavello, i fili elettrici rattoppati e anneriti, che correvano disordinati sul muro. Una cucina buia, illuminata debolmente dalla luce che filtrava attraverso una parete di vetri opachi retti insieme da un’impalcatura di metallo. E di là, sospeso nel vuoto sopra il cortile, il bagno, con la tazza di ceramica senza tavoletta, un tubo di metallo cromato con una cipolla screpolata che fungeva da doccia e, sotto il lavandino, il bidet di plastica che nessuno usava. Un bagno freddo e pieno di spifferi che non garantiva alcuna intimità, che non poteva custodire segreti.
- Francamente vorrei che non mi trattasse come la sua serva, - riprese la madre con la sua voce vinta quando Giuditta attraversò la cucina per farsi una doccia. -Ti telefona alle sette, quando è tutto pronto... Devi stare attenta a non buttarti via perché gli uomini...
Giuditta non sentì il resto del discorso. L’acqua le scrosciava addosso rumorosamente, allagando il pavimento butterato. Ma tanto era un discorso che conosceva. Suo padre aveva molti difetti come marito, Giuditta lo vedeva benissimo, l’aveva sempre visto. Per questo comprendeva il sordo rancore della madre, il perché la mettesse continuamente in guardia, perché non avesse fiducia nel futuro, perché fosse disgustata dalla vita. Però era stato un padre affettuoso, attento. L’aveva sempre fatta sentire sicura, forte. Era orgoglioso di lei. Si interessava di tutto ciò che riguardava sua figlia. Quando la trovava china sui libri sorrideva fiero e diceva: «Sono un uomo fortunato. Con una figlia così non devo temere nulla», poi le accarezzava i capelli e aggiungeva: « Vivi, Giuditta. E ogni volta che avrai bisogno di qualcosa vieni da me». Suo padre era sempre stato il suo porto. Non si era mai tirato indietro. Ai tempi del liceo, se un professore si lamentava del rendimento di Giuditta, suo padre si arricciava le maniche fino ai gomiti e nonostante fosse un uomo rozzo e privo di cultura ribatteva colpo su colpo le accuse. La notte più d’una volta lei lo aveva spiato dal divano letto quando prendeva di nascosto i libri e se li rigirava incredulo tra le mani ruvide. Giuditta sapeva quanto ci tenesse che sua figlia diventasse una dottoressa. Ma mai una volta le aveva rinfacciato i sacrifici e i risparmi così faticosamente accumulati in un conto a parte, destinato solo a lei. Giuditta chiuse il rubinetto e si infilò l’accappatoio.
- ... e stai attenta alle loro mani. Pensano sempre che tutte le donne siano facili. Anche tuo padre, sai, ha creduto che fossi una ragazza facile, all’inizio. Ha provato a mettermi le mani addosso. Ma ho resistito. Non che ci abbia guadagnato molto a sposarmelo. Guarda che vita. Tutto il giorno a fare orli e stringere vestiti per portare a casa due soldi... Ma almeno mi sono sposata. Se tu sapessi quante ragazze disgraziate ho visto... ragazze per bene che si sono perse per strada solo perché non hanno saputo tenere a freno le mani di un uomo...
Il rumore dell’asciugacapelli tornò a coprire la voce pedante della madre. Quando ebbe finito Giuditta andò in camera dei genitori e prese dall’armadio un vestito semplice, si truccò appena gli occhi e si mise un filo di rossetto chiaro sulle labbra. Quando tornò in salotto la madre ciondolava il capo davanti al televisore. Le immagini le si riflettevano sugli occhiali spessi, da miope. Il padre aveva mandato la figlia da un oculista che le prescrivesse delle lenti a contatto, perché non dovesse portare gli occhiali giorno e notte per vederci. La madre aveva commentato che non capiva come si potesse desiderare di mettersi del vetro negli occhi, ma Giuditta aveva visto che si massaggiava la radice del naso segnata mentre pensava che per lei suo marito quelle attenzioni non le aveva avute mai. Era difficile essere la figlia di tutti e due.
- Mi hai preso quelle cose che ti avevo chiesto? -disse la madre senza distogliere lo sguardo dalla televisione.
- Sto andandoci adesso, mamma.
- La cena è pronta.
- È presto, mamma. Vado in merceria e torno. Ma se hai fame comincia...
- Sempre sola, pranzo e cena. Sei diventata come tuo padre...
Giuditta andò verso la porta di casa con un moto di stizza, poi si sentì in colpa, tornò indietro nel salottino dal quale si vedeva uno spicchio di mare e baciò la madre sulla testa.
La madre non ebbe alcuna reazione.
Per strada due bambini si rincorrevano tra buste e sporcizia. Lì nella città vecchia lo sciopero dell’immondizia non aveva creato nulla di nuovo, nulla cui gli abitanti non fossero già abituati. Giuditta si frugò in tasca per controllare la lista della madre mentre scendeva verso il porto. Aghi, rocchetti di filo, fettucce, tessuto sintetico per fodere, spalline imbottite. Era contenta che suo padre le avesse dato la possibilità di laurearsi, non avrebbe tradito né lui né se stessa. Non si sarebbe ridotta a fare la sarta per un negozio, con i polpastrelli perennemente gonfi e arrossati dalle punture degli aghi, a consumarsi gli occhi su orli e sottogonne.
Accanto alla merceria dove sua madre aveva un conto aperto che saldava ogni primo del mese c’era un bar che puzzava di vino scadente. Dall’interno del locale provenivano le voci alterate dei vecchi scaricatori che non riuscivano ad allontanarsi dal porto neanche quando le loro schiene si erano spezzate definitivamente sotto il peso di anni di fatiche. Giuditta vide una figura familiare uscire dal bar. Una figura familiare e stonata in quel contesto.
- Ispettore, - chiamò allegra.
Giacomo Amaldi si voltò pigramente. Quando la vide sorrise.
- Giuditta...
- Che ci fa da queste parti?
- Sono venuto a salutare degli amici, - disse. Poi, vedendo lo sguardo perplesso della ragazza, aggiunse: -Sono nato e cresciuto a due passi da qui, - e puntò l’indice verso le case della città vecchia, il ghetto povero, la conigliera pullulante, e verso le osterie buie, i fili di panni stesi, l’odore di pesce e muffa, i palazzi alti e squallidi serrati fra loro e le facciate maculate, nelle quali si potevano leggere le vie preferite dai rivoli d’acqua, il giallo ocra che scolorava, rivelando la pietra.
- Ne sente la mancanza? - domandò Giuditta.
- Lei la sentirà quando sarà riuscita ad andarsene?
- No... credo di no.
- Lo penso anch’io. Ma non bisogna perdere tempo, - si voltò verso un uomo anziano che reggeva nelle mani enormi un bicchiere di vino. Aveva gli occhi lucidi e inespressivi, un sorriso ebete tra le rughe profonde delle guance. - Altrimenti si finisce così, -sorrise malinconicamente a Giuditta. - O si scappa subito o non si scappa più. Conoscevo un vecchio scaricatore che vinse un sacco di soldi alla lotteria. Ripeteva sempre che si sarebbe comprato una casa confortevole in periferia e avrebbe fatto la bella vita. Passava le sue giornate in questo bar a offrire da bere a tutti. Per anni.
- E poi?
- E morto di cirrosi epatica. Con tutti quei soldi in tasca non sapeva nemmeno comprarsi del buon vino.
- È una storia triste.
- È la storia della città vecchia, Giuditta. Per questo deve andarsene in fretta.
- Ci sto provando.
- Bene... E lei? Che ci fa qui?
- Una commissione per mia madre.
- Non la trattengo allora... - disse Amaldi imbarazzato, infilandosi le mani in tasca.
Altrettanto a disagio Giuditta, a testa bassa, disegnò un otto con la punta della scarpa sul selciato, senza però accomiatarsi. Amaldi non parlava.
- Allora arrivederci, - disse infine Giuditta. Gli rivolse un sorriso debole e si avviò verso la merceria.
- Arrivederci, - mormorò Amaldi.
Rimase lì dov’era, guardandola entrare nel negozio, senza voltarsi. Fece qualche passo verso la vetrina. Giuditta conversava con la proprietaria. I capelli lisci brillavano sotto la luce al neon, le mani gesticolavano con grazia. Amaldi provò l’impulso di entrare e ascoltare ancora la sua voce. Si irrigidì. Stava per andarsene quando Giuditta lo vide attraverso la vetrina. Gli sorrise sorpresa. Felicemente sorpresa. Si affacciò sulla porta.
- Le serve un nastrino per i capelli? - gli disse ridendo.
- Che colore mi consiglia? - rispose lui pensando che era bella quando rideva.
- Azzurro, naturalmente. È un maschietto, no?
La proprietaria, dall’interno del negozio, la chiamò reggendo una stoffa in mano. Giuditta rimase immobile.
- Mi farebbe compagnia a cena? - chiese con un tuffo al cuore Amaldi.
- Quando?
- Adesso.
Giuditta sorrise.
- Sì, - e rientrò nella merceria.
Amaldi la vide telefonare, consegnare un biglietto alla proprietaria del negozio e uscire.
- E la sua commissione? - le domandò.
- Domattina. Non c’è fretta. Mia madre a quest’ora si droga.
- Come?
- Televisione, - disse lei.
Amaldi rise. Si incamminarono procedendo lentamente, come se non avessero una meta, affiancati ma senza toccarsi. Si scambiarono frasi vuote, di cortesia, entrambi imbarazzati. Poi tacquero e continuarono a camminare. Superarono una prima trattoria, una seconda, schivarono un ubriaco e si sorrisero ancora.
- Avevamo un tavolino con le zampe di metallo, - disse Amaldi, improvvisamente, a un volume esagerato. - Quando ero malato e veniva il dottore mia madre tirava fuori dalla credenza un vassoio vinto con i punti di un concorso, ci metteva sopra due cornetti e una tazza di tè. Non so perché ma in qualunque periodo dell’anno i tovaglioli di carta avevano il disegno di una foglia di pungitopo... con delle bacche rosse e la scritta «Buon Natale»...
Giuditta rise divertita.
Amaldi, dentro di sé, per la prima volta in vita sua, con un senso di disperato sollievo, ammise di odiare con tutto il cuore la città vecchia. Poi rise insieme a Giuditta. Le prese una mano e le chiese: - Dove vorrebbe mangiare?
- In un posto dove possiamo darci del tu, - rispose Giuditta d’impeto.
Amaldi si guardò in giro. Da dietro un vicolo arrivavano voci concitate e rumore di piatti.
- Allora ci vuole una bettola, - disse e trascinò Giuditta in direzione dei rumori.
Si sedettero a un tavolo d’angolo con la tovaglia di carta. Un vecchio cameriere allampanato, con due profonde occhiaie e uno sguardo liquido si mise ad apparecchiare, una posata alla volta. Ogni tanto si sentiva gridare: «Amedeo!» dalla cucina e il cameriere allargava sconsolato le braccia e mormorava: «Arrivo» a un volume così basso che lui stesso poteva udirsi a malapena. Quando ebbe finito si eclissò con la medesima indolenza con cui aveva apparecchiato e dopo svariati minuti comparve con un blocchetto per le ordinazioni. Amaldi e Giuditta sbrigarono la faccenda con efficienza e mentre il cameriere si allontanava di nuovo scoppiarono a ridere.
- Ho sentito il tuo messaggio..., - disse Amaldi. - Non ho richiamato, mi spiace...
- Ho immaginato che avessi molto da fare... Ho visto i giornali...
- Già...
II cameriere tornò con due piatti e glieli depositò con calma davanti.
- Ho letto che ti stai occupando... di quella cosa terribile, - disse Giuditta quando se ne fu andato.
- Già.
- Perché?
- Perché è il mio lavoro.
- No, volevo dire... perché lo fanno?
- Perché? I testi sacri... - si interruppe per battere la saliera sul palmo della mano. Un gesto istintivo per guadagnare tempo. La pausa che si poteva permettere, però, era breve. Non riuscì a formulare un pensiero compiuto, ne concepì semplicemente un estratto, il distillato di una repentina sensazione di disagio. Ma quando riprese a parlare la sua voce era diversa. - I testi sacri di psicologia criminale recitano che il problema di questo genere di persone è l’anaffettività. È come se il loro animo fosse mancante di qualcosa. Come se i loro occhi e la loro mente fossero capaci di vedere un solo lato della natura umana. Quel lato lo vedono al microscopio, in ogni minimo dettaglio. E l’altro lato, quello che non conoscono, che non riescono a focalizzare ma che sentono che deve esistere, diventa qualcosa di pauroso e terrificante. Il lato oscuro che odiano. E odiano chi lo possiede... - e allora, proseguì mentalmente Amaldi incupendosi, quella stirpe di uomini distrugge e fa razzia e impara ad amare la violenza perché solo la brutalità e la ferocia sono capaci di evocare un sentimento che somigli all’amore. - Ma non c’è un perché... Nulla che noi possiamo comprendere...
- Mi spiace aver parlato di questa cosa, - disse mortificata Giuditta quando si rese conto del cambiamento d’umore di Amaldi.
- Non fa niente, - rispose lui. - Almeno non mi hai chiesto se ho mai ammazzato qualcuno.
- L’avrei fatto tra breve, - disse Giuditta sorridendo.
Lo sguardo che Amaldi le restituì era lontano, come se non l’avesse sentita. Stava pensando che non era pronto e che forse non lo sarebbe mai stato per quel genere di giochi di società. Era stata una sciocchezza invitarla a cena. La stava illudendo e basta. Non aveva nulla da dare, lui. Mosse non visto una mano verso il cercapersone e lo fece squillare. Fece una smorfia di disappunto, lo guardò, si alzò in cerca di un telefono e dopo poco tornò al tavolo con un’espressione afflitta dipinta in volto.
Il cameriere aveva portato la cena.
- Mi spiace, Giuditta. Una grana in ufficio. La mia vita è tutta così. Dobbiamo rimandare. Vieni, ti riaccompagno a casa.
Camminarono a passo spedito, al contrario dell’andata, e Amaldi salutò freddamente e frettolosamente Giuditta. La ragazza fingeva di non essere dispiaciuta ma Amaldi la immaginò mentre saliva le scale che l’avrebbero riconsegnata alla galera del suo appartamento. Forse avrebbe pianto. Il suo volto sarebbe diventato più brutto. Amaldi ricordò la madre. Quando il medico le chiedeva di andare al bagno, finita la visita, anche lei diventava più brutta. Per l’umiliazione. E lui lo odiava quel dottore, perché sua madre poteva truccarsi e pettinarsi e tirar fuori dalla credenza in salotto le tazzine del tè e mettere una tovaglietta pulita sul tavolino ma non avrebbe mai potuto cambiare il bagno e la cucina, non avrebbe mai potuto eliminare quell’odore di sugo e cesso. Allora odiava anche il padre perché li costringeva a vivere in quella casa. Vedeva il trucco della madre che le si scioglieva in faccia, i vestiti che si laceravano, le tazzine che andavano in mille pezzi, tutto lo spettacolo in frantumi. Se avesse potuto ordinare a una gigantesca ondata di fango di seppellire la città vecchia e i suoi abitanti l’avrebbe fatto. Si sentì squassare da una rabbia antica.
Alzò gli occhi al secondo piano del palazzo. Vide una luce accendersi. Forse era la camera di Giuditta. Ma Giuditta non era sua madre, si disse. Non era quella la ragione della sua rabbia. E non era un dottore che voleva solo lavarsi le mani, che di case come la loro ne vedeva ogni giorno, disperatamente uguali le une alle altre. Non era la povertà, non erano i cessi squallidi, non era l’olezzo del sugo. Era lui. Un piccolo e mediocre investigatore che scappava da tutto e da tutti, che aveva il fiato corto e le gambe che non reggevano più. Un essere atterrito che si era dimenticato perché fuggiva e da chi.
Provò l’impulso di mettersi a correre e scappare ancora ma ebbe paura che allora Giuditta, affacciata alla finestra, potesse sentire la città vecchia ridere di lui.