XVIII.
Giacomo Amaldi camminava a passo spedito, le mani in tasca, guardandosi intorno. L’ispettore capo aveva la netta sensazione che la situazione dell’immondizia potesse degenerare ormai da un momento all’altro. La reale portata del fenomeno per il momento sfuggiva all’amministrazione municipale. Nei vari commissariati di zona erano già arrivate allarmanti segnalazioni. Un collega col quale Amaldi si era incontrato per i corridoi della questura gli aveva raccontato che stavano nascendo degli squadroni armati di fucili, fionde e impropri strumenti di offesa che davano la caccia a gatti, topi e cani randagi. Stavano facendo delle vere e proprie stragi. Erano arrivati a esporre i cadaveri degli animali come trofei o criminali. Quando Amaldi gli aveva chiesto se la municipalità o la polizia avessero un piano d’intervento, il collega aveva scosso la testa e sul viso gli era comparsa un’espressione che tutti i poliziotti sapevano interpretare immediatamente. Significava burocrazia. Significava politica. Significava che nessuno avrebbe fatto il primo passo fino a quando non fosse stato troppo tardi. A quel punto il caos avrebbe coperto le responsabilità oggettive dei singoli e fatto cessare come per incanto le rivalità. Il giorno prima Amaldi aveva letto l’intervista a uno psicologo che giustificava le azioni sadiche sugli animali, spiegando il comportamento dei cittadini come una normalissima reazione. Lo psicologo enunciava un concetto che ad Amaldi era parso delirante. In sostanza lo studioso sosteneva che si trattava di una specie di invidia nei confronti degli animali, i quali godevano di una situazione che per tutti gli altri era invece di sommo disagio. L’aggressione sistematica e organizzata ai danni dei randagi era definita catartica e liberatoria.
Erano trascorsi sedici giorni dall’inizio dello sciopero. Amaldi, avvicinandosi alla sua meta, calcolò che nei quartieri residenziali, dove gli edifici raggiungevano un massimo di sei piani ed erano abitati da una ventina di famiglie, ogni palazzo aveva prodotto fino ad allora circa trecentoventi buste. «Tenuto conto che mediamente in una strada il numero di palazzi può aggirarsi tra i cinquanta e i cento...», ragionava, «... il totale di buste dell’immondizia... dunque, a trecentoventi buste per palazzo... il totale è compreso tra i sedicimila e i trentaduemila pezzi». I palazzoni popolari, invece, alti anche dieci piani e abitati da un minimo di sessanta famiglie, dovevano aver vomitato tra i mille e i duemila sacchi ciascuno, per un totale impressionante compreso tra le cento e le duecentomila buste a strada. I calcoli lo rilassavano. Ormai era vicino all’università.
«Il totale generale delle buste dell’immondizia, quello che riguarda l’intera città», pensò, «è assolutamente incalcolabile».
Quando una macchina stritolò con le ruote l’ennesimo sacco, che esplose e si sparpagliò sull’asfalto, Amaldi si rese conto che la situazione era veramente drammatica, che lo spazio era finito. «O la gente o l’immondizia», concluse. E l’ipotesi non gli parve poi così drammatica come sembrava.
Arrivato alla scalinata dell’università si guardò in giro. Lo riconobbe subito in mezzo alla massa di studenti. Non solo per l’età ma per il portamento austero, per il cappotto elegante, la cartella di cuoio nella mano sinistra e l’aria impaziente. Amaldi, un attimo prima di salutarlo, controllò l’ora.
- Buongiorno, professor Avildsen, - disse. - Non sono in ritardo, vero?
Il docente gli strinse la mano senza sfilarsi i guanti di capretto e non rispose. Amaldi l’aveva trovato antipatico già al telefono quando avevano concordato l’appuntamento. Il professore aveva un tono seccato, s’era dichiarato occupatissimo e disponibile solo a un veloce incontro sulla scalinata dell’università alla fine della lezione. Amaldi non aveva indagato sul perché non si potessero vedere in un luogo chiuso. Supponeva che il docente avesse previsto che per strada avrebbero accelerato ulteriormente la conversazione.
- La ringrazio del tempo che mi dedica, - esordi comunque con estrema gentilezza Amaldi. Aveva saputo che il professor Avildsen era considerato un luminare nel suo campo e aveva bisogno di lui.
Il docente accennò un rapido sorriso formale.
- Vogliamo affrontare l’argomento? - disse poi.
- Certo, - e Amaldi estrasse dalla tasca la fotografia del messaggio lasciato dall’assassino sulla porta del negozio dell’antiquaria. Non specificò che era stato scritto con il sangue della donna, i giornali avevano già dato ampio rilievo alla notizia. Nessuno degli esperti della polizia sapeva da dove venisse quella frase. Qualcuno ipotizzava che fosse un brano della Bibbia. Quel genere di assassini spesso avevano ossessioni di tipo religioso.
Il professor Avildsen prese la fotografia in mano. Guardò a lungo l’immagine, facendo roteare impercettibilmente il capo.
- È il V.I.T.R.I.O.L., - disse poi.
- Come, scusi?
- Le iniziali della frase compongono la sigla V.I.T.R.I.O.L. e gli studiosi, per praticità, lo chiamano così. È una formula celebre fra gli alchimisti e condensa la loro dottrina. Questa in particolare è la versione di Kurt Seligman. Non è la più accreditata. In realtà io preferisco la formula classica: «Visita interiora terrae rectificando invenies... operae lapidem» invece di «occultum lapidem». Ovvero «la pietra dell’Opera» e non «la pietra occulta». Questa seconda versione è un po’ più melodrammatica. Ma le iniziali, come può osservare, sono le stesse. Devo spiegarle cosa significa?
- Mi farebbe una cortesia, sì.
- È un motto iniziatico. Enuncia la legge di un processo di trasformazione. Il ritorno dell’essere al nucleo più intimo della persona umana. È abbastanza chiaro?
- Francamente no.
- Sa chi erano gli alchimisti?
- Più o meno. Ma mi fermo alla trasformazione del piombo in oro.
- È tutto lì, in definitiva. Questo motto è la sintesi delle operazioni alchimistiche, ai diversi livelli di trasformazione... sia quelli dei metalli sia quelli dell’essere umano. In quest’ultimo caso il simbolo va evidentemente più a fondo. Si tratta di ricostruire se stessi, partendo dai vari gradi d’inconsapevolezza, d’ignoranza e di pregiudizi. Una ricostruzione che si basa sull’inconfutabile coscienza dell’essere, per cui l’uomo può scoprire la presenza immanente e trasformatrice di Dio... in sé. Quale che sia il testo, il simbolismo è lo stesso. Nella versione più accreditata «rectificando» è spesso tradotto con «distillando». Ma il risultato non cambia.
Due studenti, passando, salutarono il professor Avildsen. Il docente parve non accorgersi di loro.
- Mi saprebbe dire qualcosa di questo disegno?
- È il simbolo alchimistico del vetriolo. Tutto qui? Abbiamo finito? Come le ho detto ho una certa fretta...
- Solo un’ultima cosa, professore... devo pregarla di tenere per sé questa informazione. Non l’abbiamo resa pubblica, ci serve per smascherare i mitomani.
Il professor Avildsen non diede segni di essere interessato all’informazione. Continuò a guardare Amaldi con aria gelida.
- Se vuole venire al punto, - disse.
- Certo, - la voce di Amaldi era calma e controllata. - Abbiamo rinvenuto delle foglie secche sul luogo... - e gesticolò, come se facesse fatica a pronunciare il resto della frase, - sul luogo...
- Si, del delitto. Vada avanti.
- Mi domandavo... se a lei questo diceva qualcosa.
- Delle foglie?
- Sì, delle foglie secche.
- Signor... mi scusi, ho dimenticato il suo nome.
- Amaldi. Ispettore Amaldi.
- Signor Amaldi, le foglie hanno moltissime simbologie. Cosa vuole che le dica? In Estremo Oriente sono un’allegoria di felicità e prosperità. Le sembra pertinente? Le foglie sono presenti anche in tutti i riti primaverili. L'ometto di foglie russo, il Jack-in-the-green inglese... il pazzo di Pentecoste di Fricktal, in Svizzera... Comunque sono tutte simbologie festose.
- E non le viene in mente altro?
- Non così su due piedi, - disse il docente con voce annoiata.
- Professore. È morta una donna. Brutalmente assassinata...
- Non cominci con le prediche, - lo interruppe il professor Avildsen. - E non ci provi neanche a scaricare il peso delle indagini su di me. È un trucco che non funziona.
Amaldi cercò di tenere a bada la rabbia che gli contraeva lo stomaco.
- La prego, professore... - disse.
- In alcune isole delle Indie Orientali si crede che si possa curare l’epilessia colpendo in faccia un malato con le foglie di certi alberi che poi vengono buttate via. Gli stregoni e i loro pazienti sono convinti che la malattia passi nelle foglie e venga gettata via insieme a esse. L’ultima cosa che mi viene in mente, invece, è una pratica venatoria. Nell’isola di Nias gli indigeni cacciano i maiali selvatici scavando delle fosse opportunamente occultate. Quando i cacciatori tirano fuori dalla trappola la preda gli strofinano sulla schiena nove foglie cadute dagli alberi circostanti nella speranza che questo farà finire nella fossa altri nove maiali. È un principio omeopatico, come le foglie cadono dagli alberi così i maiali cadono nella trappola. Quante sono le sue foglie?
- Tre.
- Il nove è un multiplo di tre, ma a parte questo non vedo punti di contatto - . Il professor Avildsen guardò Amaldi con un sorriso ironico. - A meno che il suo cacciatore s’accontenti di altri... tre maiali soltanto.
- Un’ultima cosa.
- Mi sembrava che l’avesse già detto.
- Ha notato che nella frase... nel... V.I.T.R.I.O.L. ci sono alcune lettere maiuscole? Ha idea di cosa possano significare?
- Un anagramma?
- Forse. Ma non riusciamo a venirne a capo.
- Mi dispiace per lei, - e il professor Avildsen, senza salutare, se ne andò.
Amaldi lo vide raggiungere la sua macchina. Un gruppo di studenti aiutò il professore a far manovra, sgomberando la strada da un cumulo di buste dell’immondizia, a calci, ridendo. Solo allora Amaldi si rese conto che il professore non gli aveva restituito la fotografia. L’aveva semplicemente lasciata cadere a terra. La raccolse e cercò Giuditta. La vide seduta sul muretto che costeggiava la scalinata, qualche passo più in là, intenta a sfamare un gatto.
- Affascinante, vero? - gli disse Giuditta quando Amaldi le si avvicinò.
- Il gatto?
- Il professor Avildsen, - disse lei divertita.
- Mi fa piacere vederti ridere, - fece Amaldi evitando commenti sul docente. Sentiva tutto il corpo vibrare per la rabbia.
- Lei è la madre del gattino... - disse Giuditta accarezzando l’animale tra le orecchie. - Sono andata a vederlo... e ho conosciuto anche lo zio e la mamma di... Max. Il pelo gli ricrescerà, gliene ha tagliato solo un po’... Mi ha fatto pena... Max, non il gattino. Sto cercando di chiamarlo per nome così forse riuscirò.. . a non volergliene. Mi sento in colpa ma ancora lo odio...
- È naturale.
- Il gattino starà bene in quella casa... la madre di Max è una donna simpatica... e sola. Le farà compagnia. Anche Max deve essere molto solo...
- Non è un buon motivo.
- Sì, lo so... - Giuditta gli prese la mano. - Grazie, Giacomo.
Amaldi si irrigidì, poi, mentre le sorrideva, sentì la rabbia che scemava.
- Ti accompagno a casa? - le propose.
- Vado in ospedale. Oggi è il mio giorno di volontariato.
- Allora facciamo un pezzo di strada insieme.
Giuditta si alzò e le loro mani si slacciarono. La gatta li guardò stiracchiandosi. Per strada i loro impacciati discorsi si occuparono ancora dello sciopero dell’immondizia. Poi smisero di parlare. Nonostante il frastuono della città in pieno movimento Amaldi percepì con chiarezza il silenzio che li avvolgeva, non come una cappa, piuttosto come una specie di campana di vetro. In quel confortante silenzio allungò la mano, cercò e prese con delicatezza quella di Giuditta. La strinse. La ragazza rispose alla stretta, sempre senza dire una parola, e proseguirono il loro cammino. Quando la sagoma dell’ospedale cominciò a intravedersi oltre i tetti dei palazzi erano entrambi evasi dalla città e dai loro stessi pensieri e si erano rannicchiati in quell’intreccio di dita che non avevano cessato un solo istante di conversare.
Amaldi improvvisamente attraversò la strada e condusse Giuditta giù per una ripida e scivolosa discesa della città vecchia. Voltarono l’angolo del vicolo e si trovarono in un buio anfratto architettonico formato, sopra le loro teste, dall’incrocio di due balconi, costruiti contro ogni logica l’uno dirimpetto all’altro fin quasi a toccarsi. Amaldi si fermò. Giuditta abbassò lo sguardo a terra, inspirò profondamente e poi, con abbandono e lentezza, offrì le labbra ad Amaldi. Lui le accarezzò, lentamente, spianando le piccole rughe del labbro superiore come aveva già immaginato di fare e Giuditta sorrise, con gli occhi velati. Quando li chiuse e si sporse ancora più in avanti, alzandosi in punta di piedi, la mano di Amaldi le scivolò tra i capelli, lambendo l’orecchio, finché non l’ebbe afferrata per la nuca. Allora l’attirò a sé e la baciò con foga, a lungo, dimenticando la delicatezza dei gesti che avevano preparato quell’incontro di labbra, dimenticando ogni pudore e ogni prudenza, abbandonandosi a quegli umori bagnati e a quegli impercettibili suoni sguscianti delle lingue che si conoscevano come prima avevano fatto le loro mani. Quando il bacio terminò nessuno dei due aprì gli occhi, come assaporando la risalita dalle profonde oscurità in cui s’erano lasciati annegare. Le due bocche rimasero vicine, respirando affannate, appena aperte e inerti. Gli ansiti dei due amanti, così diversi fra loro, gutturale quello di Amaldi, sottile come un sibilo quello di Giuditta, si rincorsero per il vicolo finché divennero un unico boccheggiare, come se si fossero accordati o trasformati nel fiato di una sola bestia. Allora entrambi si calmarono e aprirono gli occhi. Si sorrisero imbarazzati, incapaci di gestire con la mente quell’intimità che i loro corpi avevano già raggiunto. Il secondo bacio fu più delicato, come un ponte lanciato a unire i due mondi. Quando si slacciarono e di nuovo si guardarono non c’era più imbarazzo nei loro occhi. Non sentirono il bisogno di sorridere e rimasero semplicemente a guardarsi, abbandonati all’ispezione dell’altro e anzi offrendosi, svelandosi. Aprendo porte che ai più erano chiuse. E come due ciechi le mani di entrambi indugiarono sui lineamenti dell’altro, accarezzando le rughe e gli avvallamenti del viso. Scoprendo l’altro fin nei più nascosti dettagli, toccando quel che era di carne e non illusione, dando corpo al proprio piacere di poter violare quel che per sua natura era inviolabile. Le carezze s’intrecciarono, confondendo di nuovo dita e polpastrelli, così che Giuditta toccava il suo proprio viso cercando la mano di Amaldi e scopriva i propri lineamenti non come li conosceva ma come li percepiva l’amante. E Amaldi, con le labbra che sfioravano quelle di Giuditta, si vedeva riflesso nelle sue iridi gialle, nelle nere pupille dilatate, e sentiva in bocca il fiato della ragazza, come fosse il suo, che gli riempiva i polmoni e gli piegava le ginocchia, fino a farle tremare. Quando tornarono a baciarsi, languidamente, senza fretta ma con desiderio, le loro labbra non riuscirono a sigillarsi le une alle altre, invase dalle dita che accarezzavano i denti, denti che mordevano, e dalla volontà di dare un sapore a quei lineamenti scoperti così da vicino, baciando le guance e gli occhi e offrendoli nello stesso tempo ai baci dell’altro.
Poi Giuditta prese la mano di Amaldi, con decisione, e se la fece scendere lungo il collo e sulle spalle, forzando la resistenza del cappotto, e più giù, sul seno morbido, assecondando la carezza con un leggero inarcamento della schiena. Una carezza veloce che la fece fremere e che diede un brivido ad Amaldi. E una fitta dolorosa. La strinse a sé, con forza, sentendo i polmoni di Giuditta che si svuotavano dell’aria.
- L’ospedale...? - disse nell’orecchio di Giuditta.
- Domani, - fece lei guardandolo e tornò a baciarlo.
Ma Amaldi si sciolse dall’abbraccio, abbassò lo sguardo e diede un calcio a una pietra nel vicolo. Poi, di scatto, immobilizzò il viso di Giuditta tra le sue mani. Aveva gli occhi spiritati.
- C’è una cosa... che devi sapere, - le disse.
Giuditta sentì un tuffo al cuore.
- Sei sposato? - chiese.
- Sì...
Giuditta si irrigidì.
- ... con una morta.
Nel silenzio che segui Amaldi andò a sedersi su un gradino di pietra grigiastra e liscia davanti a un portoncino corroso dall’umidità. Aveva la testa tra le mani, i capelli spettinati. Dopo qualche attimo guardò Giuditta e allargò le braccia nella sua direzione. Ma era un movimento lentissimo, come se sulle sue spalle fossero stati appoggiati improvvisamente tutti i sacchi di caffè che il padre aveva scaricato, come se le sue braccia fossero state schiacciate dal peso che si portava appresso da troppi anni. Giuditta si avvicinò. Lui la prese e la fece sedere sulle sue ginocchia. Poi affondò il viso tra i suoi capelli e le cominciò a raccontare la sua storia.
- Ti ricordi che al ristorante mi hai chiesto «perché» e io ho creduto che volessi sapere perché facevo questo mestiere?
Giuditta annuì in silenzio. Amaldi non la vide ma sentì il capo che scendeva e s’alzava lentamente.
- Quella sera ti ho risposto che era il mio lavoro. Non è solo questo... - Una breve pausa. - È la seconda volta nel giro di una settimana che racconto questa storia... e non l’ho mai raccontata prima. È una brutta storia, Giuditta, e mi spiace che tu debba conoscerla...
Giuditta gli appoggiò una mano sulla schiena e lo strinse a sé.
Allora Amaldi ricominciò a parlare. Con una voce calda e non meccanicamente come aveva fatto con Frese pochi giorni prima. Le lacrime violarono gli occhi prima ancora che iniziasse a parlare, senza scosse, con la dolcezza di una ferita che si dissangui. Senza che Amaldi le contrastasse. Le raccontò della ragazza bionda dal seno generoso di cui si era innamorato e alla quale aveva promesso la luce di una casa fuori della città vecchia. Le raccontò dei loro progetti; della madre di lei che faceva la prostituta; della loro prima e unica volta, sulla scogliera, quando erano solo due adolescenti impacciati. Le raccontò del giorno in cui aveva gironzolato per i vicoli della città vecchia, fantasticando sull’amore e sul sesso, che aveva scoperto contemporaneamente. Le raccontò della stradina buia piena di sacchi dell’immondizia dove si era infilato incuriosito da un assembramento di folla.
- ... la prima cosa che vidi fu una vecchia. Ci incrociammo, spalla a spalla, e sentii che stava pregando. Una preghiera che avevo sentito ruminare tante volte dalle donne sedute per strada, in uno spicchio di sole, quando la stagione lo permetteva. Ma i suoni che pro duceva la vecchia non erano gli stessi suoni mozzi e ritmici delle donne della mia infanzia, suoni che si mescolavano allo sciacquio delle onde annoiate nel porto, allo stridio dei carrelli carichi, spinti da uomini con scarpe forti e 'grandi che si consumavano su e giù per i moli... Erano suoni... C’era paura in quei suoni. Disperazione, orrore... e quella rassegnazione che odio al di sopra di ogni altra cosa... E poi ricordo che vidi un poliziotto che piangeva... un poliziotto grande e grosso che piangeva in silenzio... e poi ancora le urla di una donna... e la gente che cercava di trattenerla, che le diceva di non guardare... e il poliziotto non faceva nulla, era come vinto, senza forze... Allora mi sono spinto più in là, sapendo che non dovevo... perché a distanza di tanti anni mi sono convinto che io sapevo... cosa avrei trovato... cosa avrei trovato...
Amaldi strinse gli occhi e singhiozzò più forte, rivedendo la folla che si apriva sulla macabra lucentezza nera delle buste dell’immondizia.
- ... come un sacco. Un corpo come un sacco, Giuditta. .. Una ragazza come un sacco dell’immondizia... Abbandonata lì, nel vicolo, come se... come se fosse immondizia e l’avesse buttata... l’assassino l’avesse buttata come immondizia... uno scarto, rifiuti... non lei. Non era più lei... Aveva i suoi capelli biondi ma non era lei... e le scarpe che le avevo regalato ma non era lei.., non era più lei, Giuditta... Non lo sarebbe mai più stata... un corpo come un sacco...
Non le raccontò che il bagliore nerastro del sangue che si rapprendeva sembrava di plastica, né che gli occhi erano sbarrati sul nulla, verso l’alto, verso il cielo plumbeo e soffocante della città vecchia. Né che l’assassino l’aveva squarciata là, dove la sua verginità era cessata da pochi giorni, dolcemente, con un coetaneo, su una scogliera, su una coperta trafugata a casa, dopo una fuga in bicicletta.
- Aveva sedici anni... e nessuno sa chi la uccise... nessuno sa chi la abbandonò lì, nel vicolo, tra i sacchi dell’immondizia...
Amaldi aveva sempre sospettato che fosse stato un cliente della madre, quella madre che quando ormai non serviva più smise di fare la prostituta.
- È per questo che faccio il mio lavoro... È per questo che mi occupo di omicidi. Perché non so dimenticare. Perché non so rassegnarmi.
Amaldi alzò il capo e girò il viso di Giuditta verso i suoi occhi arrossati.
- Dovevo dirtelo... dovevi sapere, Giuditta. Perché io sono questo... perché non credo di poter essere qualcosa di diverso. Perché mi sono condannato a catturare qualcuno che... Perché mi sono condannato a frugare nell’immondizia... Dovevo dirtelo... perché non so se riuscirò mai a seppellirla... perché non so cosa potrei darti...
Giuditta gli asciugò le lacrime e le baciò, gli ravviò i capelli e gli sistemò il colletto della camicia.
In quel momento il portone dietro di loro si aprì e una vecchia vestita di nero, con calze pesanti e scarpe logore, tagliate sulle dita, fece un verso impaurito trovandoseli davanti.
- Andate a cercarvi una panchina, sporcaccioni, - disse non appena si fu ripresa dallo spavento, agitando in aria la borsa.
Amaldi e Giuditta si alzarono scusandosi e se ne andarono in fretta. Giuditta stringeva la mano di Amaldi. Camminarono in silenzio per un po’.
- Quando mi guardi pensi a lei? - domandò improvvisamente Giuditta.
Amaldi si fermò.
- No, - rispose.
- Vuoi mostrarmi quel vicolo?
Amaldi la fissò sorpreso.
- Non ho paura.