XXIX.

Tutti quanti la conoscevano come Clara. Nessuno sapeva come facesse di cognome. I più piccoli, per averlo sentito dire, ma questo solo per i pochi mesi di ingenua purezza che la città vecchia concedeva loro, probabilmente immaginavano che di cognome, e se avessero saputo scrivere l’avrebbero scritto infatti tutto attaccato, si chiamasse «Laputtana».

La folla di manifestanti si era concessa una tregua, o almeno così pareva. La gente che aveva invaso le strade urlando e chiedendo la testa degli spazzini e degli amministratori era tornata alle abituali occupazioni. Gli sgargianti toni delle buste gialle e azzurre e rosa dell’immondizia e dei resti che si sparpagliavano per le strade avevano ormai perso il loro naturale colore, spento dallo sporco, dalla pioggia fangosa, dai tubi di scarico delle macchine. E la giornata non era meno grigia né il cielo meno ferroso. Sembrava che quella luce inanimata fosse sorta tutta insieme all’alba, solo perché era il ciclo naturale delle cose e non per una volontà di crescere e divenire. E per lo stesso principio si poteva supporre che di nuovo, tutta insieme, senza subire la minima mutazione, si sarebbe esaurita improvvisamente quando fosse stato il momento del buio.

Quel pomeriggio Clara, cosa che faceva assai di rado, non alzò le due saracinesche del suo esercizio e non si offrì in esposizione sul suo letto ampio e invitante. Non si infilò né le giarrettiere né la vestaglia sgargiante né mostrò la sua rassicurante scollatura ai passanti. Si vestì invece in modo poco appariscente: una borsetta nera dal manico rigido e la chiusura dorata che consisteva in un piccolo fiocco d’ottone, calze pesanti grigio fumo, scarpe con un tacco appena abbozzato, un completo nero, giacchetta avvitata e bottoni di madreperla finta, gonna con uno spacchetto minuscolo nella parte posteriore e sopra un cappotto, lungo appena oltre il ginocchio, nero anch’esso e con il collo di velluto. Mentre s’incamminava fuori della città vecchia, per le stradine bavose e ingombre d’immondizia, si sentiva a disagio esattamente come sarebbe successo a una morigerata casalinga se si fosse dovuta atteggiare a prostituta nella bottega di Clara. Quelli che l’incontravano la salutavano con un attimo di ritardo, un po’ perché stentavano a riconoscerla, un po’ perché resi esitanti dallo stupore. Nessuno le chiedeva dove andasse. Vestita com’era, con quel sospetto di lutto, avevano il riguardo di non farle raccontare una storia penosa.

Quando ebbe superato il confine della città vecchia, Clara si confuse tra la folla, simile in tutto e per tutto alle altre donne che facevano la spesa o giravano per i negozi. Molti uomini si voltavano a guardarla, nonostante la sua età e i suoi tratti che belli non potevano dirsi. Ma a questo Clara era abituata, ormai, sin da quando era piccola. Le occhiate desiderose dei maschi erano diventate parte della sua vita, come le campane delle chiese la domenica o il latrato delle navi che lasciavano il porto.

Clara era nata in campagna. Era cresciuta in una casa dove vivevano quattro famiglie di agricoltori. Era scappata di lì il giorno del suo sedicesimo compleanno, era approdata in quella bassa e sporca città sul mare che subito l’aveva catturata e in pochi giorni aveva scelto il suo mestiere. E in quel mestiere, che era stato un maestro prodigo d’insegnamenti, aveva trovato tutto l’equilibrio che nella fiera vita all’aria aperta, tra gente modesta ma di sani principi, non aveva trovato. Imparò subito che i clienti non sceglievano una prostituta per i suoi attributi fisici ma perché avevano la certezza di sapere chi era e cosa avrebbe potuto dar loro quella donna. E Clara dava sempre al suo prossimo ciò che s’aspettava. Era come un gioco, lei era l’attrice e i clienti i commediografi che venivano a verificare il loro copione. La fortuna di Clara era stata che ispirava tenerezza e calore. Divenne la musa di uomini deboli e affamati, delicati il più delle volte, forse un po’ lacrimosi, che volevano solidarietà e attenzione, ma mai pericolosi. Non poteva dirsi felice perché non aveva sperimentato il dolore, non esponendosi mai a nulla di reale, ma la vita che le era capitata le sembrava soddisfacente. Non aveva il senso del futuro, perciò era entrata nell’età più propriamente adulta senza scossoni.

Poi una notte arrivò Ajaccio.

Ajaccio aveva un difetto di vista, si potrebbe dire. Non vedeva quel che generazioni di clienti avevano trasformato in un dato di fatto, avendolo affermato così tante volte. Non arrivò a comprendere che Clara non apparteneva a quella categoria di donne che si violentano. Clara non aveva quel tratto deteriore che dava appiglio al disprezzo della violenza. Né una candida purezza da infangare. Ajaccio, quella notte di quattro anni prima, si era casualmente imbattuto in Clara e casualmente, solo obbedendo a uno stimolo, l’aveva violentata. Sarebbe potuta essere una qualsiasi altra donna. E forse proprio a causa di questa sua deficienza di vista, fatalmente, entrò in contatto, unico e non invitato a farlo, con la vera natura di lei. Lui non lo intuì mai ma Clara, al contrario, ne era perfettamente consapevole e ogni giorno, da quel primo giorno, temeva e sperava che tornasse a violentarla.

Per questo Clara stava attraversando a piedi la città diretta all’ospedale nel quale aveva appreso, da quello strano biglietto, che Ajaccio stava morendo. La tenuta a lutto le era sembrata la più indicata per fargli visita. Per celebrare la morte della violenza. In cuor suo Clara sospettava che il biglietto fosse stato scritto da Ajaccio stesso.

-    Parente? - le chiese l’infermiera quando si presentò al reparto di oncologia.

-    Sì, - rispose Clara, senza esitazioni.

-    È tardi.

-    La prego.

-    Stanza 423, - disse l’infermiera, ancora indecisa.

-    Ma deve parlare con quell’agen... con quell’infermiere lì.

-    Ascolti... - fece Clara toccandole un braccio, -pensa che potremmo rimanere da soli, io e lui, senza essere disturbati, per un’oretta?

L’infermiera capì subito che tipo di parentela li legava e sorrise con indulgenza.

-    Aspetti qui, - le disse.

Parlottò rapidamente con l’uomo grande e grosso che stazionava davanti alla porta della stanza di Ajaccio. Quello dapprincipio scosse il capo, poi sembrò cedere e la invitò con un gesto ad avvicinarsi.

-    Mi spiace, - disse imbarazzato, - ma dovrei... perquisirla.

Clara gli sorrise, gli allungò la borsa e allargò le braccia. L’agente travestito la palpò discretamente, fece un cenno affermativo e si allontanò di qualche passo.

-    Potrei chiudervi dentro, - disse l’infermiera sorridendo. - Poi basterà che suoni il campanello.

Clara le disse di sì con gli occhi. Dietro di lei, mentre entrava nella stanza, sentì tintinnare un mazzo di chiavi. Richiuse la porta senza voltarsi. Il cuore le accelerò appena quando la serratura scattò. Era in trappola. Segregata con il suo carnefice, esposta alla fredda e impietosa luce al neon che pioveva dal soffitto.

-    Quasi non ti riconoscevo, - mormorò con un filo di voce Ajaccio dal suo letto. Cercò di mettersi a sedere ma le braccia non lo sollevarono. Una mano si contrasse sotto le lenzuola in uno spasmo involontario.

Clara non disse niente. Si avvicinò al malato, sovrastandolo. Poi si levò il cappotto e lo lanciò su una delle due sedie. Fece lo stesso con la borsa che cadde a terra.

-    Com’è che sei venuta? Chi ti ha chiamato? Frese?

-    No.

-    Ti facevo pena?

-    No.

-    E allora cosa?

-    Forse volevo vederti morire, - disse Clara, senza astio né crudeltà.

-    Già... - fece Ajaccio con quella voce sottile che ormai era la sua massima espressione, giallo, la pelle incartapecorita.

-    Ti sembra strano? - domandò la prostituta vestita a lutto.

-    No... - tossì

-    Davvero?

-    Sì.

-    Hai dei rimorsi... adesso?

-    No, - e il viso buio di morte di Ajaccio sembrò illuminarsi per un attimo, una luce così fioca che poteva notare solo chi lo avesse amato. - No, per me. Sì, per te. Ora posso apprezzare quello che sei stata. Se avessi rimpianti e pentimenti anche questo non avrebbe più senso -. La guardò con occhi lontani. Era bella. - Sono molto cambiato... non potrei più...

-    No, non potresti più farlo, - disse lei, una nota dura nella voce, come una vibrazione morente della vendetta che aveva creduto di volersi prendere.

Ajaccio sentì gli occhi che si velavano.

Clara scostò le lenzuola dal corpo di Ajaccio. Poi sedette sul bordo del letto e cominciò a sbottonargli la giacca del pigiama. Quando l’ebbe aperta lo girò, senza particolare garbo, prima su un fianco e poi sull’altro, sfilandogli le maniche. Lo lasciò un attimo così, su un lato, contemplando la diffusa ustione rosso scuro che gli avvolgeva tutta la schiena e ci passò sopra le unghie, senza graffiare e senza carezzare. Ne seguì i contorni, come ricalcandoli, fino al nodo che stringeva la gola dell’uomo e lo rimise a pancia all’aria. Allora fece uscire dalle asole anche i due bottoni dei pantaloni, che erano macchiati di giallo, e glieli sfilò dalle caviglie ossute. Li buttò accanto al cappotto nero con il collo di velluto. Lasciò che gli occhi girovagassero per quel corpo nudo e vecchio e malato. E totalmente indifeso. Non avrebbe più potuto violentarla, anche se avesse voluto con tutti i muscoli e con tutti gli ormoni che gli restavano. Le gambe erano magrissime. Le ginocchia, per contrasto, apparivano enormi. Solo lo scheletro reggeva insieme quel mucchio di pelle, perché altro non sembrava. Clara si abbassò e appoggiò la testa sul ventre di lui. Lo sentiva gorgogliare. Guardò una ciocca dei suoi capelli rossi sparpagliata sul pene odoroso e sgonfio di lui. Si avvicinò al membro e lo baciò. Nessuna reazione. Allora si voltò. Ajaccio non la guardava e aveva un’espressione indecifrabile negli occhi, occhi che sembravano raccogliere in un solo sguardo il passato e il futuro.

-    Pensi di farcela? - domandò lei alzandosi e sfilandosi le calze e le mutande e alzandosi la gonna al di sopra del sedere morbido.

Ajaccio non rispose né mosse gli occhi.

-    Sai, - disse lei mentre gli saliva sopra, cavalcioni, e cominciava a strofinarglisi addosso, - qualche tempo fa venne da me un professore universitario per una... intervista, la chiamava... in pratica erano un sacco di domande private. Ma mi pagava e sembrava ammodo perciò ho accettato. Era un bell’uomo, con la barba... un po’ strano, forse, non mi sono mai fidata completamente di lui... Mi assomigliava, pensai, ma era un pensiero stupido... Insomma questo professore... - Clara si guardò in mezzo alle gambe. - Non ce la fai proprio, vero?... Non ti preoccupare, ascolta... questo professore mi continuava a dire che se facevo la professione che faccio era perché avevo bisogno di esercitare un controllo sul sesso... Io ho sempre creduto che fare la puttana fosse un modo comodo per guadagnarsi da vivere, e gliel’ho anche detto, ma lui insisteva, insisteva e diceva che era il controllo, invece, che cercavo. E per convincermi mi faceva sempre lo stesso esempio... diceva che era solo un esempio, che era una invenzione fantastica... però descriveva un uomo immaginario che mi teneva in scacco... diceva proprio scacco. E lo pronunciava con... non so, con dolore, forse. Dolore e rabbia... quasi che la cosa riguardasse anche lui... Fu in quel momento che pensai che eravamo simili... e siccome io continuavo a negare, lui entrava sempre più nei dettagli e descriveva quest’uomo anche fisicamente... come si muoveva, come parlava... Tutto. E sai una cosa? Ti assomigliava incredibilmente... ma davvero tanto. Ho quasi avuto la sensazione che ti conoscesse... Ma non era possibile... E infatti poi disse che quest’uomo era un prete, un uomo di chiesa...

Ajaccio sussultò appena.

-    Si muove qualcosa? - disse Clara sempre strofinandosi. - Bene... Poi questo professore è scomparso ma io ci pensavo spesso... Non a lui. Alla faccenda del controllo... e forse non aveva tutti i torti... può essere molto eccitante il controllo... non sessualmente... ma avere il controllo di una situazione, di una persona... Non è stato così per te, in tutti questi anni?

Ajaccio la guardò. Lei sorrise e si aprì la giacchetta nera e aderente lasciando uscire una generosa porzione di seno. Ajaccio provò ad allungare una mano ma di nuovo lo spasmo lo bloccò. Le dita si serrarono. Clara gliela prese, la massaggiò, distese le dita e appoggiò la mano sul seno. La mosse lei e muoveva anche il seno, dondolandosi avanti e indietro. Poi gliela lasciò. Le dita si artigliarono al bordo superiore del reggiseno e lì rimasero, inerti.

-    Ora è come se i nostri ruoli si fossero rovesciati, -disse Clara. - Tu non puoi opporti...

-    No...

-    No, non puoi... - sospirò lei e di nuovo si guardò in mezzo alle gambe, forti e piene di vita in contrasto con quelle scheletriche di lui. Si sollevò un poco sulle ginocchia e vide le grandi labbra rosse e sfibrate, tra le cosce, penzolanti come bargigli di gallo, velate dai peli chiari ormai radi. Prese il sesso floscio di Ajaccio e, spingendo il prepuzio con l’indice, aiutò la patetica penetrazione. Poi tornò a schiacciarlo e sentì un umore caldo nascergli nella pancia, in profondità.

Mentre si muoveva pensava al giorno in cui era scappata dalla casa di campagna, il giorno del suo compleanno, il giorno del funerale di suo padre. La stanza era in penombra, gli scuri stretti alle finestre. Fuori l’aria era fredda e umida. Il padre era disteso sul letto. Una candela bruciava in un moccolo sul comodino alla sua destra. Nessuno nella stanza a parte lei e suo padre. Lei era su una sedia, che si lamentava a ogni più piccolo movimento, e la paglia vecchia le pizzicava le natiche. L’uomo ancora giovane e forte era disteso con le mani incrociate sul petto nudo. Aveva l’ampio torace peloso ormai vuoto che mostrava le costole. Aveva indosso solo un paio di lunghe mutande di lana e i piedi sbucavano fuori, sporchi di terra, le unghie nere. Accanto al letto un pacco mal fatto, con un nastro di corda tenuto insieme da un piccolo piombo grigio. La ragazza sapeva cosa c’era dentro. Un vestito lungo e ampio, color crema, su cui spiccavano fiordalisi e gigli stampati che aveva visto a una fiera. Il padre gliel’avrebbe fatto aprire per il suo compleanno, perché voleva che «la più bella fosse ancora più bella», aveva detto. E adesso era lì disteso, immobile, con le braccia incrociate sul petto, quelle braccia capaci di fermare un toro tenendolo per l’anello al naso, con addosso solo un paio di mutandoni di lana e il piccolo colle che sorgeva sotto la stoffa, dove iniziavano a separarsi le gambe. Clara non ricordava bene cos’era successo. Di là dalla porta della camera scura aveva udito il pianto sommesso della madre e la sorella di lei che la consolava e poi voci di uomini che non riconobbe ma improvvisamente sapeva di aver cominciato a sudare. Si vide lì, sola con il padre, nudo, in quella stanza buia. Si sentì sporca e impaurita e continuava a sudare. Allora corse all’armadio con lo specchio, prese il vestito buono dell’uomo e la camicia bianca e la stretta cravatta nera e le calze e le scarpe a punta con il salvatacco in ferro e lo vestì, istericamente, in preda al panico. Quando entrarono, la madre e gli altri, la trovarono in piedi, casta, vicino alla finestra aperta e il morto a letto, vestito di tutto punto, pronto per la bara.

Mentre lo seppellivano lei fuggì.

-    No, - disse Clara ad Ajaccio. - Non puoi... non puoi... non puoi... - poi aprì la bocca, ma appena, pudicamente. Il respiro si interruppe per un solo, breve momento. Le palpebre si socchiusero ma senza farla sprofondare nel nero dell’abbandono. Solo una penombra di sapore sessuale, un gusto virginale, quasi, puro e timido. Così in contrasto con il calore che le scivolò fuori delle gambe divaricate e che si sparse tra i neri peli ruvidi di Ajaccio.

Abbassò il capo sulla mano abbarbicata al reggiseno. La staccò. La distese accanto al corpo consumato. Si abbottonò la giacchetta, lentamente. Si alzò, si infilò le mutande e le calze, abbassò la gonna.

-    Hai freddo? - domandò al malato.

Quello fece segno di no.

Lei gli tirò su le coperte senza rivestirlo, si volse alla sedia, prese il cappotto nero con il collo di velluto e se lo appoggiò sulle spalle. Si chinò a terra e raccolse la borsa. Le diede qualche colpetto con la mano per levare una striscia opaca di polvere che non veniva via.

Ajaccio la vedeva di spalle, il corpo ormai grosso, le natiche che tiravano le cuciture della gonna e la cerniera, i polpacci che tendevano, schiarendole, le calze.

«Dovrei dirti grazie», pensò, «ma non ne ho più la forza. Tutte le parole stanno morendo con me».

Clara cercò di aprire la porta ma si ricordò che erano chiusi insieme in quella bara disinfettata.

-    Ce la fai a suonare il campanello? - chiese senza voltarsi.

-    Sì...

Attimi lunghi come tutta una vita, pensò Clara. Aveva scoperto solo allora che poteva amare, che l’amore non era come nei libri ma qualcosa di più travolgente e silenzioso nello stesso tempo, che ognuno aveva l’amore che si cercava e che, forse, si meritava. E capitava anche che si avesse un amore che non si sarebbe potuto avere.

L’infermiera bionda, quando aprì la porta, lesse nei suoi occhi un dolore terribile. Clara aveva entrambe le mani incrociate sul petto, come un morto, e da un gomito le pendeva ridicola la borsetta con il gancio a forma di fiocco. Clara sembrava aggrappata alle mani che a loro volta si aggrappavano al corpo. Mani che tamponavano e stringevano una ferita. L’infermiera abbassò subito lo sguardo sulle mattonelle del corridoio, istintivamente.

Clara, superandola, mormorò qualcosa. Poi scomparve lentamente.

Ajaccio sapeva che non l’avrebbe più rivista.

-    Cos’ha detto? - chiese all’infermiera.

-    Mi pare abbia domandato... «Non possiamo avere di più?»... È possibile?

-    No, - disse Ajaccio rispondendo a Clara e sentendo quanto crudelmente la vita stesse abbandonandolo.

-    Avrò capito male, - borbottò l’infermiera e chiuse la porta.