XVII.

I due agenti che lo avevano prelevato di peso all’università non gli avevano rivolto la parola né gli avevano dato spiegazioni per tutto il tragitto. Non era una prassi regolare ma l’ispettore capo Amaldi era stato chiaro su quel punto: il sospetto doveva arrivare al commissariato in preda al panico. E non c’era nulla che facesse paura come il silenzio e una macchina che correva a sirene spiegate nel traffico cittadino. Arrivati a destinazione gli agenti, con le pistole in pugno, lo fecero smontare dal sedile posteriore strattonandolo. Lo portarono al terzo piano della palazzina e lo spintonarono in una stanza spoglia. Il tavolo al centro dell’ambiente era imbullonato al pavimento e così le uniche due sedie. Uno degli agenti gli fece cenno di sedersi e si infilò la pistola nella fondina.

-    Dovrei... Io do... vrei andare in... in bagno... - balbettò il ciccione, che aveva gli occhi sbarrati e sudava copiosamente.

-    Nome e cognome, - disse il primo agente.

-    Max Peschiera...

-    Max? - fece con un’espressione disgustata l’agente e guardò il collega.

-    Max è un nome da frocio, - commentò l’altro.

-    Massimo... - si corresse il ciccione.

-    Sei un finocchio?

-    No...

-    Ci stai prendendo per il culo?

-    Non fare lo stronzo, brutto frocio.

-    No... io...

-    Ti chiami Massimo o Max?

-    Massimo...

-    E perché hai detto Max? Per fare lo spiritoso?

-    No. Dovrei andare in bagno...

-    Massimo cosa?

-    Massimo Peschiera.

-    Peschiera? Sei sicuro? Non è che viene fuori che Peschiera non è il tuo cognome, come Max?

-    No, mi chiamo Peschiera... Massimo Peschiera e dovrei...

-    Sei un ciccione di merda e ti metti a fare lo spiritoso con noi?

-    Dovresti pensare a dimagrire, non a prenderci per il culo, Max.

-    Non vi prendevo per il culo.

-    Culo? Ha detto culo?

-    Ha detto proprio culo questo ciccione, l’ho sentito.

-    Max, pulisciti la bocca quando parli con noi.

-    Vi prego, io dovrei...

-    Allora, come ti chiami?

-    Massimo Peschiera! - e il ciccione appoggiò le braccia al tavolo, ci nascose la faccia e scoppiò a piangere.

L’agente che gli era più vicino lo spinse all’indietro.

-    Stai composto.

Le guance grasse erano rigate di lacrime. Gli occhi piccoli erano rossi.

-    Vi prego, dovrei andare in bagno... - si asciugò un rivoletto di saliva con la manica del giaccone militare.

I due agenti gli voltarono le spalle e uscirono dalla stanza senza dirgli una sola parola. In corridoio Frese li stava aspettando.

-    È cotto, - fece uno dei due agenti.

-    Può cuocere ancora un po’, - disse Frese. - Aspettiamo Amaldi.

-    Deve andare in bagno.

-    Ci andrà.

-    Se la sta facendo sotto.

-    E allora? Sei tu che pulisci? Sei la donna delle pulizie? - lo aggredì Frese.

-    No... però...

-    Vai dentro, non bisogna mai lasciarli da soli. Quante volte ve lo devo dire? Se si fa male ne rispondi tu. Chiaro?

L’agente rientrò nella stanza.

-    Come si chiama? - chiese Frese all’altro.

-    Massimo Peschiera.

-    Peschiera?... Come il nostro Peschiera?

-    Chi?

-    L’archivista, testa di cazzo. Vai da lui e chiedigli se lo conosce, - guardò l’agente che si avviava per il corridoio a passi incerti. - E non ti perdere! - gli urlò dietro.

Poi Frese, alzandosi in punta di piedi, sbirciò oltre lo spioncino della porta. Il ragazzo aveva superato da poco i vent’anni. Capelli corti, dritti, occhi piccoli e impauriti, denti da roditore. Grasso. Non era un maniaco, decise. «Sei solo un segaiolo senza donne, vero?», pensò, sapendo bene cosa provavano i brutti a quell’età. A lui era successa la stessa cosa. Ma non aveva mai fatto telefonate oscene. Era più pratico andare a puttane. E soprattutto non aveva mai ammazzato un animale per far colpo su una ragazza.

-    Bel sistema del cazzo, - borbottò.

Si mise a camminare su e giù per il corridoio con le mani dietro la schiena, a testa bassa, pensando che l’interessamento di Amaldi per una faccenda di poco conto come quella, in un momento in cui avevano a che fare con un pazzo omicida, era quantomeno strana. A meno che Amaldi non avesse delle mire personali sulla ragazza. Sarebbe stata la prima volta da quando lo conosceva. Nell’unica occasione in cui li aveva visti insieme Frese non si era lasciato sfuggire un paio d’occhiate del suo superiore. Segni impercettibili, irrilevanti in un essere umano comune, ma in Amaldi indubbiamente eccezionali. Sarebbero stati una bella coppia, pensò Frese, sorridendo con un poco di tristezza perché lui non si era mai potuto illudere di avere ragazze così carine. A meno che non fossero in vendita per le strade. Ma quelle non contavano. Amaldi non lo sapeva nemmeno lontanamente quanto era fortunato. Quella ragazza avrebbe potuto tirarlo fuori dal gorgo nel quale stava affogando. E se fosse successo il primo a gioirne sarebbe stato Frese.

-    È mio nipote? - domandò una voce affannata.

Frese si voltò verso l’ascensore. Guardò l’archivista mentre si avvicinava. Pingue, piedi piatti, ginocchio valgo, capelli dritti, occhi porcini e quei lunghi denti gialli che non riusciva a trattenere dentro le labbra. L’impronta di famiglia era evidente.

-    Non so. Dai un’occhiata, - gli disse invitandolo a guardare dallo spioncino.

-    Merda, - sbottò l’archivista. - Mi scusi... - fece subito, rosso in viso. - È proprio Muffa... Che ha fatto? Perché è qui?

Frese gli disse delle telefonate e dei messaggi osceni e concluse raccontandogli del gattino morto nella scatola di cartone con lettera anonima annessa.

-    È stato Muffa?

-    Pensiamo di sì. Perché lo chiami Muffa?

-    È il figlio di mia sorella. È vedova. Vive della pensione di suo marito e fa qualche lavoretto qui e là. Io non mi sono mai sposato così quando posso le do una mano... non è facile mandare un ragazzo a scuola e poi all’università... è un ragazzo molto intelligente, sa?...  ma ci vogliono un sacco di quattrini. Mia sorella ha solo lui... e io ho solo mia sorella perciò...

-    Muffa, - gli ricordò Frese.

-    Sì, Muffa. Lo chiamiamo così perché sin da quando era bambino s’attaccava come una muffa a chiunque gli desse un po’ di confidenza... Ha presente la muffa...?

-    Vuoi parlarci prima tu? - gli domandò Frese.

-    Grazie, - disse l’archivista ed entrò.

Frese fece cenno all’agente di uscire. Mentre richiudeva la porta vide il ciccione alzarsi in piedi ed esclamare tra le lacrime: - Zio! - L’archivista gli puntò l’indice in faccia e urlò: - Siediti. Adesso ti ammazzo! - Poi Frese non sentì più nulla né guardò dallo spioncino cosa succedeva nella stanza.

In quel momento Amaldi stava uscendo dall’ascensore. Aveva gli occhi segnati dalla stanchezza.

Il giorno prima, quando era arrivato al portone di Giuditta, e solo allora, si era dovuto arrendere all’evidenza che quella ragazza gli interessava in maniera particolare. Non era da lui comportarsi così, perdere il controllo. Non era da lui abusare dei suoi poteri e arrestare un sospetto su basi deboli come quelle che avevano. Davanti al portone si era fermato un attimo, con il fiato corto. Era spaventato da quello che provava. Era terrorizzato all’idea di perdere la sua meta. Poi aveva citofonato, aveva sentito la voce distorta di Giuditta e ogni preoccupazione era svanita. Quanto tempo era che non si prendeva cura di una persona viva? La serratura del portone era scattata. Appena entrato nell’androne aveva ricordato tutti gli odori appiccicaticci della sua infanzia, quell’atmosfera malsana che spegneva i colori della pelle e opprimeva i polmoni. Istintivamente aveva proteso una mano in avanti, come faceva da bambino, per scansare le ragnatele. Giuditta lo aspettava in cima alle scale. Quando lui l’aveva raggiunta era scoppiata a piangere. Amaldi l’aveva abbracciata rigidamente, resistendo alle emozioni che gli si agitavano dentro. Poi erano entrati nell’appartamento. Nel frattempo era rincasata anche la madre, una donna scialba, affaticata più dalle disillusioni che dal lavoro, sbiadita. Non assomigliava a Giuditta. E probabilmente neanche da giovane, quando doveva aver nutrito anche lei delle speranze. Amaldi le aveva letto in viso la condanna della rassegnazione. In presenza della donna Amaldi aveva recuperato la sicurezza che aveva temuto di perdere se si fosse trovato da solo con Giuditta. Aveva esaminato frettolosamente la scatola di cartone con l’animale bruciato. La vista di quel corpicino straziato, nero e irriconoscibile, con il teschio svuotato e qualche osso carbonizzato che sbucava dall’informe ammasso di carne gli aveva dato il voltastomaco. Aveva letto la lettera anonima, grossolana. Chiunque avesse scritto quella lettera non era un maniaco. Glielo dicevano l’istinto e l’esperienza degli orrori che aveva dovuto affrontare. Si rese conto che non avrebbe dato importanza alla cosa se non si fosse trattato di Giuditta. E questa considerazione di nuovo lo fece sentire a disagio. La madre di Giuditta aveva portato ciabattando due tazze di caffè, una per la figlia e una per lui. Dopo aver rimproverato la figlia per il suo modo di comportarsi e di vestirsi si era ritirata in cucina. - Non è colpa tua, - aveva detto Amaldi a Giuditta appena erano rimasti soli. La ragazza lo aveva guardato con occhi riconoscenti. Poi era arrivato anche il padre di Giuditta. Era un bell’uomo, con lo sguardo fiero e delicato nello stesso tempo. Amaldi aveva ammirato le priorità dell’uomo. Appena entrato, evidentemente avvertito dell’accaduto, si era stretto al petto la figlia, le aveva mormorato tra i capelli frasi confortanti e non l’aveva lasciata finché lei stessa non s’era sciolta dall’abbraccio. In tutto quel tempo non aveva degnato Amaldi della minima considerazione e anche dopo lo aveva fatto solo perché Giuditta li aveva presentati. Era alto come Amaldi, magro. Scattante eppure non nervoso. Gli occhi e i capelli chiari sembravano compensare la casa dell’assenza di sole e mare. Era vestito poveramente e sapeva di vino ma era dignitoso. Era stato lui a chiudere con il coperchio la scatola di cartone appoggiata sul tavolo da pranzo. Né la madre di Giuditta né Amaldi avevano avuto questa attenzione. L’aveva presa in silenzio, senza fare commenti e senza attrarre l’attenzione su di sé e l’aveva portata in un’altra stanza. Ad Amaldi era piaciuto subito, istintivamente. Si era accomiatato, prendendo con sé la scatola e il suo contenuto come prova. Aveva assicurato a Giuditta che avrebbe posto fine a quella storia. Sulla porta l’uomo l’aveva raggiunto, gli aveva stretto la mano e l’aveva ringraziato per quello che stava facendo per sua figlia. Non c’era ombra di gelosia nei suoi occhi. Né enfasi. Né servilismo. Era come se trovasse perfettamente logico che un ispettore capo della sezione omicidi si prodigasse per sua figlia, quell’inestimabile tesoro che lo rendeva un uomo fortunato e ricco. - Dottore, - aveva detto poi abbassando la-voce, - ho sentito in sindacato della sua richiesta di aiuto per la faccenda... per il ritrovamento... per le braccia di quella poveretta, insomma. Mi spiace molto che gliel’abbiano negato, - non aveva abbassato la testa, non si era proposto volontario, non si era discolpato, non aveva fatto commenti sull’ingiustizia della vita. Aveva solo detto che era dispiaciuto. Amaldi sapeva che era sincero e che quell’affermazione non aveva nulla a che fare con la vicenda di Giuditta. Lo ringraziò della solidarietà e tornando a casa aveva pensato in continuazione al volto di Giuditta, così impaurito, così addolorato. Era più bella quando rideva: Nella scatola di cartone che stringeva sotto il braccio il macabro contenuto sbatacchiava leggero a ogni passo.

Quella mattina li aveva con sé. La scatola e il contenuto. E li avrebbe fatti ingoiare al sadico.

-    È il nipote di Peschiera, l’archivista, - gli disse Frese. - È dentro con lui.

Amaldi scosse la testa e poggiò la scatola per terra. Frese la guardò.

-    Hai avuto il tempo di leggere quelle fotocopie che t’avevo dato? - domandò poi al superiore.

-    Che fotocopie?... Ah... - Amaldi si infilò una mano in tasca e ne estrasse dei fogli spiegazzati. - No, me ne sono scordato. Che cosa sono?

-    Parte A, B e C del documento relativo all’incendio dell’orfanotrofio archiviato come numero sei. Così abbiamo il tre e il sei adesso. C’è una prima dichiarazione dell’architetto che ristrutturò la villa. In sostanza dice che la signora Cascarino gli commissionò dei lavori per trasformare la villa in un orfanotrofio quattro mesi prima dell’incendio. Lui si prese un mese per fare i progetti e poi cominciarono. La donna aveva una gran fretta, a sentire l’architetto. Si presentò spontaneamente dopo l’incendio e rilasciò la dichiarazione archiviata come 6/A, cioè documento sei, parte A... - sventolò il foglio sotto il naso di Amaldi. - Segue il 6/B. Interrogatorio della signora Cascarino che negò tutto. La sua versione fu che aveva commissionato un «collegio» e non un «orfanotrofio». Una donna dura, da quel che si può capire tra le righe. Alla fine aggiunse che l’architetto era uno spasimante rifiutato e che probabilmente la diffamava per sete di vendetta, di rivalsa... Ci credi?

-    La storia del collegio sta in piedi.

-    Esatto. È quello che ho pensato anch’io. Allora perché infierire con quella storia dell’amante?

-    Potrebbe essere vera.

-    Sì, certo. Ma senti qua, - prese un altro foglio e cominciò a leggere: - Dunque... ecco: «Quell’omuncolo. ..»  Bell’inizio, eh? Che ne dici? «Quell’omuncolo si è illuso che la mia vedovanza e le mie ristrettezze economiche lo mettessero nella posizione di poter approfittare di me. Lo avrei schiacciato come un verme se non avessi avuto fretta di concludere i lavori». Che superbia, no?

-    È una nobildonna...

-    Ma non siamo nel Medioevo. «Schiacciato come un verme»... È dura come l’acciaio la signora Cascarino. Voleva infierire. Non le bastava vincere. Voleva «schiacciarlo come un verme», ecco perché ha rilasciato questa dichiarazione.

-    E allora?

-    6/C. Controinterrogatorio dell’architetto. Non sto a leggertelo ma gli hanno fatto un culo grosso così. A lei l’hanno trattata in guanti bianchi. Alla fine l’architetto è crollato. Ha ammesso che forse si era sbagliato, che forse la signora Cascarino aveva detto davvero «collegio» e non «orfanotrofio»... Insomma ha ritrattato. Però ha continuato a negare di aver fatto la corte alla donna.

-    Stai perdendo la tua obiettività, Nicola. Non c’è nulla di strano in quello che mi dici.

-    Invece ci sono molte cose strane. Tanto per iniziare: ho ritrovato il primo documento nella cartella di Augusto Ajaccio, un nostro agente che guarda caso era anche uno degli orfani scampati all’incendio e poi ospite di villa Cascarino. Una coincidenza? La scheda di Ajaccio è stata aperta quando è stato assunto, quasi dieci anni dopo l’incendio. Come ci è finito lì quel documento? È stato inserito in seguito. Ma quanto dopo? La scheda viene aggiornata con lo stato di servizio. Io l’ho sfogliata per controllare le sue pratiche assicurative e sono venuti fuori i progetti di ristrutturazione. Sarebbe successo a chiunque. Quindi è ragionevole supporre che sia stata messa lì di recente. Secondo: il documento sei, questo di cui ti ho parlato, era nella pratica Farhid. Te la ricordi? È quell’indiana che ha ammazzato il marito e il figlio con un’ascia e poi si è suicidata col gas facendo esplodere mezzo palazzo. Due anni fa. Archiviata due anni fa. Stessa domanda: come faceva un documento di trentacinque anni prima a trovarsi in un fascicolo tanto recente? Risposta: ce l’ha messo qualcuno.

-    Perché?

-    Ecco. La stranezza vera è questa: vuoi fare una cosa sporca? Illecita? D’accordo, facciamo finta che ci sia una valida ragione. O che non ci sia, è lo stesso. Rimane il fatto che vuoi fare una cosa sporca. Quindi fai sparire la testimonianza dell’architetto dalla pratica dell’orfanotrofio. Perché non la distruggi? Perché la infili in un altro fascicolo a caso? Prima o poi qualche stronzo come me la ritroverà e tu sai, devi sapere, che una cosa del genere farà sorgere dei sospetti. Perché qualcuno ha fatto il giochino di spostare i documenti e basta? Senza distruggerli. È come se, affidando la decisione al destino, volesse essere scoperto, prima o poi...

La porta della stanza degli interrogatori si aprì. L’archivista Peschiera uscì a testa bassa. Si massaggiava una mano, pensieroso. Frese e Amaldi videro che il ciccione, ancora seduto, si tamponava il naso con un fazzoletto sporco di sangue. Piangeva.

-    Ha ammesso tutto, - iniziò con voce mesta l’archivista. - È stato lui a fare le telefonate e a mandare quei messaggi... dice che la ragazza gli piace ma che lei non lo guarda nemmeno...

-    Sai quante donne non mi guardano però... - iniziò Frese.

Amaldi gli mise una mano sul braccio. Frese si azzittì.

-    Lo so, - riprese l’archivista sempre a testa bassa. - Lo so... Gliele ho suonate di santa ragione... Ma è mio nipote, l’ho tenuto in braccio quando era piccolo... è l’unico figlio di mia sorella... - Gli occhi porcini si velarono di lacrime, i lunghi denti gialli mordevano il labbro inferiore.

-    E per la faccenda del gatto? - domandò Amaldi in tono neutro.

L’archivista scosse il capo e fece una smorfia che doveva essere un sorriso.

-    Non era un gatto vero... Dice che vede sempre la ragazza che allatta il gattino fuori dell’università. Ha preso un gatto di pezza che gli avevo regalato quando era piccolo, ci ha infilato dentro un teschio e delle ossa di coniglio e qualche pezzo di carne... poi gli ha dato fuoco con la benzina. Muffa non è cattivo... è solo un cretino. Il gattino vero ce l’ha a casa. Non gli ha fatto nulla e lo tratta bene. Gli ha solo rasato un po’ di pelo per rendere più credibile il finto cadavere... -L’archivista alzò per la prima volta il capo e guardò supplichevole Amaldi. - Che cosa gli farete?

Amaldi rifletté per un attimo, guardando la scatola di cartone ai suoi piedi con occhi diversi.

-    La ragazza ha sporto denuncia contro ignoti, anche se sospettava che fosse tuo nipote... e aveva ragione. La notizia che il gatto è vivo dovrebbe tranquillizzarla e forse convincerla a ritirare la denuncia. In questo caso... - guardò Frese. - Tu che ne dici?

-    Come la mettiamo con le telefonate e il resto?

-    Se sua madre viene a sapere una cosa del genere le si spacca il cuore in due, - fece l’archivista. - Gli ho giurato che se ci riprova l’ammazzo...

-    E Muffa che ha detto? - domandò Frese.

-    Ci ha creduto. Non l’avevo mai picchiato prima d’ora. Ho la mano pesante...

-    Stavo pensando... - disse Frese rivolto ad Amaldi, - ... per quella faccenda dei documenti dell’orfanotrofio. .. Peschiera ha un sacco di lavoro da fare. Se trovassimo qualcuno che gli dà una mano? Cartaccia piena di polvere... un lavoro da minatore in un ambiente di merda frequentato solo da poliziotti... E Peschiera potrebbe dargli una bella raddrizzata avendolo sempre sotto mano. Che ne dici?

Amaldi notò che gli occhi dell’archivista si illuminavano.

-    Stai attento che il commissario non se ne accorga e che tuo nipote non si faccia male. Passeremmo tutti dei brutti guai, - gli disse.

-    Grazie, ispettore. E si presenterà a casa della ragazza con un mazzo di fiori e le chiederà scusa.

-    Magari evitiamo il mazzo di fiori, - disse Frese e Amaldi annui. - E comunque accompagnalo tu, in divisa, dopo averla avvertita.

-    Sì, certo, giusto, - fece l’archivista.

-    Un’ultima cosa: portalo a puttane. È sempre meglio di niente, - poi Frese si affacciò nella stanza. - Muffa, levati dai coglioni.

Il ciccione, sempre tenendosi il fazzoletto premuto sul naso, si alzò dalla sedia e passò davanti ad Amaldi e a Frese. L’ispettore capo e il vice non lo guardarono. Mentre si allontanava con lo zio notarono che aveva i pantaloni bagnati. Si lasciava dietro una sgradevole scia d’urina.

-    Ti aveva chiesto di andare al bagno? - domandò Amaldi all’agente che l’aveva in custodia.

-    Sì... però... - cominciò quello.

-    Credi che la donna delle pulizie sia la tua serva? -lo interruppe Frese. - Adesso lo lavi tu quel piscio lì dentro. E butta pure questa scatola. Andiamocene, - fece ad Amaldi e lo sospinse per un braccio lungo il corridoio. Non erano ancora arrivati all’ascensore che sentirono l’agente che dava un calcio al muro.

-    Perché ti piace fregarli così? - domandò Amaldi che aveva capito tutto.

-    Devono crescere in fretta. Non voglio trovarli con un coltello tra le scapole solo perché si sono fidati di un disgraziato dall’aria innocua.

-    Ti dovrebbero fare commissario, - disse Amaldi con sincerità.

-    Ma vaffanculo, - rispose Frese inciampando.