XXII.

-    Forse era tutto vero... - stava dicendo Frese ad Amaldi. - Forse è vero che non si è scritto lui sul petto... E non dirmi che questo modo di scrivere è solo un caso... una coincidenza...

Amaldi era a testa china sul foglio. Solo sei lettere maiuscole da combinare insieme. Prese un biglietto di carta e le trascrisse. La j lo attrasse subito. Il resto fu facile.

-    Ha detto notifica? - esclamò alzando la testa verso Frese.

Il vice annuì.

Amaldi, senza dire una parola gli mostrò la soluzione del rebus.

Frese la lesse.

-style="font-variant:small-caps;">    j-u-s-t-i-c, - scandì. - Justic. Viviana Justic, l’antiquaria. Merda!

-    La notifica di cosa? La notifica di morte per Viviana Justic? La scritta sul petto di Ajaccio è avvenuta prima che l’ammazzasse, vero?

-    Non può essere stato Ajaccio.

-    No... ma c’entra qualcosa.

I due poliziotti rimasero silenziosi per qualche istante. Stavano cercando i collegamenti, la chiave che avrebbe aperto la serratura e dischiuso la porta. Amaldi riprese la frase lasciata dall’assassino sulla porta dell’antiquaria.

-    Quindi queste lettere sono un nome, - disse.

-    Forse, - gli fece eco Frese.

-    È un nome. Ma questa volta è più difficile da comprendere.

-    Se è una notifica, come la chiama Ajaccio, allora credo che lo scopriremo solo quando avrà colpito.

Amaldi gli lanciò un’occhiata furibonda. Sapeva che Frese aveva ragione.

-    Da dove cominciamo? - chiese il vice.

Amaldi non rispose. L’occhio gli era caduto su una pila di fogli e qualcosa aveva risvegliato la sua attenzione. Come un campanello di allarme. Alzò la mano aperta verso Frese facendogli segno di tacere. Poi prese i fogli e cominciò a scorrerli velocemente, in cerca di qualcosa che gli era sfuggito. Il collegamento era avvenuto, sapeva come procedere. Non serviva andare piano. Quando avesse trovato quel che cercava l’avrebbe riconosciuto. Passarono cinque minuti poi puntò il dito su un foglio.

-    Lo sapevo !

-    Cosa?

-    Un’altra coincidenza, - disse Amaldi porgendo il foglio a Frese. - Questo è il fascicolo dell’inchiesta sulla «Strage delle Risaie». Me l’ero fatto spedire per... be’, lo sai perché. Siamo stati fortunati. E bisogna sfruttarla questa fortuna. L’hai individuato?

-    Cosa?

-    C’è un elenco di oggetti ritrovati lontano dal luogo del delitto. Lo vedi? Su quelle cose c’erano le stesse impronte dell’assassino. Leggi.

-    «Cinque trappole di diverse dimensioni, metallo e legno...»

-    Vai avanti, salta le descrizioni.

-    «Tre barattoli di collante resinoso... due sacchi, uno colorato, l’altro... Contenuto... esche vive, lacci, un cappello, guanti, due coltelli, un rocchetto di filo. .. »

-    Fermo, - lo interruppe Amaldi. - Leggi la nota.

Frese fece scorrere gli occhi verso il fondo del foglio.

-    Cazzo! - esclamò. - «Il rocchetto, sottoposto ad analisi, è stato identificato come refe, un filo di lino ritorto, generalmente usato dai tassidermisti». Porca troia, è lui?

-    Lo stesso filo usato per martoriare l’antiquaria. Un filo raro, adoperato solo dagli impagliatori. Tu che ne dici? È lui o no?

Frese si grattò la testa.

-    Il caso è loro.

-    Non ci pensare nemmeno! - scattò Amaldi.

-    Ha iniziato lì.

-    Ma continuerà qui! Lì è stato un incidente. Era lì per cacciare animali, non persone. È stato un raptus. Ha fatto un lavoro sporco, disordinato... che però gli ha aperto gli occhi sulla sua natura. La ragazza col seno fasciato. Asportato e rimesso a posto. È questo che l’ha fatto entrare in contatto con la parte buia del suo essere. Ma per una fatalità. Ora invece non si affida più al caso. Non lascia impronte, segue un rituale, organizza la scena del delitto, crea una rappresentazione. .. e ora sappiamo anche che lascia una notifica. Non per noi. Per la vittima successiva...

Di nuovo scese il silenzio.

-    Metti sotto un po’ di uomini. Che cerchino di tirare fuori un nome da quelle lettere.

-    Può essere un nome qualsiasi.

-    Lo so! Lo so... ma dobbiamo provarci, - rifletté un attimo. - Digli di procedere in questo modo: potrebbe essere solo il cognome, come nel caso di Viviana Justic, ma sedici lettere mi sembrano troppe. Perciò partiamo dall’eventualità che questa volta abbia scritto nome e cognome per complicarci l’indovinello. Per prima cosa devono trovare tutti i nomi propri che si formano con quelle sedici lettere. Nomi di donne. Cominciamo a supporre che il suo problema siano le donne... o una donna. Nomi di donna, sì, dobbiamo rischiare. Con le lettere che rimangono devono cercare di risalire al cognome. A tutti i cognomi che riescono a formare. E poi devono sfogliare l’elenco e verificare se al nome proprio corrisponde il cognome.

-    Ma ci saranno centinaia di combinazioni.

-    Cosa vuoi fare? Arrenderti? Aspettare che ne ammazzi un’altra senza averci almeno provato?

-    No... certo. Vado, - e Frese uscì.

Amaldi lo sentì sbraitare in corridoio. Sapeva che Frese avrebbe messo al lavoro tutti gli agenti disponibili nonostante il suo scetticismo. Ora bisognava risolvere il problema Ajaccio. Cosa c’entrava con l’assassino? In che modo erano collegati? Amaldi si infilò il cappotto e si avviò verso l’uscita diretto all’ospedale. Non era orario di visita ma avrebbe fatto valere la sua autorità, se necessario.

Per strada si rese subito conto che la situazione creata dallo sciopero dell’immondizia non era più sotto controllo. Le previsioni delle forze dell’ordine avevano trovato un’allarmante conferma nelle ultime ore. Nel giro di soli venti giorni ogni strada, anche la più desolata, così come la più signorile o la più trafficata, era stata invasa da quintali di immondizia. Nessuno, durante i primi giorni di sciopero, aveva accolto l’invito del sindaco di limitare gli sprechi e di controllare gli scarti. Sembrava che tutti avessero anzi un atteggiamento di sfida. Quasi che con le loro buste di plastica nere, gialle, azzurre, e poi cartoni e scatole e sedie vecchie e frigoriferi rotti, volessero dire: «Vedremo se domani non farete qualcosa, vedremo», e indignati ammucchiavano sporcizia su sporcizia. Ma neanche un solo cittadino aveva previsto che gli scarti fetidi di una comunità così grande fossero capaci di bloccare e far impazzire la città stessa. Forse gli unici in grado di calcolare il peso dell'immondizia di due, tre, sette, dieci giorni, erano gli spazzini in sciopero. Eppure si guardarono bene dall’ammonire la popolazione. «È quel che vogliamo. Così finalmente capiranno quanto è importante il nostro lavoro», dicevano a loro volta. Ma se anche fossero stati capaci di calcolare che in una settimana la città si sarebbe riempita di chissà quante tonnellate di spazzatura, sicuramente non erano stati in grado di visualizzare lo spazio che quei rifiuti avrebbero occupato dopo venti giorni di braccio di ferro. Perciò dopo quei venti giorni tutta la città, come un sol uomo, scendendo in strada, sgranò gli occhi, incredula di fronte a quell’oceano maleodorante. Se all’inizio i negozianti, per esempio, si erano dati da fare come potevano sgombrando il marciapiede davanti al loro esercizio, accollandosi personalmente il peso spesso sporco, unto e viscido e depositando i rifiuti in una stradetta laterale, dopo pochi giorni si erano dovuti arrendere. I provvisori scarichi erano colmi; le macchine agganciavano le buste e le disperdevano sull’asfalto peggiorando il problema dell’odore; gli abitanti si erano aggregati, strada per strada, palazzo per palazzo, e difendevano strenuamente il loro già devastato territorio. Alla noncuranza e all’incoscienza iniziale era seguita la provocazione. E adesso la cittadinanza era furente. Chiunque venisse avvistato con una busta in mano doveva scontrarsi con sguardi ostili e frasi schiumanti rabbia, nel migliore dei casi. Già si registravano scontri violenti e gravi episodi di intolleranza. I più giovani, i più forti, che dapprima si erano organizzati nella loro propria zona, ora si vendevano come mercenari. Le «milizie della pattumiera» presidiavano piccoli tratti di strade o interi isolati, armate di catene e bastoni. Dopo le prime sensazionalistiche notizie date a tutta pagina dai giornali, in molti compresero che poteva essere un buon affare tanto disegnare una mappa delle zone protette a uso e consumo di chi non volesse rischiare pestaggi quanto creare una vera e propria organizzazione di vigilantes. Di tutto questo le forze dell’ordine non s’erano accorte, o avevano sottovalutato il problema, finché era stato troppo tardi. In breve, paradossalmente, le famiglie dalle quali provenivano i primi mercenari furono costrette a pagare altri mercenari perché sorvegliassero la loro zona. A mano a mano che il cerchio si stringeva e la città si saturava di zone presidiate e si sguarniva di isole libere, l’ingegno umano, che non ha limiti nel trovare scappatoie pur senza risolvere mai il problema, diede una nuova svolta alla guerra dell’immondìzia, come ormai tutti la chiamavano. Gli stessi mercenari si offrirono, a fronte di una maggiorazione del loro premio, di fare spedizioni inquinanti anche in territori protetti. Gli intrepidi squadroni si procurarono camion che riempivano di rifiuti durante il giorno e nottetempo forzavano a tutta velocità i blocchi nemici e lasciavano sul campo di battaglia i loro proiettili flatulenti. Il perché nessuno, o quasi nessuno, si prendesse la briga di fare solo qualche chilometro in più e scaricare l’immondizia tranquillamente e pacificamente a mare o in campagna nessuno lo capì mai. Molti psicologi scrissero saggi e articoli sull’intrinseca necessità dell’uomo di far la guerra che li resero popolari. Si lanciarono in avventurose descrizioni dell’animo e dell’inconscio, cercarono nella rabbia e nella frustrazione i motivi scatenanti, ma nessuna tesi spiegò mai in modo convincente perché, alla fine dello sciopero, si contassero più di trecento feriti. Un giornalista scrisse, in piena crisi: «LA CITTÀ È IMPAZZITA». E non c’era null'altro da dire. Le persone arrestate e quelle intervistate in seguito risposero quasi all’unanimità la stessa cosa, come se recitassero un copione concordato. Tutti quanti si ostinarono a dire che la guerriglia urbana aveva una sua logica nella necessità di sopravvivenza dei cittadini. Portare i rifiuti al di fuori della città e magari anche bruciarli, invece, sarebbe stato un modo di piegarsi all’inettitudine dell’amministrazione e affrancarla dalle sue colpe. Ciò che fu evidente, quindi, è che per quanto i singoli cittadini si combattessero, con tutti i mezzi, anche i più sleali, per quanto avessero ideato il perverso meccanismo dei mercenari e scatenato la guerra dell’immondizia, in fondo si sentivano affratellata parte lesa, ben decisa a rimanere tale. Lo Stato oppressore, al di sopra d’ogni disputa, era il colpevole.

Amaldi tornò rapidamente in commissariato e chiese una macchina. Non era affatto prudente aggirarsi per la città da solo, senza scorta. Il suo volto, a causa dell’omicidio dell’antiquaria, era apparso in continuazione su televisioni e giornali. Qualche cittadino esasperato era capacissimo di prendersela con lui e Amal di non aveva la minima intenzione di correre quel pericolo. Quando la macchina fu pronta si sedette nel posto davanti e disse all’agente di portarlo all’ospedale. Una volta a destinazione gli consigliò di parcheggiare nella zona riservata alle autoambulanze e possibilmente senza dare troppo nell’occhio.

-    Ci dobbiamo addirittura nascondere? - chiese il giovane agente, con orgoglio.

-    Non fare l’eroe, - lo ammonì Amaldi. - Mi devi riportare indietro.

Appena entrato nell’ingresso Amaldi fu affrontato da un’infermiera che lo bloccò, ricordandogli che non era orario di visita.

Amaldi le mostrò il tesserino di riconoscimento.

-    E allora? - fece l’infermiera continuando a limarsi le unghie.

-    Mi spari, - disse Amaldi perdendo la pazienza e avviandosi verso gli ascensori.

L’infermiera scrollò il capo, posò la limetta e aprì una boccetta di smalto rosso fuoco.

Mentre aspettava l’ascensore Amaldi si girò verso il corridoio del primo piano. La riconobbe subito, anche se era di spalle. Le lunghe gambe che spuntavano dal camice da infermiera, i capelli lisci che si appoggiavano alle spalle. Sentì una fitta dolorosa e la tentazione di voltarsi, di nascondersi. Di scappare. La lettera che le aveva scritto era un atto d’amore. D’amore e di vigliaccheria, s’era detto. D’amore perché voleva evitarle di soffrire. Di vigliaccheria perché non pensava di avere la forza di staccarsi dal suo fantasma, dalla sua ossessione. E perché non era certo di voler tornare a vivere.

Giuditta salutò una suora e si avviò verso una porta. Per un attimo Amaldi la vide in viso. Gli occhi di Giuditta erano arrossati dalle lacrime, i capelli avevano un’aria sporca e tutta la sua persona era spenta, come se la luce la evitasse. Amaldi provò una gran pena e il desiderio di raggiungerla e consolarla. Mosse anche un passo. Ma poi la porta dell’ascensore dietro di lui si aprì, Amaldi si voltò e quando tornò a guardare nel corridoio Giuditta era scomparsa. Con un peso nel cuore Amaldi si infilò nell’ascensore e pigiò il pulsante del quarto piano.

-    Giuditta, - mormorò.

Poi l’ascensore, con uno scossone, si fermò. Amaldi varcò la porta a chiusura automatica e svoltò a destra. Il corridoio ampio e lungo era invaso da degenti e infermieri. Quasi tutti avevano una sigaretta in bocca, aspiravano avidamente e controllavano il mozzicone che si consumava. Intorno ai posacenere, al di sopra dei quali era affisso un cartello che vietava il fumo, si concentrava il maggior numero di persone. Erano magri, la carnagione giallastra. Lungo il corridoio, a destra, alte finestre incassate nelle rientranze dei muri massicci; a sinistra, tre porte a doppia anta che immettevano nelle camerate. Il corridoio, in fondo, incrociava un altro corridoio, più piccolo e più buio, sul quale si affacciavano le porte delle stanze singole. Amaldi arrivò alla 423, bussò ed entrò senza aspettare una risposta. Il letto di Ajaccio, sfatto, era vuoto.

-    Desidera? - disse una voce alle sue spalle.

Amaldi si girò.

-    Cercavo l’agente Ajaccio, - rispose.

-    Non è orario di visita, - disse l’infermiera.

-    Sì, lo so. Ma è urgente.

-    Non sono ammesse...

-    Polizia, - e Amaldi le mostrò il tesserino. - Dov’è Ajaccio?

-    È in roentgenterapia, - rispose infastidita l’infermiera. - Io devo rifare la stanza. Se lo vuole aspettare ci metterà almeno un’ora -. Guardò Amaldi con un’espressione di sfida. - E non si può entrare in sala raggi. Nemmeno i poliziotti, - aggiunse con un sorriso di trionfo.

Amaldi si guardò in giro. La stanza era cambiata radicalmente dall’ultima volta che l’aveva vista. Aveva assunto una personalità per l’intervento di Ajaccio. Libri che s’ammucchiavano sul letto vuoto, ritagli di giornale infilati nelle cornici di due anonime stampe appese al muro, numeri scritti con una grossa matita sulla parete illuminata dal sole che filtrava attraverso le veneziane e che formavano una rudimentale meridiana. Tutto dava l’idea di uno spazio operativo. Non era la consueta zona di passiva e disperata attesa della morte. Frese non gliel’aveva descritta. Amaldi guardò interrogativamente l’infermiera, che aspettava con i pugni piantati sulle anche forti.

-    Ha detto che pagate voi. Che siete una grande famiglia:..

-    Ha detto proprio così? - chiese sorridendo Amaldi.

-    Sì, e ha aggiunto che se non ci sta bene possiamo ammazzarlo.

Amaldi si fece serio. - Già... - disse.

-    È un brav’uomo... gentile.

-    Sì...

Amaldi si girò per andarsene e allora vide le foto appese alla porta, tutte uguali, con lo stesso soggetto e lo stesso sfondo, ognuna contrassegnata dalla data e dall’ora in cui era stata impressionata.

-    Gliela sono andata a comprare io la macchina fotografica... L’ha voluta con l’autoscatto, sa di quelle che fanno subito la foto...

Amaldi si avvicinò di più alle immagini. Erano state scattate a poche ore di distanza le une dalle altre. Come se Ajaccio stesse cercando di cronometrare e registrare i propri cambiamenti, pensò Amaldi. Il disfacimento del suo corpo. Probabilmente le confrontava tra loro e ne ricavava un diagramma che aveva valore solo per lui. Un documento che attestava il suo progressivo morire. Era una cosa macabra. Ma forse comprensibile.

-    Le ore per il signor Ajaccio, — disse l’infermiera con una voce triste, - sono diventate improvvisamente importanti. Le ore sono giorni per lui, adesso.

«Un modo per allungarsi la vita», pensò Amaldi e se ne andò, senza nemmeno salutare l’infermiera.

Giunto al piano terra lasciò vagare lo sguardo per il corridoio dove aveva visto Giuditta, poi abbassò il capo e tornò verso il suo ufficio.