XX.
Il tavolo sul quale era chino il professor Avildsen era macchiato di sangue, scuro e appiccicoso. L’odore che impregnava il laboratorio era disgustoso. Le finestre chiuse lo trattenevano e l’umido lo esaltava. Intento al suo lavoro il professor Avildsen ripercorreva la sua vita passata, con dolorosa nostalgia, riaprendo quella ferita lontana d’essere nato. Cominciò a piangere, i fili ingarbugliati dei ricordi e delle emozioni che si scioglievano. Le lacrime nere della colpa gli rigavano il viso e si disperdevano tra la barba castana e rossiccia.
Adesso sapeva, come aveva sempre saputo, cos’era la sua terribile debolezza. Ma solo ora, con un glorioso disegno in mano, con un presente che giustificava il suo passato e un luminoso futuro che l’avrebbe riscattato, solo ora poteva guardarla in volto.
Praticò due piccole incisioni sulla parte superiore della gamba destra che aveva asportato alla dottoressa Cerusico, una all’interno e una all’esterno della coscia. Poi scostò l’epidermide dalla carne, con cautela, aiutandosi con un bisturi. Fissò il muscolo scoperto e la testa del femore a una morsa ancorata alla parete, afferrò saldamente la pelle e cominciò lentamente a tirare. Nel laboratorio echeggiò un fastidioso rumore, discontinuo, come di un nastro adesivo che non volesse scollarsi.
L’epidermide, in pochi minuti, si sfilò e rovesciò come una calza, senza la minima lacerazione. Il professor Avildsen prese con delicatezza la calza insanguinata, concentrato nel suo rituale di corteggiamento, e la ripulì delle impurità carnose che erano rimaste attaccate durante lo strappo. Poi la mise al dritto e la spalmò con una pomata a base di allume, arsenico e sapone che aveva il compito di conservarla e ammorbidirla. Sganciò dalla morsa la gamba ormai nuda e rossa e ripetè con successo l’operazione anche per la gamba sinistra. Dopo aver «messo in pelle» le sue prede, come si diceva nel gergo degli imbalsamatori, le imbottì grossolanamente di stoppa in attesa che venisse il momento di montarle e le pose a seccare sotto una potente lampada a raggi infrarossi. Con una lente d’ingrandimento ispezionò ogni centimetro di epidermide e notò che la peluria, dal giorno in cui aveva prelevato le gambe, era cresciuta di qualche millimetro. Preparò una soluzione per rafforzare le inserzioni dei peli e fissarne il bulbo. Poi le spugnò.
Mentre attendeva che s’asciugassero le misurò. Come ogni buon imbalsamatore il professor Avildsen ne aveva valutato le dimensioni quando erano ancora fresche. Confrontò i dati per controllare che non si stessero restringendo e ritirando com’era successo per le braccia dell’antiquaria. Quando vide che le misure coincidevano tirò un sospiro di sollievo. Come aveva previsto, la dottoressa Cerusico, la donna che aveva nutrito il sangue sua madre, che l’aveva toccata e ispezionata così tante volte da impregnarsi fino in fondo di lei, aveva la pelle più resistente dell’antiquaria. Meno pregiata, forse, ma più adatta all’utilizzo che il tassidermista si prefiggeva.
Il professor Avildsen guardò con fastidio quelle braccia più corte di quasi quindici centimetri e più magre che aveva ormai terminato. I problemi erano nati già durante la «messa in pelle». L’epidermide si era lacerata in molti punti e ora era lucida di collante là dove aveva dovuto rattopparla. La concia successiva l’aveva solo parzialmente protetta. Era così sottile che la difficoltà maggiore era stata spianare tutte le grinze che nella fase del riempimento e del montaggio definitivo si andavano formando. Il professor Avildsen si portò una mano dell’antiquaria al volto e si lasciò accarezzare una guancia. Il tocco era rigido ma leggero, vellutato. Sentì un fremito e subito si staccò dall’abbraccio. Gli occhi tornarono a inumidirsi e le dita della mano destra cercarono il moncherino della sinistra, confortandolo con un massaggio. Abbassò il braccio dell’antiquaria e notò compiaciuto che gli snodi funzionavano a meraviglia. Quello del polso, quello del gomito e l’inserzione della spalla. Poi tornò a massaggiarsi ciò che restava del mignolo, quella piccola, gialla escrescenza che era tutto il suo mondo. Che gli aveva svelato il piacere della sofferenza.
Il professor Avildsen ritornò alla sua infanzia. Come risucchiato in un gorgo. Ma adesso non aveva più paura di affogare. Aveva il suo disegno, il suo grandioso disegno. Ricordò la bambola della madre, severa eppure violabile. E pensò alla madre nel suo letto d’ospedale, profumata di disinfettanti, pura e asettica, ora. Immobile, severa eppure violabile come la bambola. «Sei come lei, adesso», pensò con un brivido di antica paura. La bambola che un tempo occupava la poltrona della madre, in sua assenza. Le dita grassocce e fragili, i capelli biondi arricciati intorno all’ovale paffuto del viso inespressivo e i vestiti di velluto sotto i quali svolazzavano delicati pizzi in miniatura. E la pelle scivolosa, di gesso. La bambola crudele che lo sorvegliava mentre studiava o quando era in punizione, segregato all’interno della sua stessa segregazione, perché era stato cattivo o aveva pensato qualcosa di brutto. La bambola che lo tradiva con i suoi occhi azzurri di vetro. La bambola seduta rigida sul piano della scrivania, le gambe larghe che si lasciavano spiare fino alle mutandine di pizzo, le palpebre che si socchiudevano, velando gli occhi, ogni volta che veniva inclinata. Le •palpebre della bambola, ladra di pensieri, si socchiudevano e si socchiudevano e si socchiudevano.
Rivide l’immagine veloce di quella prima volta, quando, chino su un libro d’arte, di fronte a un puttino con gli occhi affilati che stringeva tra due dita il capezzolo di una donna, facendone uscire delle gocce di latte che si spargevano sul Mondo, scoprì che quel piccolo grumo di carne bianca e molle che aveva tra le gambe era dotato di vita propria, che improvvisamente si muoveva, senza che lui si potesse opporre, forzando le mutande di cotone, spingendo la stoffa dei calzoni, tirando i bottoni. Più per meraviglia che per coscienza di ciò che stava avvenendo liberò lo sconosciuto, lasciando che sbocciasse all’aria aperta. Aveva un che di ridicolo e lui si sentiva pieno d’una strana e nuova euforia. Le mani erano aperte, immobilizzate ai lati della pulsante scoperta, pronte a catturarla nel caso in cui avesse deciso di fuggire. Ma non successe niente di tutto questo: non era in grado di scappare né tantomeno così autosufficiente come inizialmente aveva supposto. Vibrava nell’aria come una preghiera inespressa e lui sentiva che doveva far qualcosa ma non sapeva ancora cosa; era una preghiera, accorata, seducente, forse un po’ fastidiosa, insistente. Chiedeva aiuto ma senza spiegarsi. Dopo molti minuti di estatica contemplazione lo sguardo tornò al quadro che l’aveva eccitato ed egli notò che la donna raffigurata assomigliava alla bambola, la stessa pelle bianca di talco, e che lui aveva le fattezze del puttino, identici riflessi ramati nei capelli, dita lunghe e affusolate, lo sguardo languido. Allora, per una illogica associazione mentale, atteggiò due dita come quelle del puttino e strinse il suo gracile membro bambino. Il semplice contatto della carne con la carne produsse un miracolo. Le palpebre gli si socchiusero. Vide due piccole gocce di latte, proprio come quelle che schizzavano dal seno della donna, depositarglisi sulle dita. Fu solo un istante. La bambola lo guardava. Si sentì sporco come le dita. Lei aveva visto tutto. Allora la spinse da parte, toccandola per la prima volta in vita sua. La bambola, inclinandosi, socchiuse le palpebre. Una piccola goccia di latte le si era appiccicata al vestito di velluto. La strofinò energicamente per pulirla, lui che mai l’aveva toccata, toccandola e ancora toccandola. Sotto la stoffa morbida avvertì una sporgenza dura. E un’altra sul lato opposto del petto. Tastò ancora e ancora e ancora finché comparve un’altra erezione. Le due dita appiccicose, e poi tutta la mano, si strinsero intorno al pene, e con l’altra continuò a strofinare il minuscolo capezzolo della bambola finché tutti e due socchiusero le palpebre, insieme, contemporaneamente. In cuor suo lo sapeva sin da quel pomeriggio che la bambola l’avrebbe tradito, che le bambole non erano buone, che avrebbe socchiuso le palpebre di piacere mentre lui la toccava ma che non sarebbe stata sua complice. Godettero insieme ancora. La bambola scese dalla scrivania e lo aiutò con le sue piccole mani di gesso, con le sue cosce dure e presto scivolose. Il velluto cominciò a logorarsi e a diventare ruvido del latte di lui in corrispondenza dei capezzoli di gesso.
Poi, mentre la madre apriva la porta della camera, la bambola si ritrasse, urlando. Cadde sul pavimento, le gambe di gesso si ruppero rivelando le mutandine di pizzo oscenamente violate, un occhio rotolò fuori dell’orbita, la tempia immacolata, sotto la capigliatura bionda, s’incrinò e un braccio puntava in alto, indicandolo e accusandolo. La madre si chinò a raccogliere la bambola, premurosamente. Lui vide che la bambola non sanguinava là dov’era ferita. S’accorse che l’involucro di gesso era riempito di stoppa. Migliaia di fili aggrovigliati erano l’anima della bambola che l’aveva tradito.
Il fascio di raggi infrarossi si spense. Il professor Avildsen riemerse dai suoi ricordi. Si avvicinò alle due pelli. Le accarezzò. Questa volta l’operazione era riuscita perfettamente. Le svuotò della stoppa. Poi prese da un bancone due armature metalliche, leggere, con degli snodi oliati all’altezza delle caviglie e del ginocchio. Sulla porzione superiore delle due armature era stato saldato un perno che doveva sostituire l’articolazione dell’anca. Con mosse abili, dopo averle riempite con della stoppa nuova e pulita, ricoprì le impalcature di uno strato sottile di plastilina, che aveva sempre preferito al gesso, troppo rigido e fragile, e modellò le forme dei muscoli. Poi, con estrema delicatezza, infilò la calza di pelle sopra ognuna delle armature. Dovette praticare una leggera incisione all’altezza del ginocchio, nella parte posteriore, per permettere alla pelle di superare il diametro del polpaccio robusto. Infine ricucì l’incisione con invisibili punti di sutura. Il filo usato era refe, sottile e resistente. Per ultimo fece aderire alla perfezione la pelle allo strato sottostante di plastilina modellandola delicatamente, come se stesse massaggiando le gambe della dottoressa Cerusico. Con dolcezza infinita. Con amore. Con trasporto. Con la perizia di un amante navigato.
Quando era con i suoi animali senza cuore né viscere il professor Avildsen tornava bambino. La sua vita stessa era come impagliata, per nulla compromettente. Un’ottima imitazione di vita. Un sogno impagliato. Un ricordo impagliato. Emozioni e sentimenti impagliati. I suoi desideri non divenivano mai pericolosi e se non riusciva a sentirsi felice certo realizzava un’impagliata serenità.
Ma da quando aveva compreso il grandioso disegno che si portava dentro sin dalla nascita aveva trovato se stesso. La sua anima non era più impagliata, imprigionata da un’armatura metallica, tenuta insieme da una sutura di refe. Adesso era libero. E mentre accarezzava e ancora accarezzava le gambe lisce della dottoressa Cerusico e ne provava gli snodi e controllava che grado di tensione fosse capace di sopportare la pelle scuoiata, il professor Avildsen si rammaricava di non aver trovato nessuno, tanti anni prima, che amasse il proprio lavoro come lui, che ne comprendesse le sfumature e che avesse un innato senso estetico. Se la suora che gli aveva rammendato il mignolo avesse avuto la sua stessa passione, il moncherino sarebbe sembrato meno sgraziato, avrebbe potuto avere una fisionomia meno ributtante. Passò il mignolo lungo la coscia impagliata e provò un brivido all’inguine, caldo come una ferita, confortante come una carezza. Pericoloso come una bambola.
La madre, dopo aver raccolto i pezzi della bambola, e averla sentita viscida, aveva puntato lo sguardo sul figlio. Gli aveva scoperto negli occhi, prima ancora che nei pantaloni slacciati, la colpa e la sporcizia. Lo aveva fatto alzare dalla sedia, lo aveva portato all’armadio della stanza, aveva aperto lo sportello con lo specchio e mostrato il depravato al depravato. Il bambino s’era visto riflesso, le mani abbarbicate al pene in un abbraccio osceno.
Il professor Avildsen ebbe un conato di vomito, al ricordo. E ancora un fremito. Pensò al vecchio laido che aveva sorpreso nelle risaie tre domeniche prima, quando era iniziato a rotolare l’enorme carico accumulato dal suo destino, a velocità incredibile, come se per tutti quegli anni avesse aspettato solo un segno, una voce, per svegliarsi e agire.
La madre lo aveva scosso, gli aveva strappato le mani all’abbraccio, gli aveva richiuso i pantaloni, toccandolo oltre la stoffa umida. Lo aveva portato in una stanzetta buia, dove il giardiniere teneva gli attrezzi per le piccole riparazioni in casa. Aveva frugato rabbiosa finché aveva trovato quel che le serviva. Fil di ferro e stecche di legno. Dieci stecche, di legno, una per ogni dito delle due mani colpevoli dell’oltraggio. Le aveva fissate alle dita col fil di ferro, stringendole con una pinza, finché il metallo aveva lacerato la pelle. Insensibile agli strilli del bambino. Poi, dopo avergli immobilizzato le mani, era uscita dal ripostiglio, aveva spento la luce e l’aveva chiuso dentro. Lui aveva gridato, implorato, battuto le mani artigliate dal fil di ferro contro la porta. Poi aveva cominciato a piangere. A mordere il metallo.
Il professor Avildsen si scosse. Ogni giorno, davanti a sé, a pochi centimetri dal viso rigato di lacrime, aveva ancora quella porta chiusa, soprattutto di notte, al buio. Il diaframma che la madre aveva alzato tra sé e lui, per sempre, da allora. Dopo avergli abbottonato i pantaloni. Dopo averlo toccato.
Infine le Voci erano arrivate a confortarlo. E da quel giorno non lo avevano più lasciato. Avevano colmato la sua solitudine.
Il bambino aveva passato la notte chiuso nel ripostiglio degli attrezzi e solo l’indomani la madre aveva aperto la porta. Il dolore alle dita era scomparso.
Le Voci gli avevano insegnato a sopportare la pena.
Ma quando era stato liberato dal fil di ferro, il mignolo della mano sinistra si era ormai infettato e una settimana dopo il medico che visitava gli orfani gliel’aveva dovuto amputare. La madre aveva detto che s’era trattato d’un incidente. Poi una suora infermiera gliel’aveva ricucito in quel modo grossolano. Ma già allora il bambino non aveva provato dolore.
Il professor Avildsen, in uno scatto di rabbia, alzò verso il cielo una gamba della dottoressa Cerusico, brandendola come un’arma. Poi la posò e si lasciò cadere in ginocchio. Si stringeva il moncherino al petto, proteggendolo con l’altra mano dal dolore del mondo che continuava a penetrargli dentro attraverso quella ferita mai rimarginata. Cominciò a sbattere ritmicamente la fronte allo spigolo del tavolo insanguinato. Ma non c’era supplizio fisico che non sapesse sopportare.
Le Voci, che sempre più spesso lo attiravano nel loro buio, gli avevano insegnato a tollerare qualsiasi pena. E a trasformarla in piacere.