XXVI.
Il professor Avildsen guardò l’orologio nella penombra della stanza di sua madre. Mancava poco. La vecchia giaceva distesa, la testa rivolta verso l’alto, le palpebre immobili, le labbra immobili. Un ago a farfalla le sbucava da un braccio, un oggetto ormai così consueto che sembrava appartenerle come una qualsiasi altra escrescenza, come una verruca. All’interno del tubo di plastica che le entrava nel naso ogni tanto si formavano delle bollicine. Il professor Avildsen la guardava quasi senza riconoscerla. La vecchia aveva le palpebre leggermente sollevate e la pupilla rovesciata, bianca come un foglio di carta su cui nessuno aveva ancora scritto.
- Mamma, - mormorò l’uomo con una voce da bambino.
La signora Cascarino rimase impassibile, sorda a quel lamento. Il professor Avildsen la guardò ancora. Le ossa del bacino increspavano appena le coperte, come due catene di monti entro le quali riposava la valle fertile che l’aveva generato. Dov’era la bambola? Dov’erano le punizioni? Dov’erano finiti quegli occhi di ghiaccio che sapevano sempre, che lo scavavano, che lo denudavano, proteggendolo da tutto il male che gli si annidava dentro?
- Se tu avessi vegliato su di me... - disse.
Il mantice della macchina per la respirazione artificiale si alzava e abbassava ritmicamente.
- Mamma, dove abbiamo sbagliato? - domandò con una voce ingenua che lo stupì e che ruppe qualcosa dentro il suo cuore, come se quel suono avesse avuto il dono di essere una lacrima e quella lacrima avesse avuto la capacità di forzare una porta chiusa da sempre. Trasportato da questo fantasma d’emozione allungò una mano verso quella inerte della madre. La prese nella sua e la strinse. Sentiva le ossa fragili delle dita che si lasciavano fare tutto, morte o quasi dentro la pelle grinzosa, come dei dadi in un sacchetto di velluto. Adesso la madre non poteva più sottrarsi alle sue carezze.
Il professor Avildsen ebbe un impercettibile sussulto. Non aveva mai considerato la cosa da questo punto di vista. Eppure era così logico. Forse la madre non era veramente immobilizzata come tutti credevano, pensò aggrappandosi disperatamente a quell’illusione, ma si fingeva tale per permettergli di fare quello che lei non avrebbe mai concesso altrimenti. Tutti gli altri pensieri svanirono all’istante, nello stesso momento in cui il professor Avildsen si sentì tornare piccolo e seppe che la donna, adesso, era sua. Abbandonata alle sue carezze, al suo amore. Proprio com’era stata un tempo la bambola.
La mano dell’uomo scivolò lungo il braccio della vecchia fino a raggiungere la spalla. La ritrasse e guardò la madre. Nessuna reazione. Non un’alterazione nel ritmo respiratorio imposto dalla macchina. La madre non scappava. Si lasciava accarezzare. Non gli puntava addosso gli occhi freddi pieni di disapprovazione. Di nuovo allungò la mano, ma questa volta verso le ossa puntute del bacino. Le sentì dure contro i polpastrelli. Levò la mano e se la guardò. Era la sua mano e la vedeva com’era allora, minuta, rosa, e piccole pieghe poco profonde ne solcavano il palmo. Il moncherino del mignolo era appena stato amputato e i punti di sutura tiravano la pelle che stentava a cicatrizzarsi. Sollevò le coperte e ci fece scivolare sotto la mano, tra le lenzuola e la madre. Il bacino era ancora più duro adesso, senza il cuscinetto delle coperte. Spinse oltre il tatto, verso una zona più morbida e accogliente. Guardò gli occhi della madre, bianchi. Era cieca come il cane Omero. La mano si muoveva lentamente sotto le coperte verso il centro della fertile valle che l’aveva generato. Il professore chiuse le palpebre.
Rivide se stesso bambino. Stava sfogliando il libro d’arte. Era chiuso nella sua stanza, segregato perché così doveva essere, perché prima d’ogni altro la madre aveva letto nella sua natura quella terribile cattiveria che lo possedeva. Quella cattiveria che si portava addosso come una malattia, sempre pronta a manifestarsi e avvelenare. Come il marchio di Caino, il pollice di Dio sulla sua fronte, l’impronta che la madre tanto bene vedeva. E le pagine del libro scivolavano sotto le sue mani una dopo l’altra, lucide, piatte, piene di colori che non percepiva. Poi comparve lei, la bambola, Eva, la donna sospesa nell’aria che spargeva latte sulla Terra, latte bianco, gocce dense che le stillavano dal capezzolo. E il capezzolo era stretto dalle dita rosa di lui, l’assassino, il figlio.
La mano del professore era sull’addome molle della madre quando si contrasse spasmodicamente. Un’ondata di nausea gli soffocò la gola. Aprì gli occhi e attraverso un velo di lacrime guardò quelli della madre, senza vita, bianchi come un foglio di carta sul quale lui stava per scrivere la sua ultima oscenità. La mano a pugno, sotto le coperte, sembrava un animale. O un tumore rigonfio. Il professore era pietrificato, incapace di scappare da quella mano o di ritrarla. La contemplava inorridito come se fosse qualcosa di avulso da sé, o forse sperando che quell'immobilità lo dimostrasse. Sarebbe potuto rimanere lì per l’eternità, a un passo dal baratro, se non avesse visto di nuovo il quadro, nella sua mente. Allora ricordò che la donna stringeva in una mano una mela, simbolo del primo peccato, e nell’altra una freccia, puntata verso la schiena del puttino.
Sfilò la mano con un gesto di stizza. La sua testa fu invasa dal ronzio delle Voci. E le Voci gli dicevano che la donna era un’assassina. Che avrebbe ucciso quel bambino. L’avrebbe ucciso se avesse potuto. Se lui non si fosse ritratto. Si portò le mani alle orecchie, per interrompere quel frastuono interiore e spalancò la bocca in un urlo muto. Dopo aver conquistato il silenzio, sentì le lacrime che gli rigavano le guance.
Le pupille della madre erano fisse nel vuoto. Il professor Avildsen si avvicinò il moncherino del mignolo alla bocca e vi depositò sopra un poco di saliva. Poi passò il polpastrello umido sull’occhio sinistro della madre, accoccolando il liquido schiumoso nell’angolo interno, a formare una lacrima.
- Non mi hai mai insegnato a pregare, mamma.
La vecchia non rispose.
Il professor Avildsen guardò l’orologio.
- Adesso devo andare, - disse con una voce dura e si alzò.
Uscendo dalla stanza non si voltò a guardare la madre. Era tornato a essere l’uomo nuovo di quelle ultime settimane. L’uomo qualsiasi. L’uomo che aveva un grandioso disegno da portare a termine. Arrivò alla sua macchina, si mise seduto al posto di guida, sistemò lo specchietto retrovisore in modo da inquadrare l’ingresso dell’ospedale e aspettò. Passarono pochi minuti e lei comparve. Lasciò che lo superasse senza vederlo poi accese il motore. Dando un’ultima occhiata nello specchietto notò una figura familiare che si faceva largo tra la folla a gomitate, correndo.
- San Giacomo, - disse sorridendo e ingranò la marcia.
Avanzò lentamente sulla strada ingombra di buste dell’immondizia e accelerò giusto in tempo per arrivare all’incrocio nell’esatto momento in cui Giuditta stava attraversando. Frenò con forza, per richiamare la sua attenzione. La ragazza si voltò. Lo guardò, lo riconobbe e gli sorrise.
- Vuole un passaggio? - disse lui.
Giuditta esitò.
- Non è prudente andarsene in giro da sola oggi, la città è impazzita, - insistè il professor Avildsen.
Una macchina suonò il clacson, chiedendo strada.
- Salga, forza, prima che mi lincino.
Giuditta sorrise ancora e si decise. Il professor Avildsen le aprì lo sportello e la ragazza si sedette accanto a lui, scoprendo le belle gambe lunghe. L’uomo non le degnò di uno sguardo. Aveva già le gambe. E le braccia. Gli serviva un tronco, adesso.
- Dove la porto?
- Stavo andando a casa. Abito...
- So dove abita, - la interruppe l’uomo, senza distogliere lo sguardo dalla strada.
Giuditta s’irrigidì. Un brivido d’allarme le percorse la schiena.
- Mi sono permesso di chiedere il suo indirizzo in ospedale, - continuò dopo un attimo il professore. -Mi pare che mia madre gradisca la sua compagnia. Non saprei spiegarglielo, è una sensazione irrazionale... è solo un’impressione, non mi prenda per sciocco... però vorrei rendere meno penosi questi ultimi momenti che le rimangono da vivere... Così mi sono fatto dare il suo indirizzo per ogni evenienza... Spero che mi perdoni.
Giuditta si sentì in colpa per essersi allarmata.
- Come sta sua madre? - gli chiese.
- Oggi ha pianto, - la guardò. - Non era mai successo.
- Mi spiace...
- Al contrario... E stata una meravigliosa esperienza per entrambi -. Per qualche minuto non parlarono poi Giuditta si accorse che non stavano dirigendosi verso casa sua.
- Le spiace se faccio una rapida commissione prima di portarla a destinazione, Giuditta? Ci vorrà solo un attimo, - disse il professor Avildsen come leggendole nella mente.
- No... certo, - rispose imbarazzata lei avvertendo di nuovo la sgradevole sensazione di allarme.
L’uomo guidò canticchiando e infine svoltò in una stradina buia e deserta in prossimità del porto. Fermò la macchina, si guardò in giro. Si chinò e da sotto il sedile estrasse un sacchetto di plastica trasparente dentro il quale Giuditta vide un tampone bagnato. Il professor Avildsen aprì il sacchetto. L’odore pungente impregnò immediatamente l’abitacolo.
- Ci vorrà solo un attimo, Giuditta, - disse con una voce spaventosa. Poi le premette il tampone con forza sulla bocca e sul naso.
Giuditta si dimenò scompostamente, agitando le braccia e le gambe. Dopo pochi istanti i movimenti divennero lenti e impacciati e infine il corpo si rilassò, abbandonato al sedile. Il professor Avildsen le ravviò una ciocca di capelli e le sistemò la gonna che nella lotta si era alzata a scoprire le cosce fino all’inguine. Le allacciò la cintura di sicurezza e mise in moto la macchina.