XXIII.

Il professor Avildsen aveva comunicato al rettore che sarebbe dovuto partire per un lungo viaggio e che per quel semestre lo avrebbero dovuto sostituire. Aveva previsto l’indignazione del rettore, le sue resistenze, perfino i suoi strilli e le sue minacce. Ma aveva anche previsto come avrebbe ottenuto la benedizione della massima autorità universitaria. Sarebbe bastata la promessa di un paio di pezzi da collezione. Quello che non era riuscito a immaginare era che il rettore si facesse corrompere così in fretta. Il professor Avildsen non aveva ancora finito di esporgli la sua proposta che quello già scodinzolava come un cane cui venga mostrato un osso. Si erano accordati per un feticcio usato nei rituali della fertilità da un popolo ormai estinto e per la mano imbalsamata di un capo villaggio che certi stregoni usavano per restituire forza sessuale ai loro pazienti.

Uscendo dall’università il professor Avildsen immaginò l’uso che il rettore avrebbe fatto dei suoi trofei. Era un uomo anziano che voleva a tutti i costi soddisfare le lubriche miserie di una moglie giovane? Era in cerca di un figlio? Sorrise divertito. Poi pensò all’esaltante sensazione di non aver più bisogno dell’università. La fine del teatro. Ora che vestiva la maschera dell’uomo qualsiasi poteva scendere da quel palcoscenico e abbandonarlo. Poteva mischiarsi agli spettatori, alla folla, fingere di essere uno di loro. Il suo destino e il suo disegno glielo permettevano. Non correva più alcun rischio. Era parte di loro. Era uno degli orfani.

Si diresse con la sua macchina verso il centro della città, verso il cuore della città, lacerando le buste dell’immondizia che ormai coprivano gran parte del manto asfaltato. Aveva ancora un compito da sbrigare prima di dedicarsi anima e corpo al suo disegno. Doveva consegnare un regalo.

Parcheggiò in una zona consentita e poi proseguì a piedi, senza indugiare, annusando l’umanità che gli si pigiava addosso. Mentre camminava a passo spedito ri-percorse mentalmente quelle ultime settimane che l’avevano cambiato così radicalmente. Aveva scoperto, in quella che i giornalisti avevano teatralmente definito la «Strage delle Risaie», un indizio che gli aveva mostrato la strada.

Tornato alla villa si era rintanato nel dormitorio dove conservava i suoi animali impagliati. Aveva abbracciato Omero, il cane i cui occhi di vetro erano venuti male, si era lasciato cullare dalle voci dei suoi amici, ascoltando storie che non facevano male, cercando l’equilibrio, provando a respirare. Ma la nausea cresceva. - Chi sei? - aveva urlato con le braccia al soffitto screpolato, senza sapere se interrogava la nausea, la sua debolezza o se stesso. A furiosi passi era andato al tavolo da lavoro. Le macchie di sangue sul piano rovinato, due, poi tre, poi tutte, lo avevano assalito, gli si erano appiccicate ai vestiti e alle mani, e più si scostava, più cercava di schivarle e di divincolarsi da quel lurido abbraccio, più loro gli si aggrappavano addosso, come sanguisughe, tentacoli di un’unica bestia. In preda al panico era inciampato ed era caduto a terra. - Basta! - aveva gridato. - Basta! Dimmi chi... - ma non aveva potuto finire la frase perché la bocca gli si era riempita di un rigurgito di succhi gastrici. Aveva sputato il fiele, tossendo, convinto di soffocare e poi, invece, aveva ripreso a respirare. Infine, come se si pacificasse già dal momento in cui aveva deciso inconsciamente di cedere, quando si era rialzato, con le gambe ancora molli e gli occhi pieni di lacrime, aveva compreso tutto.

Era cominciato con il seno della ragazza, quel seno che aveva incollato come seguendo un ordine. Il seno che una volta rimesso a posto aveva fermato le urla della ragazza. Era diventata docile e lui aveva sentito di volerle bene. E quasi gli dispiaceva non averla portata con sé. Se ne sarebbe preso cura, come aveva sempre fatto coi suoi animali. Era bella, la ricordava bene, ora. I primi giorni la scena era stata un incubo che gli tornava in mente a sprazzi, come illuminata da una luce stroboscopica. Le figure che si avvicinavano, che cadevano a terra a scatti. Disordine. Poi l’illuminazione. La ragazza gli era apparsa in sogno, gli aveva mostrato la cicatrice sotto il seno, perfettamente cucita, e non le usciva neanche una goccia di sangue. L’aveva ringraziato. - Tu mi hai messo a posto, - gli aveva detto. Lì per lì non aveva capito. Che intendeva? Poi tutto a un tratto era stato chiaro. La ragazza gli era apparsa ancora in sogno, si era aperta il seno e gli aveva mostrato cosa c’era dentro: stoppa. - Non fa più male, adesso, - aveva detto. Stoppa. Stoppa nel seno dove un tempo c’erano carne e sangue. La stoppa era il segreto. Aveva avuto la risposta per così tanto tempo sottomano senza comprenderla. Ora la madre avrebbe potuto riposare tranquilla. Sarebbe potuta essere fiera di suo figlio. Ci avrebbe pensato lui, ora che aveva la risposta a tutte le sue domande.

L’incidente, se così si poteva chiamare, era stato provvidenziale, pensò il professor Avildsen svoltando in un vicolo. Aveva segnato la sua strada, l’aveva illuminata. Era tutto lì a portata di mano, da sempre, e lui non era riuscito a vederlo. Neanche a immaginarlo. Per anni. Anni bui di impaurita immobilità. Ma non era questa la natura delle cose? Che si svelassero all’improvviso? Non era esattamente questo che succedeva ai santi quando venivano illuminati? Che cos’erano le visioni se non una porta occultata nel cielo, nel proprio destino, nella propria natura che casualmente si svelava. E si apriva. Permettendo l’accesso a un mondo nuovo, un mondo dalle giuste dimensioni, un mondo «dritto» e non a rovescio. Un mondo ordinato. Ci voleva così poco per fare un po’ d’ordine. E con quel po’ d’ordine tutto funzionava a meraviglia. I conti tornavano, come avrebbe detto una serva confrontando il resto della spesa e gli scontrini. Il conto finalmente tornava. Ed era semplice. E piacevole.

Avrebbe cancellato il costante rimprovero che leggeva negli occhi infallibili di sua madre.

Giunto in prossimità della meta il professor Avildsen abbandonò le sue riflessioni. Aspettò quasi due ore rincantucciato nell’oscurità prima che Clara, la prostituta, chiudesse il suo negozio per accontentare un cliente. Allora sgusciò fuori del suo nascondiglio e infilò una busta sotto la saracinesca. Poi tornò nell’ombra, in attesa, per accertarsi che la prostituta la trovasse. Quando vide che il cliente, uscendo, notava la busta, la raccoglieva e la porgeva a Clara provò una sensazione di fastidio. Non gli faceva piacere che altre dita toccassero il suo regalo. Era una specie di contaminazione. Lanciò al cliente che si allontanava uno sguardo carico d’odio.

«Potrei prenderti per quello che hai fatto», disse mentalmente e questo pensiero sembrò pacificarlo.

Poi spostò la sua attenzione su Clara. Mentre apriva la busta aveva l’aria annoiata di sempre. Un’espressione molle, di chi non s’aspetta nulla. Sfilò la lettera dalla busta e cominciò a leggere. Era un messaggio semplice, breve e incisivo. Il regalo non era nella forma ma nel suo contenuto.

«Il tuo aguzzino, Augusto Ajaccio, sta morendo. Un cancro al cervello lo sta divorando e gli sta facendo penare quello che lui ha fatto penare a noi. Lo spettacolo si replica per pochi giorni ancora nella stanza 423 dell’ospedale civico». Niente firma.

Clara rilesse il messaggio più volte. La noia aveva abbandonato i suoi lineamenti, ora contratti. Si portò la lettera al petto e la strinse con entrambe le mani.

Il professor Avildsen sentì un fremito di gioia. Quattro anni prima lei gli aveva consegnato Ajaccio, facendolo risuscitare dal passato, e ora lui le regalava la sua morte. La promessa di libertà.

Il professor Avildsen pensò a quando era bambino, nella sua stanza, nell’unica stanza che sarebbe stata sua perché tutte le altre nelle quali aveva girovagato indi-sturbato fino ad allora erano state smembrate e trasformate dai muratori, dagli architetti e dalla madre per ospitare gli orfani. Rammentò che era in quella stanza quando aveva sentito la ghiaia del cortile scricchiolare e gemere. Si era affacciato alla finestra e aveva appoggiato il palmo di una mano al vetro freddo. E poi l’altro palmo. E poi la fronte, il naso, le labbra e aveva spinto il torace contro il vetro freddo, sperando che quel gelo gli entrasse dentro e non lo facesse soffrire di quel che stava soffrendo. Sperando che quel gelo lo anestetizzasse, lo uccidesse e non gli facesse vedere quel che stavano vedendo i suoi occhi. La processione di orfani gli era sembrata un’invasione di cicale malate. Era stato allora che si erano visti per la prima volta. A metà gruppo un ragazzo che poteva avere sedici 0 diciassette anni, e che a quel tempo gli era parso straordinariamente grande e irsuto, alzando lo sguardo lo aveva avvistato al di là del vetro piombato. Si era fermato, alto più d’una spanna di quasi tutti gli altri, immobile, con le braccia penzoloni, il corpo floscio come il sacco che gli era stato tagliato addosso. Era rimasto lì, con uno sguardo immobile che non esprimeva né meraviglia né curiosità, con il collo piegato all’indietro e la bocca un po’ aperta, legato da un invisibile raggio alla finestra. E la fila, la metà della fila di orfani che lo seguiva, lo aveva oltrepassato senza che nessuno alzasse gli occhi come lui e senza urtarlo. Poi la fila era finita e l’orfano più alto degli altri, risucchiato dal vuoto d’aria, con la testa sempre alla finestra e a lui, senza scossoni si era unito al movimento della carovana dalla quale non era mai uscito perché, pensò con una fitta dolorosa il professor Avildsen, egli ne faceva parte fino in fondo.

Era stata quella la prima volta che si erano visti.

E già allora, pur essendo solo un bambino, si era sentito inchiodato e spogliato da quello sguardo insistente. Quando poi la madre aveva fatto entrare gli orfani nella villa, lui era sceso nel giardino e li aveva spiati da un’altra finestra appena socchiusa. Aveva sentito le loro voci, aveva annusato nell’aria l’odore di quei corpi, aveva visto le ustioni che sbucavano dai poveri indumenti. Alcuni si appoggiavano a delle grucce di legno, altri si lamentavano per il dolore. Viste da vicino molte delle piaghe erano ancor più impressionanti, non solo giallastre e viola, ma anche lucide, come ricoperte di muco. Un bambino si era leccato la ferita e poi ci aveva sputato sopra. Il ragazzo grande, vicino a lui, vedendolo, si era messo a ridere. Una risata debole di polmoni che s’era esaurita senza eco. Allora era stato chiamato all’appello e rimproverato. Si era presentato. Da dietro la finestra il bambino escluso si era impresso il nome nella mente. Augusto Ajaccio. Non sapeva ancora che farsene, comunque se lo ripeteva e ripeteva ancora per non dimenticarlo. E mentre sussurrava il nome del ragazzo come se stesse snocciolando un rosario, la scena di quelle ferite lo aveva assorbito totalmente. Immaginava la pelle che friggeva nell’incendio, rievocava l’odore acre della carne che bruciava senza tuttavia averlo mai davvero annusato, vedeva i corpi dei più piccoli gonfiarsi di bolle che abbrustolivano ed esplodevano, udiva i gemiti, gli strilli, gli orfani che si calpestavano fra loro cercando una via di scampo fra le dense e asfissianti colonne di fumo. Aveva sentito un’enorme paura impossessarsi della sua piccola anima, una paura che non aveva nome, che non era nelle immagini che vedeva con la sua fantasia. La paura di qualcos’altro che non si poteva neanche pensare. Guardando la madre gli sembrò che quelle fiamme terribili, appena evocate, scintillassero ancora nei suoi occhi di ghiaccio. E allora aveva capito che la madre aveva ragione, che lui era un bambino cattivo. Perché pensava cose che non andavano pensate.

In quel momento l’orfano, Augusto Ajaccio, aveva alzato il braccio e gli aveva puntato contro l’indice. «È lui ! È lui ! È lui ! » gridava. Quel che era successo poi non aveva importanza. Il bambino, da quel giorno, aveva compreso che Augusto Ajaccio poteva vedere la sua colpa e ascoltare i suoi pensieri. Conosceva il suo segreto. L’immagine di Augusto Ajaccio lo aveva tormentato fin dall’infanzia. Caino e Abele. Il santo e il peccatore. Augusto Ajaccio era diventato la sua ossessione. La sua più grande paura. Era il padrone dei suoi incubi.

Augusto Ajaccio aveva letto nelle sue immagini di fuoco. Sapeva a chi aveva pensato lui. Aveva conosciuto quel che non si poteva pensare.

Per questo non era sufficiente che morisse. Le Voci, quando avevano svelato al professor Avildsen il grande disegno che era destinato a realizzare, tre settimane prima, gli avevano suggerito un modo per far tacere per sempre. Augusto Ajaccio. Sarebbe stato la testa. La testa con la bocca cucita.

Guardò verso Clara ma non la vide. Si era rintanata nel suo negozio di carne scadente.