X.

L’odore era insopportabile quando l’ispettore capo Giacomo Amaldi fece il suo ingresso nel negozio dalla porta sul retro. Un agente gli offrì un fazzoletto di carta imbevuto di profumo, per anestetizzare le narici. Amaldi gli fece segno che non ne aveva bisogno. Gli odori erano parte integrante della scena del delitto. La cera, la muffa, il legno stagionato, la polvere, l’olio per lubrificare cerniere e vecchie serrature arrugginite. Il sangue. Notò con la coda dell’occhio che Frese bloccava per un braccio il giovane medico legale che gli si stava avvicinando. Evidentemente non sapeva che nessuno doveva rivolgergli la parola mentre si formava la prima e fondamentale impressione.

Il locale era lungo e stretto, un budello di mobili accatastati gli uni accanto agli altri senza ordine. Sembrava più il negozio di un rigattiere che di un antiquario. Alcuni degli oggetti esposti gli parvero belli e di valore, altri assolutamente insignificanti. Il pavimento era opaco. La sua attenzione fu attratta da una collezione di armi antiche in un espositore di legno. Ci si avvicinò. Le armi erano impolverate. C’era uno schioppo, un tromboncino, una mazza ferrata, una balestra. Solo l’alabarda non era impolverata. Il manico di legno scuro era lucido e la lama, seppur arrugginita, era pulita. Bisognava avere un permesso speciale per vendere armi, anche se antiche. I suoi agenti avrebbero controllato. C’era un’enorme quantità di specchi. Molati, al mercurio, screpolati, affumicati dal tempo.

Quando Amaldi si vide riflesso vi riconobbe l’immagine di sempre, seria e sicura. La luce artificiale enfatizzava rughe e ombre. Gli zigomi parevano più spigolosi del solito. I capelli più chiari.

Un attimo prima di entrare nel negozio aveva sentito il cuore salirgli fino in gola e come sempre aveva dovuto lottare con la tentazione di voltarsi e scappare. Ogni volta la stessa cosa. Tempo addietro era stato a cena con un’attrice di teatro. Non erano finiti a letto insieme perché la donna, parlando ininterrottamente di sé per tutta la sera, gli aveva tolto qualsiasi curiosità. Ma quella cena gli era rimasta impressa perché l’attrice gli aveva raccontato che sempre, un attimo prima di entrare in scena, provava un’ansia incontrollabile all’idea di non ricordare più le battute del testo. Poi faceva il suo ingresso in palcoscenico, varcava il labile confine tra realtà e finzione segnato dalle quinte, si sentiva inondare il viso dalle luci accecanti dei riflettori e dimenticava ogni preoccupazione. La stessa cosa succedeva ad Amaldi quando violava il margine che separava la rassicurante realtà di tutti i giorni dal palcoscenico di un delitto, segnato idealmente dalle strisce di plastica bianche e rosse della polizia. Diventava di ghiaccio. Era come se non avesse più il cuore e interpretava alla perfezione la sua parte. Erano due mondi separati. Le regole che valevano nell’uno non erano riconosciute nell’altro.

Aveva ormai percorso tutto il negozio. Arrivato alla saracinesca ancora calata si fermò. Pigiò l’indice della mano destra tra le sopracciglia, con lo sguardo a terra, facendo dentro di sé un vuoto ancora maggiore e si portò al centro del locale. Respirò l’aria. Era da lì che si diffondeva l’odore del sangue. Allora, guardò.

La donna sorrideva e aveva gli occhi spalancati. Fissi sul nulla. Era seduta composta su una scrivania antica con il piano in logora pelle. Le gambe penzolavano inerti a una quarantina di centimetri da terra, le calze color carne erano arrotolate con cura attorno alle caviglie. Il vestito di lana marrone era lacerato all’altezza dello stomaco e la profonda ferita che s’intravedeva era stata riempita di stracci per spolverare. Sul pavimento la chiazza di sangue che colava giù dalla scrivania aveva smesso da parecchie ore di espandersi e sul lago minaccioso cominciava a formarsi una pellicola sottile e opaca che, all’estrema periferia, era raggrumata e grinzosa. Amaldi notò subito l’impronta della scarpa ma non si voltò verso Frese. Non aveva ancora finito. La donna aveva in grembo le maniche del vestito di lana. Non erano state strappate brutalmente durante la colluttazione, erano state scucite con pazienza, punto dopo punto. Ma c’era qualcosa di più. Molto di più. Le mani erano lucide e sapevano di gommalacca. Le braccia erano lucide e sapevano di gommalacca. Gli snodi del polso e del gomito erano di ferro brunito. A una prima occhiata sembravano ben oliati.

Gli arti erano di legno. Legno chiaro con venature impercettibili.

Il cadavere protendeva le braccia verso Amaldi, come se volesse abbracciarlo. Erano rette in quella posizione da due lunghi fili di nylon ancorati al ricciolo di una credenza rustica posta di fronte alla scrivania. Amaldi non aveva mai visto nulla del genere.

Quando si voltò, Frese era già alle sue spalle. Si guardarono il meno possibile, per non veder riflessa negli occhi dell’altro la propria paura. Parlarono subito per colmare l’orrore. Si imposero di avere un tono distaccato nella voce.

-    Sai perché sorride? - disse Frese puntando una piccola torcia elettrica sul cadavere. - Ami da pesca, - continuò. - Due ami da pesca agli angoli della bocca, un po’ di filo di nylon, si tira e si fa un fiocchetto dietro la testa. Semplice vero?

Amaldi notò il baluginio metallico sulle labbra tese.

-    Per tenerle spalancati gli occhi, invece, ha usato del mastice. Le palpebre sono incollate. Immagino sia una roba a presa rapida ma lo sapremo di preciso dopo le analisi.

Amaldi abbassò lo sguardo a terra verso l’impronta nella pozza di sangue. Guardò interrogativamente Frese che già scuoteva il capo.

-    Un novellino. Io non so perché in casi come questi non possiamo avere delle squadre di soli professionisti. È una cosa della quale dovresti parlare al commissario... Comunque per fortuna avevamo già fotografato tutto quando quell’idiota ci ha messo il piede dentro. L’ho mandato a casa perché non combinasse altri casini.

Amaldi annuì in silenzio.

-    Poi c’è questo, - disse Frese indicando un nastrino di velluto verde alto cinque centimetri che fasciava il collo della donna. Con una penna alzò un lembo del collare scoprendo un segno marrone, tracciato con una matita grassa. - Ha fatto un cerchio perfetto... tutto il collo, fino a dietro... vedi? - disse. Per mostrarlo meglio al suo superiore si sporse in avanti, allungandosi e perdendo l’equilibrio. La punta della penna sporcò d’inchiostro la pelle della donna. - Porca troia, - imprecò. Allora, sempre tenendo alzato il nastro di velluto si infilò l’indice della mano libera in bocca, lo umettò e poi lo passò sullo scarabocchio fino a sciogliere l’inchiostro e cancellare lo sbaffo. La pelle della donna non si arrossò come invece sarebbe successo se fosse stata viva.

-    Una squadra di soli professionisti, eh? - commentò Amaldi.

-    Be’, va bene... - disse Frese senza scomporsi, fregandosi l’indice sul cappotto. - Va bene, non è successo nulla di grave.

-    Certo. È tutto sotto controllo.

-    Non raccontarlo in giro.

-    Sarò una tomba. Anche se dovessero incriminarti perché hanno trovato tracce della tua saliva sul cadavere e non c’è nessun altro con cui prendersela.

-    Grazie.

-    Figurati,

-    E poi naturalmente ci sono queste, - disse Frese esercitando una leggera pressione sui due fili di nylon attaccati alla credenza. Il cadavere agitò le braccia. Alla sommità degli arti di legno era inchiodata una stoffa chiara e pesante. - Un bel lavoro di sartoria, - commentò alzando il vestito sulla spalla. La stoffa era cucita alla pelle con un filo grosso e scuro. Nessuno dei due parlò delle vere braccia della donna.

-    Andiamocene di qui, - disse Amaldi risolutamente, voltando le spalle all’antiquaria che non aveva mai smesso di sorridergli e di invitarlo ad abbracciarla. - Ho visto abbastanza.

La squadra che avrebbe rilevato e classificato le impronte, quella che si sarebbe occupata di catalogare gli oggetti e quelli con gli aspirapolvere in mano che sembravano normali uomini delle pulizie, stavano aspettando sul retro. Nessuno parlava. Tutti gli agenti guardavano a terra. Il giovane medico legale era pallido e spaventato. Quando vide Amaldi sulla porta gli si avvicinò con un dito in aria.

-    Dopo, - gli disse rudemente Amaldi e passò oltre.

Il medico rimase ancora un attimo con il dito ritto come un pennone senza bandiera, poi, nonostante fosse all’aperto, si portò di nuovo il fazzoletto imbevuto di profumo al naso. Gli agenti che entravano nel negozio lo spintonarono senza riguardi.

-    Hai la macchina? - domandò Frese.

-    No.

-    Sei venuto a piedi?

-    Sì, sono venuto a piedi...

-    La mia macchina è lì, - disse Frese e si avviò.

Amaldi diede un’occhiata al capannello di gente

all’ingresso del vicolo cieco. Un agente in divisa, con le braccia spalancate al di sopra del nastro di plastica a strisce rosse e bianche fissato ai due muri opposti che delimitavano la stradetta, conteneva a stento i curiosi che lo tempestavano di domande e che sporgevano il capo cercando di forzare il debole blocco. Alzò lo sguardo: le finestre dei palazzi erano gremite.

-    Che spettacolo, - disse Frese che ormai aveva raggiunto l’auto.

Amaldi lo superò e aprì lo sportello di destra. Il vicolo terminava con un muretto alto più o meno un metro. Affacciandosi si scopriva una strada, a un livello inferiore, così che il vicolo sembrava un ponte mai terminato e proteso verso il balcone del palazzo di fronte.

-    Adesso neanche si degnano di portarla giù, - sentì dire a Frese. Poi lo vide comparire nella visuale del parabrezza e levare una busta d’immondizia dal cofano della macchina. - La lanciano e basta. Dove cade, cade! - urlava il vice, rosso in volto e con il sacchetto in mano, guardando in alto, verso la folla di curiosi alle finestre. Con rabbia scaraventò a terra la busta che si squarciò con un rumore sordo. Squillarono poche note distinguibili di vetri e latta.

-    Non riuscite a fermare uno sciopero dell’immondizia, figuriamoci se acchiappate un assassino! - risuonò una voce nella massa.

-    Siete voi l’immondizia di questa città! - urlò in risposta Frese agitando il pugno chiuso.

Amaldi aprì lo sportello del guidatore e si protese verso il vice.

-    Vieni via, stai zitto, - ordinò seccamente.

Frese, furibondo, s’infilò nell’abitacolo e accese il motore. Inserì la retromarcia e suonò il clacson per avvertire l’agente di guardia in cima al vicolo. Quello staccò il nastro e fece segno alla folla di far largo. Ma la gente non si spostava. Il poliziotto ne spingeva indietro qualcuno da un lato e quelli, quando andava dall’altro lato, rioccupavano la vecchia posizione, cercando anzi di guadagnare qualche centimetro.

-    Ma li vedi? Li vedi che animali? - borbottò spazientito Frese. - Sono arrivati qui prima di me. Li vedi? Guarda che facce soddisfatte. Finalmente succede qualcosa nella loro vita. Che sia merda poco importa. È arrivato il primo e ha chiamato la mamma, la zia, gli amici, i cugini... ed eccoli qua. Quanti saranno? Settanta, ottanta coglioni che vogliono vedere il morto. Levatevi di mezzo ! - urlò con la testa fuori del finestrino accelerando.

La folla, con un risucchio sonoro fatto di proteste e imprecazioni, si pigiò contro il muro e fu sfiorata dalle ruote. Il flash di una macchina fotografica lampeggiò nella giornata grigia.

-    Che ne diresti di una gita al mare? - disse Frese.

Amaldi annuì in silenzio.

Mentre abbandonavano i quartieri storici per poi attraversare la periferia anonima i due uomini non dissero una parola. Appena le case cominciarono a diradarsi e la strada a salire tortuosa, Frese aprì il finestrino e inspirò profondamente. L’aria gelata gli saturò i polmoni. Amaldi si strinse nel cappotto.

-    Hai freddo?

Amaldi non rispose.

-    Dove vuoi che andiamo? Hai preferenze? - domandò Frese.

Sotto di loro le scogliere grigie, il mare schiumoso, gli alberi piegati dal vento e aggrappati alle rocce così come le rade case rurali erano ancorate agli scoscesi pendii.

Amaldi aveva lo sguardo fisso davanti a sé, oltre il tempo, perso lontano. Ricordava la fatica di pedalare per quella strada con la ragazza, seria per la decisione presa, che gli puliva di tanto in tanto il sudore con un fazzoletto, e il seno generoso che presto si sarebbe concesso alle carezze di lui e all’aria del mare, e le natiche sode rigate dalla canna della bicicletta.

-    Io mi fermo qui, - disse Frese rallentando.

-    No, vai avanti. Tra un paio di tornanti c’è una stradina sterrata sulla sinistra. C’è un enorme pino... o almeno c’era vent’anni fa.

Sensazioni, emozioni, fremiti cui non era stato concesso di crescere, di invecchiare.

-    Mi sto distruggendo la macchina, - brontolò Frese combattendo con il volante che si piegava contro sassi e buche.

-    Ancora pochi metri. Vedi quello spiazzo laggiù?

La macchina, con un ultimo sobbalzo, si fermò. Il mare era cupo e agitato. Quando Frese spense il motore si fece sentire il sibilo del vento.

-    Dove sei con la testa? - domandò Frese.

Amaldi si voltò verso il suo compagno. Sorrise spento. C’era il sole quel giorno di tanti anni prima. Faceva caldo.

-    Tu quando pensi a una donna, - stava dicendo Frese con un giornale in mano, - immagini prima le tette o prima la fica?

-    Come?

-    No, niente, leggevo un test su questo giornale, - e lo buttò malamente sul sedile posteriore. - Secondo questi capoccioni quelli come me... io penso sempre prima alle tette... quelli come me sono degli immaturi, degli adolescenti col complesso della mamma.

-    Io non ho il complesso della mamma, - fece Amaldi, distratto.

-    Però pensi prima alle tette.

-    Sì.

-    Lo sapevo che questi test erano tutte stronzate, - concluse uscendo dalla macchina.

Amaldi lo imitò meccanicamente. Entrambi erano sul precipizio. Frese si stiracchiò verso il cielo e si scostò dal suo superiore. Era troppo alto. Gironzolò su se stesso un paio di volte e poi puntò l’indice su una costruzione settecentesca.

-    Non è villa Cascarino, quella? - chiese.

-    Sì, - fece Amaldi senza voltarsi.

Pensava. Quel giorno lui e la ragazza avevano steso a terra una coperta rubata a casa e si erano sdraiati. Per parecchi minuti non erano stati capaci neanche di baciarsi. Non si guardavano negli occhi, non parlavano. Erano improvvisamente come due estranei. Lei allora gli aveva messo una mano sulla guancia e l’aveva attirato a sé.

-    ... non ti pare strano? - concluse Frese agitando entrambe le braccia verso la villa.

-    Sì, - disse Amaldi.

-    Ma hai capito quello che ho detto?

-    Sì.

-    Non è strano? Non è strano che un intero fascicolo che riguarda un fatto così... ne sono morti parecchi tra bambini e suore in quell’incendio... non è strano che il fascicolo sia sparpagliato per l’archivio? Se è sparpagliato. Quel documento che ho trovato non dice molto, d’accordo, sono solo mappe e progetti. Però la data che l’architetto ha segnato sul retro è antecedente all’incendio di quasi tre mesi. Non erano i soliti progetti di una semplice ristrutturazione, c’erano spostamenti di muri, lavori grossi. In uno dei fogli c’è scritto «Refettorio». Chi cazzo si fa un refettorio in casa?

-    Gli ospizi hanno il refettorio.

-    E va bene, l’ho pensato anch’io. Ma le parole «Dormitorio I » e «Dormitorio 2» ti fanno sempre pensare a un ospizio? Te li immagini i vecchi che la sera si mettono a russare e scoreggiare tutti insieme?

-    Hai mai visto un ospizio? Di quelli per la gente povera?

-    Aspetta un momento... Vuoi dirmi che tu hai una cazzo di villa storica... Insomma, se tu avessi una villa come quella e ci volessi fare i soldi... Lo sai, vero, che la signora Cascarino era a terra prima di trasformare la villa in un orfanotrofio?... Be’, se ci volessi fare dei soldi io dico che ti prenderesti dei vecchi danarosi e non dei pezzenti. Perciò non costruiresti il «Dormitorio I » e il «Dormitorio 2» ma tante belle stanzette... A meno che...

-    A meno che?

-    A meno che tu non sapessi già che l’orfanotrofio comunale sarebbe andato a fuoco e che il sindaco ti avrebbe dato un sacco di soldi piuttosto che ricostruirne uno nuovo. In fondo conveniva a tutti e due, a quel punto.

Amaldi si girò lentamente verso villa Cascarino. La sagoma rosa, aggraziata, si stagliava contro il cielo livido. Scalciò una pietra.

-    Non hai niente di concreto in mano.

-    Questo lo so da me, - una breve pausa. - È una battuta del cazzo ma ascolta: sento puzza di bruciato, - fece un lungo respiro e poi continuò a bassa voce: - Il commissario che coordinò le indagini a suo tempo è il nostro sindaco, - ancora una pausa. - È una brava persona il sindaco... o almeno io l’ho sempre creduto.

Amaldi non sapeva cosa rispondere. Di sicuro, pensò, Frese conosceva sin dal principio il nome del commissario che aveva svolto le indagini. L’aveva taciuto finché non aveva trovato qualcosa. E adesso tutti e due sapevano.

-    Finché non hai qualcosa di certo, anzi di certissimo, - disse al vice, - non sei coperto né confortato dall’ufficialità. Io smentisco tutto.

-    Bene, - disse Frese. Si poteva andare avanti.

Amaldi tornò a perdersi nel golfo davanti a lui. Respirò l’odore del mare. Poi abbassò lo sguardo, lo lasciò scendere nello strapiombo. Duecento metri di bassa vegetazione e rocce, poi gli scogli scivolosi, battuti dalle onde. A metà strada tra l’acqua e la vetta correva la ferrovia. Un’opera colossale. I binari dipendevano da un lembo sottile di terra, caparbiamente spianato dall’uomo.

Quel giorno si erano, messi a tirare sassi giù per la scarpata. Come due bambini. Perché a sedici anni erano ancora dei bambini.

-    Allora, torniamo al presente, - disse al vice.

-    Al presente? - domandò quasi a se stesso Frese. Conosceva il suo superiore meglio di chiunque altro. - Ho visto che continui a occuparti della «Strage delle Risaie».

-    E allora? - una punta di irritazione.

-    Niente... La parola presente in bocca a te ha uno strano suono.

-    Che c’entra con la «Strage delle Risaie»?

-    Lo so perché t’interessa. Tu non credi a fidanzati, a vendette o a stronzate del genere. Tu hai letto di quella povera ragazza e hai deciso che è opera di un maniaco...

-    Anche fosse...? - l’irritazione era già sotto controllo.

-    Anche fosse... non avrebbe nulla a che fare col presente. Non avrebbe nulla a che fare con quella ragazza. Anche fosse, non sarebbe un maniaco qualsiasi ma sempre lo stesso maniaco, vero?

Amaldi era impassibile.

-    Quello è il passato, non il presente, - sbottò Frese. - Lo sappiamo tutti cosa cazzo ti è successo!

Amaldi sembrò sgonfiarsi, improvvisamente, come uscisse da una forzata apnea. Ma fu un cedimento appena avvertibile all’altezza dello stomaco.

-    No. Non lo sapete.

Diede le spalle a Frese, si avviò a passi controllati fino al cofano della macchina e ci si sedette sopra. Battendo la mano sulla carrozzeria, lentamente, invitò il vice a raggiungerlo.

-    Vieni, - disse.

Aveva la schiena dritta e rigida, come se nessun peso gli gravasse sulle spalle, e il viso era innaturalmente rilassato. Gli occhi si perdevano in un imprecisato punto dell’orizzonte. Quando Frese si fu seduto, Amaldi prese a raccontare con un tono neutro e impersonale. Il ritmo della parlata, pensò Frese, era quello di una normale conversazione; la voce stessa era apparentemente cordiale. Ma senza accenti, senza picchi, senza accelerazioni né pause né sospensioni. Scorreva piana, come un fiume calmo, senza gorghi né mulinelli, senza increspature, senza schiumare. Scollata dalle atrocità che descriveva, insensibile alle passioni che avrebbe dovuto risvegliare, sorda ai richiami del passato. Era una voce priva di ogni emozione, che narrava le vicende di qualcun altro, con l’indifferenza che si può provare per un estraneo. Sembrava una registrazione, pensò ancora Frese. E Amaldi nulla più che un registratore, uno strumento meccanico. Immobile nella sua posizione, gli occhi che non si voltavano mai verso il suo interlocutore, le mani che non gesticolavano e giacevano senza vita sulle cosce, i polmoni che si dilatavano con regolarità. Frese era certo che anche i battiti cardiaci del suo superiore non stessero subendo un’alterazione.

Quando ebbe finito di raccontare Amaldi semplicemente tacque, come semplicemente aveva cominciato a parlare.

-    Ecco è tutto qui, - disse rivolgendosi a Frese per la prima volta e facendogli un sorriso gentile ma vuoto. Raddrizzò la testa e riprese a fissare l’orizzonte.

Frese non disse nulla. Rimasero entrambi immobili. Il vento freddo che frusciava tra gli sterpi arrotolava in aria un po’ di polvere, piegava i pochi ciuffi d’erba. Poi anche il soffio del vento tacque e il silenzio fu assoluto. Un silenzio così innaturale che Frese, guardando il mare sotto di loro, non riusciva nemmeno a immaginare il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli. Come se il mondo intero fosse diventato muto.

In questa quiete senza oblio risuonò un verso, incontrollato e improvviso. Come un muggito trattenuto. La macchina vibrò. Frese non si voltò verso Amaldi. Poi il suono, a distanza di pochi respiri, si ripetè. Non assomigliava più a un muggito ma a un conato di vomito, forse. Frese girò appena lo sguardo verso Amaldi. Il suo superiore era stravolto. Il primo pensiero di Frese fu che il viso di Amaldi era grottesco e ripugnante. Era come vedere una maschera che bruciava e si deformava e si contorceva tra le fiamme. Amaldi fu scosso da un altro sussulto, come un terremoto interiore cui resisteva con tutto se stesso. Ma senza riuscire a contenerlo. I sussulti cominciarono a succedersi gli uni agli altri con regolarità, vincendo le resistenze, con l’andamento delle doglie in un parto. Tra l’uno e l’altro la respirazione di Amaldi si rompeva, si faceva affannosa. Frese non sapeva che fare. Guardava il suo compagno con la coda dell’occhio. Lo guardava lottare, soffrire. Perdere.

Infine Amaldi cedette, la diga cedette, le pareti cedettero, le fondamenta stesse cedettero. Il corpo rigido si scompose. La gola forzò le labbra serrate convulsamente, le squarciò. Amaldi si portò le mani alla bocca, nel disperato tentativo di bloccare l’urlo, di strozzarlo. Ma il grido gli uscì prima dagli occhi, dallo stomaco, dalle stesse mani che lo contrastavano. Si piegò in due e urlò, con una voce roca, intermittente, che lo soffocava. Gridò espirando. Gridava inspirando. Un urlo impressionante, senza fine, sibilato. Appena sonoro. Come se un grido potesse essere urlato a bassa voce.

Allora Frese capì che Amaldi stava cercando di piangere.

Era ormai il tramonto quando si infilarono in macchina, intirizziti, e accesero il riscaldamento.

-    Come si chiamava? - chiese Amaldi con la sua nuova voce.

-    Viviana Justic, cinquantacinque anni, nubile, proprietaria delle mura e intestataria unica della licenza, antiquaria di fiducia delle famiglie nobili perché sapeva mantenere i segreti. Faceva buoni affari.

Amaldi ascoltava annuendo. Aveva gli occhi rossi e un po’ di saliva gli si era incrostata sul mento.

-    Grazie, - disse.