IV.
L’agente Augusto Ajaccio aveva la bocca secca. Si allungò verso il piano del comodino e bevve una sorsata d’acqua. Per un attimo provò sollievo poi la saliva tornò pastosa. Si deterse gli angoli delle labbra con il pollice e l’indice della mano sinistra, contemporaneamente, e si distese. Le lenzuola ruvide gli ricordarono la sua infanzia e si sentì a disagio. Non era un periodo al quale pensava con piacere.
I muri della stanza dell’ospedale erano dipinti fino a un’altezza di un paio di metri con uno smalto verdino. Più in su la pittura proseguiva bianca e opaca. In corrispondenza degli schienali delle due sedie per i visitatori era stata applicata una striscia protettiva di plastica trasparente. Alla sua destra, dalla vetrata che mostrava tutta una, fetta di città fino al porto, dove cominciavano ad ammucchiarsi le une sulle altre le buste dell’immondizia che nessuno portava via, la luce rossastra dell’alba che l’aveva trovato sveglio si era stinta e fatta più abbagliante con l’avanzare del giorno e si insinuava tra le stecche delle veneziane, anch’esse verdi. Alla sua sinistra un lungo trespolo lucente in alluminio in cima al quale era accoccolata una bottiglia di liquido fisiologico e il comodino con un primo cassetto vuoto e quello inferiore, più grande, che conteneva il pappagallo per i bisogni corporali e le pantofole. Più oltre la porta che si apriva sul corridoio lungo il quale zoccolavano infermieri e ciabattavano degenti.
- I reperti angiografici evidenziano, soprattutto nelle proiezioni laterali, che il sifone carotideo, cioè il tratto intracranico della carotide interna, appare svolto, meno sinuoso... e la cerebrale media è fortemente innalzata, con decorso curvilineo... I vari rami delle arterie del complesso silviano si presentano ravvicinati, - gli aveva spiegato un assistente del primario qualche giorno prima, come ripetendo una lezione imparata a memoria. Quando era comparso nella stanza il dottore sventolava l’aria con una cartella che Ajaccio capì subito essere la sua. In quello sventolio c’era una nota di biasimo, come se le informazioni contenute all’interno del fascicolo fossero deplorevoli. Con lo stesso tono di rimprovero gli aveva domandato se era vero, perché così risultava, che non avesse neanche un parente. Alla risposta affermativa del poliziotto, l’assistente del primario aveva allargato le braccia, sospirato penosamente, accostato una delle sedie al letto e, dopo una pausa nella quale la testa gli rimbalzava da un lato all’altro, in un reiterato dissenso, si era dichiarato in grave imbarazzo. - Capisce bene che ci mette in una scomoda posizione. Generalmente forniamo al malato tutte le informazioni cui ha diritto ma è con i familiari che abbiamo un rapporto franco, privilegiato, per tutte quelle decisioni... insomma, sono certo che comprende la nostra posizione, perciò..., - aveva proseguito faticosamente, inceppandosi tra mille «capisce», «faccia del suo meglio», «è un bel problema», «questa non ci voleva proprio», perciò, visto che il loro dovere era informare della realtà dei fatti qualcuno, e non essendoci al mondo nessun altro a prendersi cura di lui, lui stesso avrebbe dovuto assorbire tutta la verità senza sconti. Era una questione etica che non aveva altra possibilità di risoluzione. A questo punto si era alzato, rinvigorito e con un’espressione in volto che sembrava alludere a un perdono concesso con generosità a quel paziente che mancava così tanto di tatto da costringere tutto l’ospedale a parlare esplicitamente di morte con l’ormai prossimo cadavere. Riposizionata la sedia contro il muro, aveva tirato le somme della sua relazione in piedi.
- Signor... - una rapida occhiata alla cartella clinica, -signor Ajaccio... lei ha un tumore del lobo temporale. Un glioblastoma per l’esattezza. Molto esteso... e molto grave. Un intervento neurochirurgico è da escludersi: l’asportazione definitiva non sarebbe possibile.
Ajaccio aveva ascoltato con aria attenta quello che sempre più gli pareva un delirio, annuendo, cercando di collaborare come gli era stato espressamente richiesto, compreso nel suo ruolo. Intanto la foschia che aveva avvolto le ultime due settimane, dal momento in cui gli era stata diagnosticata la malattia durante l’annuale accertamento al quale dovevano sottoporsi tutti gli agenti, si andava dissipando. Gli tornava alla memoria il volto dell’impacciato medico militare che per primo l’aveva visitato continuando a passarsi la lingua sulle labbra, come se cercasse di rastrellare nell’aria le parole che non gli uscivano. E così i controlli, le analisi, i consulti che avevano preceduto il ricovero. Era dome se avesse vissuto in uno stato di incoscienza. Le forme delle cose e delle persone erano sfumate, senza colori. La vita sospesa. Poi improvvisamente, mentre l’assistente del primario dissertava di endovene, glucosio, solfato di magnesio e roentgenterapia, si era reso conto per la prima volta che si stava parlando proprio di lui. Aveva inarcato il collo, protendendo l’orecchio verso il petto, quasi a cercare conferma della paura nel battito del cuore. Ma tutto sembrava calmo. Anche il respiro.
Adesso era solo. La luce che filtrava dalle veneziane era splendente e disegnava lame profonde nella parete di fronte a lui. Ajaccio aveva lo sguardo vuoto e sofferente.
- Perché? - disse ad alta voce.
Riconobbe in quella domanda un’intonazione che aveva sentito molte volte. Tutte le volte che comunicava la morte di qualcuno, di un figlio alla madre, di un marito alla moglie. Era una nota tragica, sempre uguale. Una disperazione che non poteva essere espressa in altro modo.
Le palpebre erano pesanti e chiedevano riposo, in una progressione di stanchezza che però gli sembrava estranea. Chiuse gli occhi e s’impose di dormire. Il sonno era sempre stato un ottimo rimedio. Quando non era in servizio riusciva a sonnecchiare, se non proprio a dormire, anche per un’intera giornata. Ma da qualche tempo il sonno non era più un silenzioso nascondiglio bensì un’arena popolatissima e stancante, chiassosa ed esigente. Un tempo i pensieri non si fermavano a conversare, erano dei passanti innocui che svanivano naturalmente senza eco, dimenticati già nell’attimo medesimo in cui venivano concepiti. Ma ora, e abbassò nuovamente la testa verso il cuore, ora tutte le immagini della sua vita, presente e passata e, incredibilmente, anche futura, non erano governate dalla debolezza e dall’indolenza, bensì indugiavano davanti allo specchio della coscienza, contemplandosi e facendo continue giravolte come ragazzine vanitose con un vestito nuovo. Una strana, incontrollabile sensazione di progettualità gli aleggiava intorno, lo lusingava, lo corteggiava. Il mondo si rivelava diverso, la nebbia si diradava.
- Perché?
La mediocrissima carriera di Ajaccio che, a cinquantadue anni, alle soglie della pensione, era ancora un semplice agente, si fondava sulla pochezza della sua intelligenza. Cosa che lui sapeva bene e molto spesso si ripeteva. Non con la caparbia crudeltà di un aguzzino bensì con la cantilenante innocenza di un povero cristo. Il concetto era stato assimilato senza tormenti e non rimaneva in lui che la traccia di un livido lontano, giovanile, che risaliva al tempo in cui l’aveva sperimentato. Viveva da quasi trent’anni in una camera ammobiliata al secondo piano di un cadente palazzo che s’affacciava sul porto. Era invecchiato insieme alla sua stanza e alla padrona di casa, una vedova avara e pignola. In tanti anni di convivenza non avevano mai cenato insieme. Ajaccio trovava in forno due piatti, a volte uno, sui quali erano ammucchiate a casaccio delle pietanze sempre tiepide, una forchetta e un coltello d’alluminio, il cucchiaio se c’era la zuppa, e un bicchiere colmo a metà di vino rosso, acidulo. Si portava tutto in camera, lentamente, evitando di accendere la debole luce del corridoio, e spesso neanche apriva la finestra per farsi compagnia con i rumori della strada. Era passato attraverso questo grande scempio quasi senza accorgersene, in punta di piedi, come se la vita non fosse stata la sua, e nemmeno quella d’un altro, ma un qualcosa cui non ci si poteva sottrarre e al quale soggiaceva con distaccata pigrizia. Se un lembo della carta da parati marroncina si staccava dal muro, con calma, nel giro di una settimana, lo accostava nuovamente con un po’ di colla, sicuro che non sarebbe stato un intervento definitivo, che presto un’altra falla nella fragile struttura della stanza si sarebbe aperta e anche a quella avrebbe trovato il modo di porre rimedio, non per sé ma perché andava fatto, perché chiunque l’avrebbe fatto. E così, a suon di rattoppi, aveva trascorso quei trent’anni.
- Perché? - tornò a dire e allontanò le coperte che lo soffocavano.
Ajaccio non era un vagabondo, anzi, all’apparenza era esattamente il contrario, ma aveva qualcosa di decisamente sradicato nel suo essere. Al punto che non la città, ma anche solo una via, un bar, la sua stanza, non gli sarebbero mai appartenute né qualcuno, incontrandolo, avrebbe potuto dire che quell’uomo possedeva qualcosa o veniva da qualche posto di preciso.
Il mondo non era suo e lui non era del mondo. Era vissuto ai margini, cibandosi di quel poco che trovava nelle pattumiere. Ma tutto questo non l’aveva mai sentito veramente, se non adesso.
L’aria si mosse appena quando la porta si aprì e poi richiuse.
Ajaccio si voltò e vide una figura che per un istante gli parve familiare e confortante. Gli venne da sorridere. Poi l’uomo, senza parlare, si avvicinò al letto e lo osservò con occhi gelidi e penetranti.
- Fa male? - chiese infine, sottovoce, puntandosi l’indice della mano sinistra alla tempia.
Ajaccio annuì, a disagio.
- Sono il professor Civita, - disse l’uomo, come trasformandosi e diventando affabile. - Il primario del reparto.
Ajaccio lo guardò bene. Tutti i medici avrebbero dovuto vestirsi così, senza camice, semplicemente con una giacca, pensò. Il professor Civita aveva l’aria di un qualsiasi visitatore. Di un amico, magari. E di nuovo provò quella sensazione di familiarità iniziale. Sorrise.
Poi il professor Civita parlò, sempre sottovoce ma infiammandosi, gesticolando per sottolineare immagini e concetti che ad Ajaccio parvero straordinariamente vivi e pulsanti. Il primario usò una metafora che, a suo dire, era interessantissima. Paragonò il corpo umano a uno Stato. In quest’ottica, spiegò, si poteva affermare che come lo Stato si aspetta dal singolo uomo che si comporti in modo tale da essere utile alla conservazione del tutto, così l’individuo si aspetta dai suoi organi che funzionino in modo tale da consentirgli la vita. L’organo, a catena, pretende che per le stesse ragioni le cellule facciano il loro dovere. In questa gerarchia ogni singolo era perciò sempre in conflitto tra vita personale e subordinazione agli interessi dell’unità superiore. -Ogni struttura complessa, - continuò infervorandosi, -... l’uomo come lo Stato... si adopera perché tutte le parti accettino l’idea comune e la servano. E se può tollerare l’improduttività di pochi non può assolutamente permettersi il lusso di sopportare una rivoluzione. Perché ogni rivoluzione, non identificandosi negli ideali comuni, prima o poi farà crollare la globalità costituita. La sua malattia è una rivoluzione. Cellule eversive che non solo non collaborano più ma che addirittura corrompono tutti gli elementi con i quali vengono in contatto. Ed è una rivoluzione che non tende ad alcun fine se non all’esaurimento del, terreno di coltura. Sono cellule terroriste e fanatiche che dopo anni e anni di cooperazione, di colpo, hanno cambiato intendimenti e abbandonato l’identificazione comune. Cominciano da quel momento a seguire scopi propri senza preoccuparsi d’altro. E il paragone con i movimenti rivoluzionari è calzante anche dal punto di vista strategico, perché nel loro cammino di moltiplicazione procedono per due vie: l’infiltrazione, trascurando tutti i confini morfologici, e la creazione di basi proprie, le metastasi. L’unica possibilità dello Stato è di reprimere sul nascere i ribelli... - una pausa nella quale ad Ajaccio era sembrato che il professor Civita stesse per sorridere. -Purtroppo nel suo caso siamo in grave ritardo.
Parve pensare intensamente a qualcosa. Poi guardò Ajaccio dritto negli occhi. La sensazione di familiarità cedette il posto a uno stato di profondo disagio.
- Deve essere preparato al fatto che forse... stenterà a riconoscersi durante la fase conclusiva... terminale... della malattia. Questo genere di tumori è spesso caratterizzato da accessi convulsivi che assomigliano a crisi epilettiche e comunque da turbe della personalità. Si troverà a fronteggiare stati d instabilità, caratteristiche aure sensoriali consistenti in sgradevoli sensazioni olfattive e gustative e, magiari, anche uditive e visive. Potrebbe associarsi anche un particolare disturbo della coscienza, un senso d’irrealtà, una costante impressione di rivedere cose del passato, un dominante carattere onirico nella fase di veglia che chiamiamo «stato sognante». Può essere molto penoso... - si fermò un istante, quasi volesse assaporare il peso della parola «penoso» sul paziente. - Non escludo che possa avere delle allucinazioni... - riprese il professor Civita. - Succedono le cose più strane... Una volta ho trovato un mio paziente, che curavo a casa, la sua casa, un posto nel quale era vissuto per più di quarant’anni, che piangeva in un angolo del salotto come un bambino. Era terrorizzato. Proprio come un bambino. E sa perché? - Un sorriso. - Non ricordava la strada per tornare in camera da letto... la sua camera da letto, - guardò ancora Ajaccio. - Ha capito bene a cosa va incontro?
- Certo.
- Mi fa piacere. Mi fa... molto piacere, - disse dopo una lunga e imbarazzante pausa. Poi, senza aggiungere altro, si avviò alla porta, la socchiuse, spiò nel corridoio, prima a destra e poi a sinistra, e uscì dalla stanza, silenziosamente come era entrato.
Ajaccio girò le spalle alla porta. Era di nuovo solo, adesso.
- Dovresti dormire, - si costrinse a dire ad alta voce.
Ma sapeva che non ci sarebbe riuscito. Era vigile, attento. Come se avesse fiutato un pericolo. Si mise a sedere, prese il bicchiere d’acqua sul comodino, bevve e lo riappoggiò sul piano. Poi vide gli occhiali e li ripose nel cassetto. Nel cassetto trovò un foglio di carta. Sul foglio di carta il suo nome e cognome, scritti decine e decine di volte. Non ricordava d’averlo fatto. Le due A iniziali del nome e del cognome erano scritte sempre minuscole. Solo alcune lettere all’interno erano invece maiuscole e la penna le aveva calcate con ostinazione, per dargli un corpo maggiore, come per evidenziarle. In alcuni punti il foglio era stato quasi bucato.
Ajaccio sentì una forza immensa pigiargli dentro la testa, quasi che le ossa del cranio dovessero aprirsi. La cosa che l’invadeva, o il cervello stesso, o tutti e due, volevano uscire.