XII.
L’uomo si ritrovò ancora una volta sull’orlo del precipizio che preludeva alla città vecchia. Il percorso che ripeteva ogni mercoledì con meccanica determinazione aveva fine al colmo d’una stradetta che poteva essere considerata l’arteria principale per accedere ai quartieri bassi. Era una via, non larga né piccola né scivolosa, che iniziava innocua dalla grande piazza nella quale nasceva il corso. Digradava dolcemente e su entrambi i marciapiedi, per una cinquantina di metri, s’affacciavano negozi dignitosi, bar puliti e un’edicola attrezzata. Poi la strada si spampanava in una piazzetta sempre intasata di macchine. A quel punto, per chi avesse voluto andare oltre, sarebbe stato impossibile ritrovare al di là dello slargo la continuazione ideale della via. Il paesaggio architettonico mutava radicalmente e molti, per istinto, si voltavano indietro, quasi a sincerarsi di non essere capitati in un’altra realtà. Dalla piazzetta partivano tre viuzze già infettate dall’odore di muffa e putredine che da lì in poi non avrebbe più abbandonato la città vecchia. Come in uno scarabocchio infantile nessuna delle tre stradine proseguiva in linea retta dando anche solo l’impressione che la via di prima continuasse comunque, seppur strozzata. Al contrario, senza una logica decifrabile i tre vicoli impazzivano in improbabili direttrici. I negozi stessi risentivano della metamorfosi: le vetrine erano trasandate pur senza essere veramente sporche e spoglie, impostate alla praticità e alla povertà di poveri e pratici messaggi economici; i capi esposti sembravano quasi slavati. Era come se originariamente fossero stati progettati per mantenere le stesse forme e gli stessi sgargianti colori dei vestiti più cari dei negozi del corso ma l’atmosfera, o qualcosa che galleggiava nell’atmosfera, li avesse in seguito sbiaditi e sgualciti.
L’uomo s’infilò per una delle tre vie. Rallentò il passo, come volesse gustare fino in fondo quell’immersione, e inspirò profondamente. I vecchi pescatori dicevano di sentire ancora il profumo del mare. I nuovi bambini non sapevano neppure che esistesse. L’esalazione che invece l’uomo percepiva più chiaramente era quella del lattice dei preservativi. Durante le sue ricognizioni ne incontrava a decine, così concentrati che saturavano l’aria con il loro puzzo sintetico e umano insieme. Ogni volta che ne vedeva uno a terra lo schiacciava con la suola delle scarpe aspettando il rumore viscido che si produceva e che gli ricordava la saliva spinta fra i denti.
Arrivò al bar dove si fermava tutti i mercoledì a quella stessa ora del pomeriggio. Il padrone dell’esercizio, appena lo vide, aprì una sedia pieghevole e la accostò a un tavolino coperto da uno straccio plastificato a riquadri rossi e bianchi, pulì la misera tovaglia con un panno umido e mentre l’uomo si accomodava andò al banco e riempì un bicchiere di latte. Glielo appoggiò sul tavolo, sorrise e si eclissò,
Allora gli occhi dell’uomo si spostarono su un locale risicato all’angolo di due stradine che aveva due ampie vetrate, ognuna su uno dei vicoli, a una ventina di passi da lui. L’ambiente non aveva segreti per l’uomo e avrebbe potuto ricostruirlo nella sua mente fin nei minimi dettagli, cosa che spesso faceva. La carta da parati era rosa a righe rosse, più grandi; alle pareti erano appese due stampe arricciate dall’umidità; un faretto con la lampadina rossa penzolava dal soffitto basso; un solo comodino in legno chiaro era stato posizionato alla destra del letto matrimoniale con la testiera sporca; nei mesi invernali il letto era coperto da un’imbottita di raso a fiori, e, sotto il giaciglio, si ammucchiavano cumuli di riviste, alcune di pettegolezzi, altre pornografiche.
Il negozio, nel suo campionario, aveva un unico articolo che con gli anni andava deteriorandosi. Il nome della prostituta, una cinquantenne al tempo stesso bottegaia e merce, era Clara.
L’uomo l’aveva vista per la prima volta qualche anno prima. Gli era capitato di leggere un articolo su una rivista che parlava di prostituzione. La grande maggioranza delle professioniste del sesso, secondo l’articolo, aveva scelto quel mestiere per ragioni psicologiche prima ancora che economiche. Nell’infanzia di quel genere di donne, sostenevano i due studiosi che avevano redatto la ricerca, era esistita una violenza di natura sessuale, vera o presunta, in seno alla famiglia. Quello che mesi di continue e diversificate interviste avevano fatto venire a galla era il comune desiderio delle mercenarie di esercitare un controllo sulla loro vita sessuale adulta, così forte e impellente da trasformarsi in necessità. La psiche di ciascuna di quelle professioniste, discorso valido tanto per le più giovani quanto per le più attempate, annaspava nella confusione tra il piacere sessuale e il senso di colpa per ciò che avevano subito nell’infanzia. Il piacere e la vergogna si fondevano nella loro realtà quotidiana in maniera talmente perfetta che non era più possibile scindere l’uno dall’altra. Il risultato era una originale sensazione fatta in egual misura di tenerezza e di violenza, di sicurezza e di rischio. L’attività di meretricio permetteva loro di coniugare contemporaneamente le contrastanti pulsioni. Era come se rivivessero il passato inferno della violenza garantendosi quel controllo che era mancato loro nell’esperienza infantile.
Questa analisi aveva affascinato l’uomo. S’era sentito in sintonia con la loro necessità d’armonizzare il dolore al piacere, con la loro contraddittoria esigenza di rivivere con voluttà l’esperienza straziante; come se attraverso la ripetizione, e solo attraverso la ripetizione di quello schema, la propria identità si confermasse e consacrasse. Da quel giorno aveva preso l’abitudine di scendere nei vicoli della città vecchia e spiarle e talvolta «intervistarle», come diceva loro, per appurare se effettivamente nella loro infanzia ci fosse stata quella violenza. Inizialmente era animato da un sentimento che assomigliava all’affetto, se solo fosse stato capace di provarlo.
Ma questo avveniva in un’epoca buia, durante la quale era ancora lontano dall’illuminazione. Ora che aveva trovato la sua strada, il suo destino, ora che aveva compiuto il primo passo e aveva avuto la conferma che sarebbe stato in grado di portare a termine il grande disegno preparato per lui sin dalla sua nascita, non sentiva il minimo interesse per le prostitute. Avrebbe potuto guardarle per delle ore senza sperimentare quegli intensi e laceranti bruciori che gli imperlavano la fronte di sudore e gli si incistavano nella mente per giorni e giorni, tormentandolo e facendolo godere. Ora erano niente. Come tutti gli altri. Erano esseri inferiori. E cominciava addirittura a detestarle per la loro arroganza, per la loro presunzione che le aveva spinte a innalzarsi al suo livello.
Ma tra tutte queste donne Clara era diversa. Uguale perché puttana, eppure diversa. A lei riconosceva il privilegio d’essere parte del suo disegno. Marginalmente. Era solo una messaggera. Ma aveva pur sempre un ruolo. In lei aveva apprezzato fin da subito una sensibilità superiore alle sue colleghe, era meno volgare di loro, accavallava le gambe in una maniera pudica e quasi virginale, senza esibire o far allusioni al frutto strapazzato in vendita per pochi soldi che esse racchiudevano. Clara, contrariamente alle sue colleghe, quando riceveva un cliente lo guardava con un’espressione calda e confortante; non indagava dove quello non voleva che si indagasse; non giudicava ciò che andava scoprendo; i suoi occhi non tradivano mai disprezzo e, anzi, sembravano pronti a capire, accettare e accarezzare la malattia che aveva di fronte. Era una vera puttana, aveva pensato l’uomo, perché sapeva cosa volevano effettivamente gli uomini. Quegli uomini che si trasmettevano generazione dopo generazione la stessa tara d’essere uomini, affetti dallo stesso morbo, dalla stessa fame. Ecco perché andavano da lei gli uomini. Per poterle mostrare senza ritegno le proprie deformità. Farsele accarezzare. Denudarsi dei propri travestimenti ed esibire la gobba, il pene biforcuto, gli zoccoli unghiati, il pelo caprino che sbocciava loro sul petto e sulla schiena, le pupille oblunghe da serpente, la riccia coda. E volevano ferire, uccidere, mortificare. Sempre benedetti, al riparo. Non cercavano una vagina di carne ma un lago nel quale disperdere le lacrime ipocrite e salate che nessun altro lago avrebbe mai accettato d’accogliere. Lacrime che avrebbero inquinato qualsiasi acqua. Rendendola morta.
Lui, però, era lì per una ragione diversa. E per una diversa ragione rispettava ancora Clara. Lei non era né una vagina né un lago. Un fiume, semmai. Un ignaro fiume scelto dal suo luminoso destino per trasportare qualcuno di prezioso e pericoloso che lui non ricordava più di cercare.
Quel qualcuno aveva in mano il terribile segreto dell’uomo.
- È di suo gradimento? - chiese alle sue spalle il proprietario del bar affacciandosi.
L’uomo distolse lo sguardo dalla vetrina oltre la quale Clara si offriva.
- Sì, grazie, - disse.
- Ha sentito di questo sciopero dell’immondizia? - domandò il barista, sempre in piedi, con il panno umido e grigiastro avvoltolato all’avambraccio.
- Sì, ne ho sentito parlare.
- E che dicevano, che dicevano?
- Che era uno schifo, immagino.
- Già. Immagino anch’io che chiunque abbia un po’ di sale in zucca dica che è uno schifo, le pare?
- Sì. Mi pare di sì, che si possa proprio dire che è uno schifo.
- Schifo è la parola giusta.
- Sì, schifo.
- Schifo. Ma d’altro canto non fa un po’ tutto schifo a questo mondo?
- Sì, penso di sì.
- Però questo non significa che bisogna far più schifo dello schifo che già c’è.
- No, non è proprio il caso.
- Mah... - sospirò il gestore. - Che ci vuol fare...
- Già.
- Ha proprio ragione lei, - disse ciondolando il capo, poi si guardò in giro. - Io ora devo andare, con permesso.
- Prego, - disse l’uomo.
Il padrone del bar girò sui tacchi e si avviò verso la cassa.
- Brava persona, - lo sentì dire l’uomo al ragazzo brufoloso dietro il banco. - Uomo colto.
Il banchista fece un distratto cenno di assenso.
Con un brivido di piacere che gli fece fremere la spina dorsale l’uomo tornò a osservare Clara. Il barista non l’aveva riconosciuto. Il suo travestimento da uomo qualsiasi funzionava ancora. Quell’omuncolo gretto e inutile non s’era accorto della luce nuova che emanava da tutta la sua persona. E la luce gli aveva insegnato a parlare come uno di loro, in quella lingua rozza che era appena un dialetto. L’uomo si sentì invincibile. Sorrise in direzione di Clara. Se solo avesse voluto se la sarebbe potuta prendere. Come aveva fatto con l’antiquaria. Non l’aveva visto nessuno. Neanche quando aveva scritto la notifica. La sua nuova vocazione lo rendeva invisibile e lo proteggeva. Nessuno l’aveva guardato mentre rincasava con i due doni insanguinati. Sì, se solo avesse voluto si sarebbe potuto prendere Clara. Ma non era per lei la notifica. Clara era semplicemente un’inconsapevole serva del suo disegno. L'avrebbe lasciata vivere. Come segno di gratitudine per quello che aveva fatto.
Era successo una sera di quattro anni prima, all’imbrunire, prima che la madre avesse il suo incidente e rimanesse immobilizzata. Seduto a sorseggiare il latte, il puro e sensuale latte che racchiudeva in sé tutte le informazioni, insieme nutrimento e sesso, l’uomo osservava Clara. La guardava ricevere i clienti e muoversi con grazia mentre abbassava le due saracinesche; immaginava e cronometrava i piaceri che la prostituta distribuiva senza fare distinzioni. Però quella sera, per la prima volta, aveva visto sul volto di Clara una smorfia, forse di paura, quasi che tutta la sicurezza del controllo fosse stata vanificata dall’improvvisa comparsa di un cliente che non aveva mai notato prima. Non era riuscito a riconoscerlo subito. Dapprincipio gli era sembrato epidermicamente familiare, come può essere familiare qualcuno per cui si provi un’istintiva attrazione o repulsione. Poi, mentre le saracinesche calavano, la luce del lampione all’angolo aveva illuminato il volto noto. Erano passati molti anni, ormai così tanti che era un’altra vita, ma per un attimo i loro sguardi si erano incontrati e l’uomo era stato risucchiato indietro nel tempo e aveva visto il ragazzo che puntava l’indice contro di lui. Riconoscendolo e ricordando il nome e il cognome di quell’orfano scampato all’incendio all’unico scopo di tormentarlo, aveva sentito le lacrime di rabbia che non aveva mai speso in tutti quegli anni gonfiargli gli occhi. Quando il nemico se n’era andato l’uomo aveva visto Clara in un angolo del negozietto, stretta nella vestaglia di raso, le mani incrociate sul seno, le gambe rattrappite, il naso lungo e appuntito che si dilatava in cerca d’aria e aveva compreso che anche lei era vittima dell’orfano. Seduto al bar, fisicamente irraggiungibile, l’uomo s’era trovato a pensare che lui stesso non aveva scampo perché il suo nemico era risuscitato dal passato per perseguitarlo ancora e ancora. Perché lui e Clara erano le sue vittime.
- Mi scusi, - disse il proprietario del bar dietro di lui, entrando nei suoi pensieri e facendolo sobbalzare. - Oggi dovrei chiudere prima...
- Come? Sì, certo... chiudere prima...
- Mi spiace, sa?
- Sì, certo, - disse l’uomo, s’alzò, lasciò cadere una banconota sul tavolino e s’allontanò, lentamente, con pesantezza.
- Non lo beve il suo latte? gli chiese il proprietario del bar.
L’uomo non lo sentì, mettendo un piede davanti all’altro e risalendo un vicolo ripido come una scarpata e corroso come il letto di un torrente. Giunto in cima alla salita si voltò. Le luci del negozietto di Clara andavano progressivamente scomparendo. Era tutto sotto controllo, adesso. Le strade gli si spianavano davanti, le case s’inchinavano al suo passaggio, il cielo si oscurava affinché la sua luce risplendesse ancora di più.
Quando arrivò all’ospedale aveva ripassato ancora una volta la storia antica. Entrò nella stanza della madre senza che nessuno lo notasse, si sedette accanto al letto dove la vecchia, immobile, fissava il soffitto coi suoi occhi di vetro. Accarezzò un lembo del lenzuolo che avvolgeva la madre con il mignolo amputato. Il moncherino gli diede una fitta. Non violenta, non dolorosa. Ma violentemente e dolorosamente piacevole.
«Non ti tocco, mamma, non ti preoccupare», - pensò l’uomo con una voce da bambino.
Poi prese un foglio di carta e cominciò a scrivere ossessivamente il nome dell’orfano che aveva memorizzato trentacinque anni prima e lo scrisse tante volte che alla fine non rimase più un solo spazio bianco sulla pagina.
- Buonasera, - disse una voce di donna.
L’uomo si voltò.
- Ha visto come sta bene qui sua madre? - disse sorridendo la giovane dottoressa.
L’uomo non l’aveva mai vista in camice. Quando andava a casa sua per prendersi cura della madre era sempre in abiti borghesi. Ora, con tutto quel bianco, le parve più carina. Mentre quella si piegava sulla vecchia e le auscultava il petto, concentrata, la guardò con attenzione. Aveva gambe ben tornite. Un’ossatura forte. La pelle, seppur velata dalle calze, non sembrava delicata. Forse era una donna pelosa. Le donne pelose spesso avevano un’epidermide più coriacea.
La dottoressa si rialzò dal letto della vecchia, si mise lo stetoscopio intorno al collo, si portò una mano ai reni e inarcò il busto. Era stanca. Glielo si leggeva in viso.
- Passa molto tempo in piedi? - le domandò l’uomo.
- Come? - chiese la donna.
- Immagino che le facciano male le gambe a fine giornata.
- Sì. Noi medici d’ospedale soffriamo delle stesse patologie che affliggono i camerieri, - disse ridendo.
- Mi dispiace che soffra.
- Ah... grazie... - rispose la dottoressa, imbarazzata.
- Dovrebbe stendersi e metterle in alto, in maniera che il sangue defluisca senza sforzo.
- Sì... be’, spesso lo faccio.
- A casa sua?
- Sì... la sera.
- Bene. Deve tenerle da conto le sue gambe.
La dottoressa non sapeva che rispondere.
- Sono belle gambe, - aggiunse l’uomo.
La donna sì accorse che le guance le si imporporavano. Si passò nervosamente la lingua all’angolo della bocca.
L’uomo aveva già notato che in ospedale non si metteva il rossetto.
La dottoressa sorrise ancora, più timidamente questa volta, inclinando appena la testa.
- Grazie... - sussurrò.
L’aveva sempre trovato un bell’uomo anche se la metteva in soggezione. Ma ultimamente sembrava cambiato. Meno lontano. Più accessibile. E ora quel commento sulle sue gambe.
- E qualcuno le mette un cuscino sotto le caviglie?
- Come?
- Chi le alza le gambe e la aiuta ad appoggiarle su un cuscino morbido, la sera, a casa sua?
La donna si sentiva avvampare. Lo sguardo di quell’uomo era così intenso, quasi febbricitante. Voleva sapere se era libera? Se era disponibile?
- Nessuno... - rispose mentre il cuore le accelerava in petto.
- Peccato.