Capitolo cinquantatré

Arlecchino le portò del cibo caldo: un piatto di pasta con salsa di acciughe e cipolle. Era già un quarto d’ora che sentiva il profumino dalla sua cella e aveva l’acquolina in bocca.

Ma la sua era un’attesa mista a paura. Se le portava del cibo caldo significava che si sentiva in colpa per qualcosa che le avrebbe fatto più tardi. Dopo che ebbe finito di mangiare, i rapitori sistemarono la videocamera in una nuova posizione, fecero alzare Mia e la misero di profilo davanti al grande lenzuolo con la scritta ADM. Passarono cinque minuti a calcolare le diverse angolazioni in modo che Arlecchino potesse mettersi accanto a Mia senza ostruire la visuale.

Alla fine sistemarono la videocamera su un treppiede e Bauta li lasciò soli.

Arlecchino indicò la tuta arancione. «Toglila».

Mia abbassò la cerniera e sfilò l’indumento. Rimasta in piedi con solo la biancheria addosso, l’uomo le disse: «Allungati più che puoi verso il muro».

Era lontana circa un metro dalla parete che le stava indicando. Allungatasi in avanti al massimo delle sue possibilità, poté sorreggersi solo con le mani.

«Non muoverti».

Lo sentì uscire dalla cella. Il tempo di tornare – circa tre minuti – e le braccia di Mia stavano tremando per lo sforzo per mantenere la posizione.

Arlecchino le si piazzò accanto. Mia lo sentiva respirare profondamente, quasi stesse cercando il coraggio di fare qualcosa.

Cosa fosse, Mia non voleva saperlo.

Le braccia non riuscirono più a sostenere il suo peso e, com’era prevedibile, le ginocchia cedettero facendola cadere a terra.

Arlecchino esitò, poi, dopo uno strano grido inarticolato, girò i tacchi.

Mia si guardò attorno, confusa. La stanza era vuota.

Passarono cinque minuti. Sentì delle voci alzarsi nella stanza accanto. «È troppo tardi per questo! Fai quello che sei venuto a fare!».

Mia capì: qualcuno stava ordinando ad Arlecchino di andare fino in fondo. Poi riconobbe la voce roca di Arlecchino rispondere: «Io non posso farlo. Non voglio».

Sentì il suono dei passi che si avvicinavano. Mia tornò immediatamente ad assumere la posizione contro il muro. Capì subito che non era Arlecchino, quell’uomo stava fischiando, lo stesso fischio sgradevole che aveva già sentito.

Si materializzò accanto a lei e Mia lo vide piegare le ginocchia. Poi, senza nessun avvertimento, le sferrò un violento colpo nella pancia con il dorso della mano.

Mia crollò a terra con un gemito e lo vide guardarla facendo un cenno con la testa, come a dire: “È così che si fa”.