Capitolo quarantacinque

 

 

Cate stava esaminando il filmato più recente, quello in cui Mia veniva sbattuta ripetutamente contro una parete. Le era venuto in mente che se si fosse trattato di una risposta improvvisata alla minaccia della chiusura di Carnivia, i sequestratori avrebbero potuto commettere una svista o un errore che non avevano fatto negli altri filmati.

Piola sopraggiunse alle sue spalle. «Niente?».

Cate scosse la testa, frustrata. «Nonostante ci sia una curiosa discrepanza tra i titoli e il filmato». Tornò indietro al primo titolo. «Vedi qui? C’è scritto: “La detenuta rimane nuda” ma poi si vede Mia, e non lo è. Indossa una tuta».

«Qual è corretto?»

«La frase è l’esatta citazione dei memorandum della CIA. Allora perché darle dei vestiti? Il sequestro sembra avere come unico scopo quello di gettare scandalo sui metodi della CIA. È singolare che sprechino quest’opportunità per ottenere maggiori visualizzazioni».

«Forse Mia ha fatto qualcosa per meritarsi un trattamento di favore. O magari si sono semplicemente stancati di umiliarla».

«Un fatto di per sé interessante», rispose, riflettendo. «Lascia intendere che non sono spietati quanto le persone che stanno emulando». Alzò lo sguardo verso di lui. «Hai parlato con Sagese?»

«Sì». Sembrava frustrato quanto lei. «Come parlare a un muro».

Il direttore della Trasformazione non era stato più collaborativo dell’ultima volta che si erano incontrati, il mattino dell’irruzione dei manifestanti. Accompagnato dagli avvocati della Costruttori Conterno, gli aveva rivelato di avere soltanto dato una scorsa ai rapporti di Mazzanti. Le decisioni operative in materia di sicurezza, aveva precisato, spettavano unicamente agli americani.

Gli avvocati si erano invece preoccupati di accertarsi che i carabinieri non stessero prendendo in considerazione l’idea di soddisfare le richieste dei sequestratori. Ogni passo in quella direzione avrebbe comportato un’immediata richiesta di risarcimento per milioni di euro a carico della ditta costruttrice. Avevano già richiesto e ottenuto l’assicurazione da parte delle più alte cariche del governo che si sarebbe rigidamente osservata la politica vigente riguardo al non fare concessioni ai rapitori.

Piola aveva guardato Sagese negli occhi. «Tanto per essere chiari, se si fosse costretti a fare una scelta tra l’indire un referendum e lasciare Mia a marciare chissà dove, lei opterebbe per la seconda?»

«Ma non ci sono solo due alternative, giusto, colonnello?», aveva risposo l’altro con sufficienza. «C’è anche una terza opzione, ovvero che i carabinieri facciano il loro lavoro e la trovino. E per rispondere alla sua domanda, non importa quanto la richiesta di un sequestratore possa apparire innocua: se li accontentate, il giorno dopo dovrete vedervela con decine di altri rapimenti».

Piola stava perdendo tempo e aveva deciso di alzare i tacchi. Ma mentre se ne stava andando, Sagese l’aveva fermato.

«A proposito, colonnello, ho pensato che fosse meglio darlo a lei».

Gli stava porgendo un piccolo documento rosso. Sul davanti c’erano uno stemma e la scritta република србија: пасош.

«L’addetto all’escavatore l’ha dimenticato quando è fuggito», aveva aggiunto. «Quando i miei uomini l’hanno trovato, non sapevo bene cosa farmene e così l’ho messo al sicuro nella cassaforte».

Piola l’aveva preso. Era un passaporto serbo a nome di Tarin Krasnaki. Altra prova che Krasnaki aveva falsificato i suoi documenti di lavoro. Mentre nel suo processo di adesione all’Unione europea l’Albania aveva fatto progressi sufficienti per permettere ai suoi cittadini di lavorare in Italia legalmente, la Serbia aveva ancora delle difficoltà. Ma era strano che quell’operaio si fosse scordato un documento così importante.

Ricordandosi solo ora del passaporto, Piola lo tirò fuori dalla tasca e lo porse a Cate. «Apri un fascicolo per scomparsa di persona a questo nome, d’accordo? Dubito che lo troveremo, ma non si sa mai».

In mezzo alla baraonda della sala operativa, una voce coprì le altre. «C’è un nuovo filmato».

Tutti i carabinieri presenti si radunarono intorno a uno degli schermi più grandi. Qualcuno premette il tasto “Play” e la stanza si zittì.

Il filmato cominciava con una delle solite frasi:

SECONDO GLI STATI UNITI LO STRESSFUL STANDING NON È UNA FORMA DI TORTURA.

Di seguito comparve un’immagine di Mia seduta su una sedia. Aveva i polsi ammanettati e indossava la solita tuta arancione, ma non c’erano altri indizi che la stessero maltrattando.

Sulla stessa immagine si susseguirono altre frasi.

GIUDICATE VOI STESSI.

IN RISPOSTA AL TENTATIVO IGNOBILE DA PARTE DEL GOVERNO ITALIANO DI CENSURARCI, CHIEDIAMO DIRETTAMENTE AL POPOLO ITALIANO DI SOSTENERE LA NOSTRA RICHIESTA DI INDIRE UN REFERENDUM LIBERO E LEGITTIMO.

PER QUESTO MOTIVO NON USEREMO PIÙ I MEDIA STATALI E FILOSTATUNITENSI COME INTERMEDIARI. D’ORA IN POI CI RIVOLGEREMO DIRETTAMENTE AL POPOLO.

ALLE 21:00 LA BELLA ELSTON NON VERRÀ TORTURATA.

SEGUITE LA DIRETTA SU CARNIVIA.

Apparve l’URL di Carnivia. Poi lo schermo divenne nero. Era tutto.

«Cosa significa?», chiese qualcuno.

«Significa che hanno cambiato tattica», rispose un altro ufficiale. «È come la presentazione di un film che invogli la gente ad andare a vederlo».

«A quanto pare i sequestratori dettano l’agenda, di nuovo», disse tranquillamente Cate a Piola.

Lui annuì. «Hai ricevuto notizie da Holly?»

«Mi ha lasciato un messaggio».

«E?»

«Ha parlato con Carver. Non ci sono novità, ma ci terrà informati. Il tono della voce non lasciava spazio a molte speranze». Mentre parlava, si rese conto che tutti gli occhi erano puntati su di loro. Senza dubbio, la notizia che avevano ripreso a parlarsi si sarebbe sparsa per l’edificio nel giro di pochi minuti. «Preferisci che continuiamo la conversazione da un’altra parte?».

Piola declinò la proposta. «Non ho nulla da nascondere. Che altro?»

«Be’, ci sarebbe un posto che non abbiamo ancora controllato».

«Quale?»

«Carnivia».

Sollevò le sopracciglia. «Non è territorio del CNAIPIC

«Tecnicamente, forse, ma qualsiasi cosa abbia a che vedere con Carnivia, a mio parere richiede la cooperazione di Daniele Barbo. E non credo che dopo essere stato trattenuto senza un capo d’accusa sarà dell’umore per aiutare il CNAIPIC a questo proposito».

«Credi che con te parlerà?»

«Vale la pena provare».

Mentre Piola tornava alla scrivania, squillò il telefono. «Pronto?»

«Ispettore Marino della polizia di Padova», disse una voce. «Parlo con il colonnello Piola?».

Piola confermò.

«Potrà sembrarle una domanda strana, colonnello, ma ha per caso qualche legame con la dottoressa Ester Iadanza?»

«Dottora», lo corresse in automatico. «Si fa chiamare “dottora”. E sì, sta lavorando a una mia indagine. Perché?».

La voce dell’ispettore Marino era sospettosa. «E con il professore Cristian Trevisano?»

«Anche lui». Piola stava cominciando ad avere un brutto presentimento. «Perché me lo chiede, ispettore?»

«Sono entrambi morti», rispose senza tanti giri di parole. «A quanto pare, lui le ha sparato e poi ha rivolto la pistola contro di sé. La chiamo perché ho sentito il messaggio che le ha lasciato in segreteria. Ho pensato che magari fosse una persona coinvolta nei fatti».

«Era un’archeologa forense», rispose a fatica. D’un tratto si ricordò del suo fondoschiena formoso mentre scendeva dalla scala, del modo in cui lui l’aveva osservato con ammirazione per poi pentirsi di averlo fatto. Era intelligente, una persona entusiasta e vivace, e ora era morta. Si mise a sedere per l’improvvisa fitta allo stomaco. «Stava rimuovendo uno scheletro dalla base Dal Molin per noi. E Trevisano… Mi ero rivolto a lui per l’identificazione».

«Sapeva che erano amanti?».

Piola cercò di ricordare. Certo, era stata la dottora Iadanza a raccomandargli il professore, ma niente lasciava intendere che i due fossero sentimentalmente legati. «Ne è sicuro?»

«Sicurissimo. Li hanno trovati nell’appartamento dell’uomo, a letto. Chiaramente, vista la presenza di un’arma, non possiamo scartare l’ipotesi di stupro, anche se sembra alquanto infondata: accanto al letto c’erano una bottiglia di vino, una ciotolina di olive e i noccioli di quelle mangiate. La mia idea è che dopo avere fatto l’amore, lei gli abbia detto di volerlo lasciare e lui non l’abbia accettato». Marino parlava con voce spezzata e leggermente in affanno. Probabilmente, pensò Piola, l’ispettore stava camminando a passo spedito verso un bar per pranzare. «A ogni modo, ho pensato che fosse giusto chiamarla, come cortesia tra colleghi».

«Grazie. Ma devo dirglielo, ispettore. Dubito che sia andata così. Nessuno dei due era un tipo avventato».

«Be’, chi può dirlo?». La voce di Marino era neutrale. «Quando si tratta di affari di cuore, facciamo tutti cose strane».

«Ma state raccogliendo altre prove? Seguirete l’ipotesi del duplice omicidio?».

Ci fu una breve pausa. «Perché dice così? La sua indagine avrebbe potuto metterli in pericolo?»

«No, almeno credo», ammise Piola. Aveva chiesto loro di identificare il partigiano mancante, pensò, quello che era sopravvissuto all’esecuzione di Max Ghimenti e degli altri. E nel messaggio che gli aveva lasciato, la dottora Iadanza diceva di avere trovato qualcosa di interessante. Ma aveva una voce tranquilla, che non lasciava trasparire la minima preoccupazione riguardo un eventuale pericolo. «Tuttavia, penso che dovreste portare avanti le indagini».

La voce di Marino si fece fredda. «Non so come siete abituati a procedere voi carabinieri, colonnello, ma noi delle polizia esaminiamo tutte le prove di cui disponiamo ed esprimiamo un giudizio professionale prima di spendere i soldi dei contribuenti per indagini inutili. La squadra che ha lavorato sulla scena del crimine, tengo a precisare, è estremamente competente».

«Non ne dubito», rispose Piola. «Non era mia intenzione insinuare il contrario».

«A ogni modo, ci hanno negato il periodo di congedo in maniera da poterci concentrare sul sequestro di questa adolescente americana». Marino fece una lunga pausa. «Un caso vostro inizialmente, da quanto ho capito».

«Esatto. Siamo molto grati per la vostra collaborazione», mentì Piola. «Posso darci un’occhiata?»

«A cosa?»

«All’appartamento del professore».

«È una scena del crimine, colonnello. Non possiamo permetterle di contaminarla. Le mando le foto».

Riattaccò prima che Piola avesse il tempo di fargli notare che, prima di tutto, difficilmente avrebbe potuto contaminare la scena visto che non ci sarebbero state più indagini, e secondo, che era singolare che continuasse a definirla una scena del crimine dopo tutto il gran daffare che si era dato per sottolineare che non si sarebbero più disturbati a considerarla tale.

Profanato
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