Capitolo ventotto

 

 

Seduta sul materasso con indosso la tuta arancione, Mia si era cinta le ginocchia con le braccia e singhiozzava. Con il passare delle ore senza altra compagnia se non i propri pensieri, il terrore era stato sostituito da una disperazione dolorosa e cupa.

“In che casino mi sono cacciata”.

Ormai aveva capito in che modo i rapitori intendevano impedire che la situazione si trascinasse per le lunghe: avrebbero aumentato i suoi tormenti poco per volta, sempre filmando il tutto. Sarebbe spettato agli Stati Uniti trovare una soluzione prima che le cose si mettessero davvero male.

Non si faceva illusioni, sapeva che i suoi genitori non avrebbero potuto dire la loro al riguardo. Suo padre era un soldato. Obbediva agli ordini, proprio come si aspettava che gli uomini sotto il suo comando obbedissero ai suoi.

Al pensiero dei genitori, la disperazione si fece più acuta. Ormai dovevano aver saputo dove era stata rapita. Chissà cosa pensavano di lei.

Si inginocchiò e provò a pregare. A casa lo facevano tutti insieme, ogni settimana; era una delle cose su cui il padre insisteva. Lei non era sicura di credere davvero – non che avesse mai osato dirglielo – ma in quel momento la rassicurò, come se le permettesse di entrare in contatto non con Dio, ma con la sua famiglia.

Al rumore della catena alla porta capì che i rapitori stavano venendo a prenderla di nuovo. Premette più forte le mani tra loro e strizzò gli occhi, sussurrando in silenzio tra le dita.

Sentì la porta aprirsi, ma non arrivò alcun ordine.

Continuò a pregare. Ma ancora nulla. Trascorse un minuto. Quando alla fine alzò lo sguardo, vide Arlecchino in piedi sulla soglia. L’aveva lasciata finire.

«Alzati», le disse. «Abbiamo del lavoro da fare».

La legarono di nuovo per i polsi, con le braccia che sostenevano quasi tutto il suo peso e le manette in metallo che le penetravano nella carne.

D’un tratto, senza alcun preavviso, Arlecchino l’afferrò per il bavero della tuta e la tirò con forza verso di sé, per poi scagliarla all’indietro. Mentre lei girava insieme alla corda, le diede un violento schiaffo sulla guancia, con il palmo aperto.

Lei strillò. Non solo per il dolore, ma anche per la violenza improvvisa e scioccante. Dopo che le aveva dato la tuta, si era convinta che Arlecchino non volesse farle del male. Tremante, indietreggiò quel tanto che la corda le permetteva.

Bauta riprendeva tutto, impassibile.

Ora Arlecchino aveva il respiro pesante. La fece girare con la corda, poi la strattonò in avanti e le afferrò il viso con entrambe le mani, tirandolo così vicino al suo che lei riuscì a guardarlo dritto negli occhi. Quando la lasciò andare, le diede un altro schiaffo.

«Aspetta. Voglio fare un primo piano», disse Bauta.

Arlecchino si voltò, e con un movimento repentino colpì la telecamera, che cadde dalla mano di Bauta. Erano tutti scioccati – compreso Arlecchino, che imprecò sottovoce mentre il compagno raccoglieva l’apparecchio.

Chissà se l’avrebbero lasciata andare, in caso fosse rotta, si chiese Mia.

Era a posto. Bauta stava dicendo all’altro che era a posto.

Per la prima volta, la ragazza si rese conto di quanto fosse profonda e imprevedibile la rabbia di Arlecchino.

Di colpo capì che a farlo tanto arrabbiare era stato il fatto di vederla pregare. Che fosse religioso? Accantonò la domanda per riprenderla più avanti. Non aveva tempo di pensarci al momento. La stavano slegando. Il suo corpo dolorante si accasciò con sollievo, ma si accorse che i due uomini che la sorreggevano non la stavano trascinando in cella, ma verso una sedia.

A quanto pareva, il lavoro non era ancora finito per quel giorno.

Profanato
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