Prologo
Era la serata più importante dell’anno, anche se sarebbe stato arduo trovarla promossa da qualche parte – o meglio, da qualche parte a eccezione di certe oscure bacheche online e siti specialistici, dove ancora si parlava delle fatiche degli anni passati con il tono estasiato che di solito si riserva alla finale dei Mondiali o ai festival rock. Di certo non compariva nel programma ufficiale del Carnevale di Venezia, a cui era comunque inestricabilmente legata in termini di spirito e tempistica. Molti dei partecipanti erano arrivati apposta in città, e per loro sarebbe stato l’evento più vicino alle celebrazioni ufficiali a cui avrebbero partecipato.
A mezzanotte, i seicento metri quadrati di piste da ballo del locale collegate tra loro – e, cosa più importante, il dedalo di stanze poco illuminate alle loro spalle – erano pressoché deserti. Ma nel giro di mezz’ora, la coda per usufruire degli armadietti gentilmente messi a disposizione dalla direzione si snodava quasi fino al parcheggio, dove i membri della sicurezza in smoking e papillon controllavano i nomi sulla lista degli invitati. Per l’una, la pista principale era piena.
Per chi non fosse pratico di eventi del genere, era una scena assurda. Ogni ospite indossava una maschera di carnevale, dalla classica Volto bianca, sovrastata da un tricorno, a quelle più elaborate a forma di raggi di sole, di becco d’uccello dei medici della peste medievali, o di viso ingioiellato di cortigiana del XVIII secolo. Ma in quasi tutti i casi, il travestimento era tutto lì. Dal petto in giù, i partecipanti erano abbigliati in modo più convenzionale: gli uomini in pantaloni eleganti e larghe camicie costose, le donne in gonne corte e canottiere, secondo il rigido dress code del locale.
Entro le due, il motivo di tale particolarità era ormai ovvio: i vestiti cominciavano a essere messi da parte. Le donne ballavano nude, con solo le maschere indosso. Gli uomini tenevano qualcosa in più – almeno fino a quando non si univano alla folla che andava e veniva dalle stanze più piccole. In quella zona c’erano diversi bar, dove scambiare quattro chiacchiere con altre coppie prima di scegliere. Ma la maggior parte della gente si dirigeva direttamente nelle stanze dei giochi, dove le fioche luci di colori diversi indicavano il piacere particolare a cui ogni stanza era dedicata. In alcune, corpi avvinghiati si congiungevano senza sosta, sempre con le maschere sul volto. In altre, le maschere erano d’intralcio al piacere ricercato e venivano tolte.
In ogni stanza dei giochi c’erano pile discrete di asciugamani e coppe di preservativi aromatizzati e mentine, per rispettare gli impeccabili standard igienici promessi dal sito del locale, insieme alla musica, all’illuminazione e all’atmosfera migliori d’Europa.
Sulla soglia di una delle stanze si stagliava una snella figura femminile, con una maschera dorata da Colombina ornata di piume grigie. All’interno, sei coppie facevano l’amore, illuminate solo dal fascio intermittente di una luce stroboscopica. Dietro la maschera piumata, la ragazza osservava la scena con gli occhi sgranati.
All’orecchio le giunse una voce divertita: «Ci uniamo a loro?».
Senza voltarsi, gli rispose: «Vai tu se vuoi. Io guardo e basta».
L’uomo allungò una mano verso l’orlo della sua maglietta. «Togliti questa, almeno».
«No», ribatté lei, mettendo una mano sulla sua per fermarlo. «Tu divertiti pure se ti va. Ma non con me. Era questo l’accordo, ricordi?».
Si allontanò senza voltarsi e passò alla stanza successiva. Al centro, sotto la luce giallo limone, c’erano due donne inginocchiate, circondate da uomini in maschera. La ragazza rimase un po’ a osservare, poi proseguì.
La terza stanza era completamente buia: un cartello sulla porta invitava chi entrava a togliersi i vestiti e affidarsi al senso del tatto. Quasi con rammarico, si diresse verso un piccolo bar, dove si fermò a guardare una bionda dalle gambe lunghe sdraiata supina su un tavolino basso, con un uomo a ogni lato. Tutt’intorno c’erano diverse coppie, con i drink in mano, che si godevano lo spettacolo.
«Ehi, bellezza». A rivolgerle la parola in un inglese gutturale era stato un uomo con un ampio torace da body builder, troppo abbronzato per la stagione. «Mia moglie dice che sei una gran figa».
La ragazza scosse il capo, con un fugace sorriso dispiaciuto, e si diresse di nuovo verso la pista da ballo. A un’estremità c’era una piattaforma dove una coppia di ballerini professionisti si muovevano freneticamente, con i corpi lucenti di olio e sudore. Lui aveva il petto scarno di una rockstar, ma pieno di muscoli. Restò a osservarlo, ne imitò i movimenti e si lasciò andare al ritmo martellante.
«Ciao». Una giovane in maschera, di qualche anno più vecchia di lei, la salutò con un sorriso, sovrastando la musica. «Ti diverti?»
«Un sacco».
Si sporse verso di lei. «Hai bisogno di qualcosa? Pillole, coca, sigarette a buon mercato…».
«Uh… Magari una sigaretta».
«Parla con lui». Le indicò un tipo che se ne stava un po’ in disparte, con dreadlock biondi impossibili da non notare e una maschera a tre facce. «Qualsiasi cosa ti serva. Lui ce l’ha».
La ragazza con la maschera da Colombina la ringraziò con un cenno e si avvicinò al giovane. «Ehi», gli disse in tono confidenziale.
Guardandosi in fretta intorno, lui aprì la porta antincendio e le fece segno di uscire. Lei obbedì, rabbrividendo nell’aria fredda e nebbiosa. «Ho sentito che…», esordì, ma aveva a malapena pronunciato quelle parole che si sentì afferrare da dietro da due braccia possenti. Le strapparono la maschera dal viso e la sostituirono con un sacco di un tessuto pesante. Altre mani le presero i polpacci, e i due uomini la sollevarono senza fatica, come fosse un manichino da spostare da una vetrina all’altra. Si sentì trasportare in avanti e poi appoggiare su una superficie dura, che si piegò sotto il peso dei suoi assalitori, montati su dopo di lei per legarle in fretta braccia e gambe con quelle che le parvero fascette di plastica. “Sono in un furgone”, pensò. “Mi hanno portata in un furgone. Dev’essere la polizia”. Poi, qualche istante dopo, si rese conto che la polizia italiana non l’avrebbe mai incappucciata in quel modo. «Papà?», chiamò in tono esitante, appena prima che le avvolgessero una spessa striscia di nastro adesivo intorno alla bocca, sopra il cappuccio, attutendo il grido tardivo che le scappò. Fu invasa dal terrore e dal panico ma, per quanto scalciasse e si dimenasse in modo frenetico, come un pesce fuor d’acqua, l’avevano legata troppo stretta perché riuscisse a liberarsi.
Sentì sbattere le portiere e poi il furgone si mise in moto. In tutto ci erano voluti meno di trenta secondi.
Una mano la tenne giù, e una voce maschile cominciò a canticchiarle vicino all’orecchio alcune parole in italiano prima di passare a un inglese dall’accento marcato.
«Stai ferma, Mia. Stai ferma e ti prometto che non ti succederà niente».
“Sa come mi chiamo”, si disse. Quel pensiero era più terrificante di ciò che le era appena successo. Sentì le viscere contrarsi e rilassarsi, e cercò invano di mantenere il controllo della vescica. Poi un liquido dall’odore dolciastro inzuppò il cappuccio intorno al suo naso e si sentì avvolgere dalle tenebre.