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Quando si svegliò, il sogno era ancora lì.

Il quadro con le ragazzine pallide sullo sfondo; proprio sul bordo dell'acqua. Gracili corpi a gruppi di tre o quattro. Immobilità. E un chiarore singolare sopra il lago e il profilo del bosco a est. Mattino, sì, indubbiamente mattino.

In primo piano, i due cadaveri.

Nudi e piegati in un angolo innaturale. Con ferite e gonfiori e grandi bu-chi neri al posto degli occhi, che tuttavia sembravano fissare e lanciare u-n'accusa.

Corpi di bambine. Corpi di bambine violentate e uccise.

E poi l'incendio. Lingue di fuoco che arrivano come un turbine dall'acqua, e ben presto il quadro è tutto una fiammata. Un mare di fuoco che gli fa scottare la faccia; lui volta la schiena a tutto quanto e si allontana fretto-loso.

Lo stesso brevissimo sogno. Non più di una sequenza o di una scena. La terza notte, adesso.

E quando l'immagine di Wim Fingher appare, lui è già sveglio. Inesora-bilmente sveglio. L'assassino: che durante tutto lo svolgimento delle indagini si trovava a un tiro di schioppo dal luogo del delitto, e con il quale era stato faccia a faccia in due occasioni senza reagire.

Imperdonabile.

L'ultimo segnale.

Si alzò. Aprì la porta del balcone; cielo pallido, vento tiepido, quasi im-percettibile.

Qualche titubante flessione di fronte allo specchio.

Poi colazione e lettura dell'«Allgemejne». Un'ora; lo scacco matto in tre mosse della rubrica scacchistica un'ulteriore mezz'ora; era legato a un cavallo, il pezzo del gioco più difficile da dominare.

Fece la doccia, si vestì e uscì. Ancora un'altra di quelle giornate senza contrasti, notò. Piatta e indefinita, e con una temperatura che non faceva avvertire l'aria contro la pelle. Non molta gente in giro, in città. Tempo di ferie: in centro era peggio, probabilmente; intorno a Keymer Plejn e Grote Torg dove di solito si affollavano i turisti, ma non era lì che era diretto.

Guidò invece i propri passi giù verso Zwille. Attraversò Langgraacht e imboccò Kellnerstraat dall'altra parte, questa volta. L'orologio segnava appena le undici e lui si concesse prima una birra allo Yorrick.

Si sedette sotto uno dei tigli e non si mise nessuna fretta. Si guardò intorno, e basta. Le poche persone a passeggio. Le facciate liberty. Le chiome degli alberi e il cielo pallido. Cercò di essere attento a cogliere voci in-teriori e incertezze, ma non ne venne nessuna.

Che succeda, allora, pensò. Scolò le ultime gocce e attraversò diagonalmente la strada.

Abbassò la maniglia ed entrò. Un campanello sopra la porta annunciò il suo arrivo. Un signore attempato, quasi completamente canuto e con barba ben curata della stessa tonalità dei capelli, stava giusto per chinarsi a studiare una carta geografica con l'aiuto di una lente d'ingrandimento. Alzò gli occhi. Fece un cenno col capo, con aria cortese e un po' assonnata.

«Buongiorno» lo salutò Van Veeteren. «Sono qui per quel cartello in vetrina.»

«Benvenuto» disse l'uomo.

FINE