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Reinhart era solito affermare che in realtà esiste un solo metodo infalli-bile quando bisogna rimettere in moto un'inchiesta che si è arenata: uno si beve mezzo litro di whisky e quattro birre, e quando poi è già andato a letto, garantito che non deve aspettare più di venti minuti prima che il telefono squilli e lui si ritrovi con un nuovo cadavere sul gobbo.

Forse quella tiepida sera le cose non andavano proprio così male a Sorbinowo, ma quando Van Veeteren lesse entrambi i messaggi che gli aveva lasciato Kluuge, decise comunque per una prolungata doccia fredda prima di mettersi in moto nel buio.

Non si deve sprecare la notte d'estate dormendo! gli passò per la mente.

Forse, certi pensieri dovevano essere forati prima di poter salire in superficie, pensò mentre cercava di sciacquarsi via il borgogna dalla faccia. Avevano una tale funesta tendenza a diventare automaticamente delle profezie!

A poco a poco, però, la concentrazione cominciò ad affiorare.

Che cosa cavolo poteva essere successo là fuori?

Di per sé, i messaggi di Kluuge erano limpidi come l'acqua. In particolare il secondo: «Ragazza morta a Waldingen. Rinforzi in arrivo. Kluuge.»

Chissà se ci saranno già anche i giornali, pensò Van Veeteren uscendo dalla doccia. All'attenta signorina della reception non sembrava in ogni ca-so essere sfuggito il reale contenuto dei bollettini dell'aspirante. Per un attimo lui si gingillò col pensiero di telefonare a Przebuda, che magari non aveva fatto ancora in tempo a coricarsi; ma dopo una ponderata riflessione lasciò perdere. Meglio essere misericordiosi e concedergli una buona notte di sonno; come reporter di prima linea, doveva aver già fatto il suo tempo, ormai.

Quando si infilò nel taxi in attesa, mancava qualche minuto all'una; secondo la signorina della reception, il secondo messaggio di Kluuge era arrivato poco prima di mezzanotte, perciò c'erano buoni motivi di ritenere che sia i tecnici sia il medico legale sarebbero stati sul posto a Waldingen prima di lui. Se non andava errato, doveva essere gente di Rembork, che erano i più vicini, ma sotto questo aspetto Kluuge era naturalmente meglio informato.

Sprofondò nel sedile posteriore e disse dove voleva andare.

«Che cavolo ci va a fare laggiù in piena notte?» domandò il corpulento taxista, e sbadigliò provocando la formazione di grasse pieghe sulla nuca.

«Si muova» disse Van Veeteren. «Spenga la radio e faccia silenzio.»

A parte quella di Kluuge, sul posto c'erano altre tre macchine. Due venivano per l'appunto da Rembork e avevano portato lì, oltre alla squadra dei tecnici della scientifica, anche due agenti dell'investigativa. Nella terza macchina era seduto - come constatò Van Veeteren quando si avvicinò per guardare dentro -un giovanotto con la barba e gli occhiali, attaccato a un telefono cellulare. Il commissario infilò la mano attraverso il finestrino ab-bassato e con un rapido movimento gli strappò via l'apparecchio.

«Che cazz...?»

«Commissario Van Veeteren. Lei sta ostacolando le indagini. Per quale giornale scrive?»

«'Allgemejne.'»

«Bene. Se sta tranquillo per un'oretta, le prometto che le fornirò io stesso le informazioni corrette.»

Il giovane reporter era titubante.

«Come faccio a sapere che non vuole imbrogliarmi?»

«Non imbroglio mai nessuno» disse Van Veeteren. «Chieda al suo caporedattore, che mi conosce.»

Kluuge comparve dal buio.

«È là sopra» spiegò indicando più avanti lungo la strada. «Uno di quelli di Rembork la sta esaminando... e poi ci sono i ragazzi della scientifica, ovviamente. È... è stata strangolata e violentata, su questo non c'è alcun dubbio.»

«Da quant'è che sono qui?» domandò il commissario.

Kluuge guardò l'ora.

«Da non più di una mezz'ora. L'ho trovata grossomodo intorno alle undici e venti.»

Van Veeteren indicò con un cenno del capo la colonia. Nella costruzione principale alcune finestre erano illuminate, ma gli edifici laterali erano immersi nel buio.

«E come stanno andando le cose là dentro, eh?»

«Di preciso non so» disse Kluuge. «L'altro agente è là, ma non ho ancora fatto in tempo a controllare. Vuole che l'accompagni sul... sul luogo del ritrovamento, commissario?»

Van Veeteren accese una sigaretta.

«Meglio lasciarli lavorare in pace ancora un momento» rispose. «Vorrei prima andare a controllare com'è la situazione alla colonia. Se mi aspetti in macchina, poi possiamo andare a dare un'occhiata...»

Kluuge annuì e aprì la portiera. Il commissario fece per entrare ma si fermò.

«E tu come ti senti?» chiese.

«Sa, non tanto...» mormorò Kluuge.

«Posso capire. Resta in macchina e stai al caldo. Vedrò se riesco a pro-curarmi un po' di caffè.»

Lasciò l'aspirante e le automobili, e cominciò a salire verso la colonia.

Inciampò un paio di volte su alcune radici sporgenti e fu lì lì per cadere, ma riuscì comunque ad arrivare sano e salvo sulla terrazza. Bussò a una delle finestre illuminate e fu fatto entrare da una sorella Madeleine particolarmente scontrosa, avvolta in un ampio accappatoio informe fatto del solito cotone grezzo. La donna non lo degnò né di uno sguardo né di una parola; si limitò a scortarlo silenziosamente e a piedi nudi in una stanzetta che, a quanto pareva, fungeva da ufficio. Carte, qualche raccoglitore e una pila di bibbie erano sparsi sopra la scrivania. Le consorelle, vestite di analoghi accappatoi, erano sedute in attesa ognuna sulla sua sedia, e ritto davanti al-la finestra c'era il secondo dei poliziotti giunti da Rembork. Era piuttosto evidente che stava interrogando le tre donne.

Ed era anche evidente che non stava arrivando da nessuna parte.

Van Veeteren si guardò intorno nell'angusta stanzetta. Quindi chiese al collega di potergli parlare un momento in privato, e lo condusse fuori nel corridoio.

«Come hai detto che ti chiami?»

«Servinus. Ispettore della Polizia giudiziaria.»

«Van Veeteren» disse il commissario. «Cerchiamo di parlare sottovoce, così che non scoprano le nostre strategie.»

Fece un gesto verso la porta chiusa. Servinus annuì.

«Da quanto te le stai lavorando?»

Servinus guardò l'ora.

«Be', lavorando...» disse. «Al massimo cinque minuti, stavano dormendo, perciò c'è voluto un attimo prima... anche se credo che abbiamo un piccolo problema, qui.»

«Aha» disse Van Veeteren. «E che genere di problema?»

«Non parlano.»

«Che cosa significa?»

Servinus si grattò irritato sul collo.

«Sì, è come se avessero deciso di non collaborare.»

«Che diavolo...?»

«Esattamente. Non rispondono alle domande, ecco tutto. Lei ha qualche idea di che genere di posto sia questo, in realtà? A me sembrano un po'...

sì, come posso dire...»

«Lo so» lo interruppe il commissario. «Ne parleremo un'altra volta.

Dov'è Jellinek, piuttosto? Questa è la cosa che ci interessa di più, adesso.»

«Chi?»

«Oscar Jellinek. Dove si è cacciato?»

Servinus cambiò piede e cominciò ad assumere un'aria preoccupata.

«E chi sarebbe questo Jellinek? Io qui sono appena arrivato, per la malora!»

Van Veeteren avvertì che il brivido freddo di un oscuro presagio cominciava a strisciargli lungo la spina dorsale. Non è possibile, pensò.

«Vuoi dire che non hai incontrato Jellinek?»

Servinus scosse la testa.

«E loro non ti hanno detto niente di lui?»

«Non una sillaba. Non aprono quasi la bocca, accidenti!»

Il commissario intrecciò le mani e borbottò una lunga tirata fumosa.

«Vieni» disse poi. «Devo vederlo con i miei occhi.»

Si affrettò a fare ritorno nella stanzetta. Spalancò la porta, entrò a grandi passi e si piazzò a gambe larghe in mezzo al locale.

«All right» ringhiò. «Dove avete nascosto il vostro beniamino?»

Le donne si strinsero ancora più vicino una all'altra sulle sedie, gli occhi fissi sui piedi nudi. Il commissario aspettò cinque secondi, mentre stringeva le mascelle sino a far scricchiolare i denti. Poi andò alla scrivania e picchiò un pugno sul piano.

«Dov'è Oscar Jellinek?» ruggì. «E vedete di rispondere quando vi s'interroga, per la madonna! C'è una ragazzina morta, su nel bosco, è stata violentata e strangolata, e potete scommetterci che la vostra stramaledetta setta da adesso non esiste più! Allora?»

Madeleine Zander sollevò piano la testa e incontrò il suo sguardo.

«Pensi bene a quello che dice, commissario» disse sottovoce. «Noi siamo senza colpa e lei non ha nessun diritto di venire qui a muovere accuse infondate. Abbiamo deciso di non collaborare.»

«Non risponderemo alle vostre domande» chiarì Ulriche Fischer.

«Dov'è?» le interruppe Van Veeteren. «Avete tre secondi per darmi una risposta!»

Madeleine Zander si schiarì la gola e intrecciò le mani in grembo. Entrambe le sue consorelle ne imitarono l'esempio. Abbassarono gli occhi e parvero sprofondare in se stesse. Staranno sicuramente pregando il loro equivoco Dio, pensò il commissario. Merda!

«Voi lo state nascondendo.»

Nessuna reazione.

Van Veeteren si morse la lingua e rifletté. Guardò l'ora. Mancavano dieci minuti alle due.

«Credevo che faceste a turno ad andare a letto con lui. A chi toccava questa notte?»

Madeleine Zander alzò lo sguardo e sbuffò indignata.

«Oppure state tutti insieme nello stesso letto?»

Gettò un'occhiata all'ispettore Servinus, che cominciava ad avere un'aria sempre più stupefatta. D'improvviso avvertì che il calore del borgogna gli era affiorato sulle guance. Oppure erano solo la collera e la pressione arte-riosa?

«Volete dire che è sparito?» chiese.

Nessuna delle donne rispose. Van Veeteren spezzò uno degli stuzzicadenti e lo gettò sul pavimento.

«Statemi bene a sentire! Una delle vostre ragazze è su nel bosco, morta ammazzata. Il vostro maledettissimo gran sacerdote è in fuga. Me ne frego di quali pie conclusioni ne stiate traendo voi, ma so quali ne traggo io...

Servinus!»

L'ispettore trasalì.

«Sì?»

«Resta qui, e tieni d'occhio queste tre grazie. Vedremo di metterle sotto chiave in un cellulare, non appena ne arriverà uno. Le ragazze per ora le lasciamo dormire, poveracce. Sai se è in arrivo qualche collega donna?»

«Penso di sì» rispose Servinus. «Quel sostituto, Kluuge, ne ha certamente mandate a chiamare.»

«Bene» disse il commissario.

Fece una breve pausa. Cercò di guardare fuori dei rettangoli neri come pece delle finestre e fece tre o quattro respiri profondi per calmarsi. Poi si rivolse nuovamente alle tre donne.

«È mio dovere informarvi che sarete messe agli arresti, sospettate di una sfilza di nefandezze che adesso non ho nessuna voglia di elencarvi. Omicidio, concorso in omicidio, favoreggiamento sono solo qualche esempio...»

«Lei non ha nessun diritto...» attaccò Madeleine Zander.

«Credevo di aver capito che avevate deciso di tacere» la interruppe Van Veeteren. «Posso pregarvi di attenervi alle vostre dichiarazioni? Tenete il becco chiuso!»

Servinus tossicchiò titubante. Il commissario fece un altro respiro profondo, dopo di che girò i tacchi e abbandonò la stanza.

Diavolo, pensò quando fu di nuovo fuori nel buio. Pare un film... un film di serie B veramente pessimo, con un montaggio ignobile e il suono non sincronizzato. Un'autentica porcheria!

Di per sé, non era da escludere che avesse a che fare con il vino, ma nonostante ormai fossero le due passate, non si sentiva minimamente stanco.

Al contrario. Risoluto, piuttosto. E pieno di energia.

Poi si ricordò di che cosa si trattava.

È ora che vada a darci un'occhiata, decise quando ebbe raggiunto di nuovo la macchina. Naturalmente non c'è altra via d'uscita.

Come sempre.

Il reporter dell'«Allgemejne» fece chiaramente capire che avrebbe voluto accompagnarlo, ma il commissario lo spinse di nuovo con decisione dentro la macchina. Invece toccò a Kluuge precederlo, illuminandogli la strada con la torcia tascabile; il commissario ricordò di aver detto qualcosa a proposito di un caffè, ma si augurava che fossero bastate la promessa e la premura in sé. L'aspirante era rimasto un po' traumatizzato dall'esperienza, lui se n'era accorto alla prima occhiata. Niente di cui stupirsi.

I tecnici - due giovanotti in tuta verde - avevano sbarrato l'accesso con nastri a righe bianche e rosse, e un paio di fari posizionati su treppiedi gettavano un crudo fascio di luce sulla scena del ritrovamento. Van Veeteren si fermò a qualche metro di distanza, dove non aveva bisogno di vedere troppo. Un tizio sulla cinquantina, un po' pelato, gli si fece incontro e si presentò come Suijderbeck, soprintendente della squadra investigativa di Rembork.

«Van Veeteren. Com'è?»

Suijderbeck alzò le spalle.

«Un disastro. Ragazza sui tredici, quattordici anni. Violentata. Laringe sfondata, credo. Se ha avuto fortuna, è successo nell'ordine inverso.»

«Che cosa dicono i tecnici?»

«Che è stata trascinata qui, probabilmente» rispose Suijderbeck. «Nulla sta a indicare che il delitto sia avvenuto in questo punto. Ma non hanno ancora trovato molto, si capisce.»

«Sperma?»

Suijderbeck scosse la testa.

«A quanto pare no.»

«Ma violentata?»

«Penetrata, in ogni caso» sospirò Suijderbeck. «Con qualcosa. E malme-nata un po' dappertutto.»

Van Veeteren rabbrividì. Un uomo più anziano, un po' curvo, comparve alle spalle del soprintendente. Si presentò come il dottor Monsen e il commissario pensò che la faccia non gli era del tutto nuova. Come in effetti si dimostrò ben presto.

«Van Veeteren?» esclamò il dottore, quando si fu reso conto di chi aveva salutato. «Che diavolo ci fa da queste parti? È stato trasferito?»

Il commissario ignorò la battuta.

«Sa di che cosa si tratta?» domandò Monsen. «Questo posto, voglio di-re...?»

«Ne parliamo dopo.»

«Lo credo bene. Vuole dare un'occhiata?»

Van Veeteren sospirò e infilò le mani in tasca.

«Purtroppo ne sono costretto.»

Girò intorno al masso e scansò uno dei tecnici. Diresse lo sguardo dove erano puntate le luci.

Poggiato contro il tronco di un enorme pioppo tremulo grottescamente illuminato dai fari c'era un esile corpo di ragazzina. Van Veeteren aveva avuto tutto il tempo di prepararsi alla visione, ma la realtà nuda e cruda lo colpì comunque come un pugno nello stomaco. Lo stesso pugno nello stomaco di sempre. Il corpo pallido era marezzato qua e là, soprattutto nell'area inguinale e intorno al collo e al petto, di grosse chiazze scure, e le cosce erano rigate di sangue rappreso. La testa era piegata di lato in un angolo innaturale, la lingua spuntava un po' in fuori tra le labbra sottili e gli occhi erano pietrificati in un'espressione di inutile terrore.

Clarissa Heerenmacht. Si ricordava perfino il suo nome.

Fece un paio di conti e arrivò alla conclusione che doveva essere passato circa un giorno e mezzo da quando aveva parlato con lei in quella grande stanza su alla colonia.

Poi avvertì un breve attimo di intensa vertigine, prima che un rigurgito acido dallo stomaco lo riportasse alla realtà.

C'è qualcosa che non quadra, pensò, inoltrandosi di nuovo nell'oscurità.