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La ragazza del letto numero dodici si svegliò presto.

Mattino d'estate. Nel dormitorio la luce tenera dell'alba filtrava insi-nuandosi attraverso le tende leggere: cominciava cautamente a dissolvere la notte; sollevava il buio dagli angoli, sfiorava i sogni ignari delle altre ragazze. Il loro russare leggero, tranquillo. Lei rimase stesa nel letto ancora un momento, ad ascoltarle. Cercò di distinguerle una dall'altra. Kathrine dormiva sulla schiena come il suo solito e russava piano con la bocca aperta. Belle sibilava come un serpente. Marieke alla sua destra sbuffava; aveva anche un braccio penzoloni oltre il bordo del letto, e la folta capigliatura rossa aperta come un ventaglio sul cuscino. Dall'angolo della bocca le colava una goccia di saliva; per un attimo pensò di asciugarglielo con un lembo del lenzuolo, ma poi lasciò perdere.

Avrebbe voluto confidarlo a Marieke. Almeno a Marieke. Dirle due parole; lasciarle un messaggio o qualcosa del genere. Ma adesso era il momento, e la sera prima non aveva ancora realmente deciso. Ci aveva riflettuto un bel po'. Non era una decisione facile. Quasi ci aveva perso il sonno; si era girata e rigirata nel letto di ferro cigolante fino a notte inoltrata, tanto che sia Marieke sia Ruth le avevano domandato se per caso non si sentisse bene, e Belle l'aveva pregata più volte di piantarla di fare casino.

Belle era un tipo irascibile, ma aveva un padre che in qualche modo era molto vicino a Jellinek e perciò valeva la pena di tenersela buona. O almeno così si diceva. Si dicevano tante di quelle cose, lì a Waldingen.

Era stata molto combattuta. Non sapeva quando si fosse finalmente addormentata né che ora fosse in quel momento, ma ore di sonno non doveva averne in corpo granché, se lo sentiva. Meglio alzarsi, in ogni caso. Il suo orologio interno aveva funzionato come al solito, ma ovviamente non c'era nulla che garantiva che l'avrebbe anche tenuta sveglia. Proprio nulla.

Con cautela scostò la pesante coperta e si mise seduta. Rovistando nell'armadietto, tirò fuori jeans, T-shirt e scarpe da ginnastica e si vestì rapidamente. Notò che all'altezza del diaframma le si era risvegliata l'inquie-tudine, ma la soffocò con l'aiuto della collera.

Della collera e del senso di giustizia.

Afferrò altri indumenti con fretta trattenuta; difficile trovare posto per tutto, ma ci riuscì. Chiuse lo zaino con un nodo e si allontanò alla cheti-chella. La porta cigolò come al solito quando la aprì e un paio di gradini scricchiolarono tristemente al suo passaggio, ma in meno di mezzo minuto era fuori.

Trotterellò sopra l'erba umida di rugiada risalendo verso il margine del bosco, e non si fermò fino a che non ebbe raggiunto la piccola cresta e non fu scesa nella prima valletta. Lontano dalla vista della casa, fuori portata.

Per un attimo rimase ferma in mezzo ai cespugli di mirtillo, esitante; ferma a rabbrividire nella frescura notturna che ancora impregnava l'aria, mentre rifletteva su punti cardinali e direzioni. Si accorse che effettivamente stava battendo i denti. Le bastava proseguire dritta attraverso il bosco: prima o poi sarebbe sbucata per forza sulla strada principale, questo lo sapeva. Ma era lunga. Anche se fosse riuscita a seguire una linea più o meno retta, avrebbe impiegato almeno una mezz'ora, e ovviamente non era detto che sarebbe stata capace di evitare di muoversi in cerchio. Nient'affatto detto. Per tutta la vita aveva abitato in città, foreste e natura non erano il suo ambiente usuale.

Terreno sconosciuto, come si diceva.

In casi normali avrebbe recitato una preghiera, ovviamente. Avrebbe pregato Dio di assisterla e di aiutarla almeno per un tratto di strada, ma quel mattino non le sembrava giusto.

Né giusto e, in qualche modo, neppure del tutto onesto.

Dio aveva cambiato volto negli ultimi tempi. Sì, era successo questo, più o meno. Era diventato grande; difficile e insondabile, e, anche se non le piaceva pensarlo, un po' terrificante. Il vecchio zio mite e barbuto della sua infanzia adesso era oscurato da un'ombra.

Da un velo di tenebra.

E, a ben pensarci, capiva che era proprio a causa di questa tenebra che adesso lei era lì in mezzo ai mirtilli, esitante.

Esitante e in lotta con la paura e la rabbia. E in lotta anche per il senso di giustizia, come si diceva.

Proprio a causa di questo.

Sulla destra il paesaggio declinava. Verso il lago e la tortuosa strada sterrata che portava alla fattoria dei Fingher, dove la sera andavano a turno a prendere il latte. Latte, patate, verdure e uova.

Sempre a gruppi di quattro e con le due carrette sgangherate e Jellinek alle calcagna. Nessuno aveva davvero capito perché anche Jellinek dovesse sempre partecipare a quelle escursioni. Non bastava una delle sorelle?

Anche se forse era solo per sorvegliarle affinché non corressero pericoli.

Probabilmente era così. La fattoria dei Fingher era l'unico contatto che avevano con l'Altro Mondo, come Jellinek era solito chiamarlo nelle sue conversazioni, sia mattutine che serali.

L'Altro Mondo?

Adesso sono nell'Altro Mondo, pensò. Non ho fatto più di duecento metri, e già sono incerta sulla direzione. Forse era proprio come diceva lui.

Forse era proprio il Dio di Jellinek quello vero, e non il suo; il suo Dio buono che perdonava, il suo Dio gioioso, quasi un po' infantile...

All'inferno! borbottò, e rabbrividì nuovamente, questa volta soprattutto per via dell'imprecazione. A che cavolo serviva un Dio che non era buono e gentile?

Ma dove sarebbe andata effettivamente a parare, se adesso fosse riuscita a raggiungere la strada principale? Ecco, a quell'interrogativo né lei né nessuna delle possibili divinità aveva alcuna risposta.

In qualche modo si risolverà, come usava dire sua nonna. A tempo debito. Gettò un'ultima occhiata sopra il crinale, nella direzione degli edifici; era solo la parte più alta del tetto appuntito del refettorio a spuntare fra gli alberi.

E poi la grande croce nera, naturalmente, che avevano aiutato a fabbrica-re il primo giorno. Tirò un respiro profondo, voltò le spalle a tutto quanto e cominciò a scendere verso il lago. Era più sicuro prendere la strada sterrata già nota.

Vi sbucò proprio all'altezza della betulla gigante, dove lei e Marieke avevano parlato di incidere i loro nomi prima di andarsene di lì.

Se riuscivano a sgattaiolare via, si capisce, quello era il presupposto. Se riuscivano a rubare venti minuti al tempo della Vita Pura; e a uscire e rien-trare senza essere viste. In realtà grandi speranze non ne avevano mai avu-te, erano soprattutto cose che si dicevano così per dire, ma adesso lei era lì e faceva scivolare le mani lungo la superficie liscia e bianca della cortec-cia.

La Vita Pura? pensò. Il Pastore della Buona Luce?

L'Altro Mondo?

Cazzate.

Il vocabolo le passò rapido per la mente, come già le era successo il giorno precedente. Cazzate. Allora non era riuscita a soffocarlo, le era solo scappato di bocca come una piccola rondine incollerita e disubbidiente, e d'un tratto si era gonfiato in una nuvola nera.

Sì, proprio così. Una nuvola nera e minacciosa che era rimasta sospesa sopra tutte loro, là nella Sala della Vita. Che aveva fatto trattenere il respiro alle ragazze e indotto Jellinek a puntare gli occhi pallidi su di lei per secondi che erano sembrati giorni.

«Voglio parlare con te, dopo» aveva detto alla fine, e poi le aveva staccato lo sguardo di dosso e aveva continuato a parlare nel suo solito tono sommesso. Della Purezza e del Candore e della Nudità e via dicendo.

Dopo, nella Stanza Bianca.

Ma nemmeno lì aveva sprecato troppe parole per lei. Si era solo limitato a constatare l'accaduto.

«Il diavolo, ragazzina. Tu hai il diavolo dentro. Domani lo cacceremo con un esorcismo.»

Poi l'aveva mandata a dormire con un gesto stanco della mano.

Di esorcismi aveva sentito parlare, ma non sapeva come si svolgessero.

Aveva creduto che fossero cose che riguardavano solo gli adulti, ma evidentemente non era così. Chiunque poteva essere posseduto dal demonio, perfino un bambino, questo l'aveva imparato la sera prima.

E adesso lo dovevano scacciare. Di sicuro non era un'esperienza piacevole. Certamente molto peggio delle frustate per punire i peccati. E, benché fosse lì ormai da più di due settimane, non era ancora riuscita ad abituarsi alle punizioni corporali. Ogni volta doveva spargere qualche lacrima di nascosto, dopo; non aveva mai visto nessuna delle altre ragazze fare altrettanto.

D'improvviso la voglia di piangere l'assalì anche in quel momento. Senza preavviso sentì un bruciore in gola, e poi le lacrime cominciarono a scorrere, inducendola a sedersi sul ciglio della strada. Qualche minuto soltanto, fino a che non le fosse passata. Era ridicolo camminare in mezzo alla strada frignando. Anche se dovevano essere al massimo le sei, sei e mezzo

- e anche se difficilmente correva il rischio di incontrare anima viva -era comunque ridicolo.

Frugò nello zaino alla ricerca di un fazzoletto e si soffiò il naso. Rimase seduta ancora un paio di minuti per sicurezza, e fu proprio mentre stava per alzarsi in piedi e proseguire che sentì un ramoscello spezzarsi nelle vicinanze. Con un'intuizione che rapidamente si fece sempre più concreta, capì di non essere affatto così sola come si era immaginata.