21
Mare di ghiaccio
A nord della Britannia
39 a.C. – 714 ab Urbe condita
Mentre procedeva strascicando i piedi, Gaio Giulio Cesare non sapeva se augurarsi di poter rivedere il sole, per scacciare un po’ della tenebra che li circondava. Ricordava bene il riflesso abbacinante della luce sul ghiaccio, capace quasi di accecarlo, eppure ogni fibra del suo corpo sembrava richiedere un po’ di calore, dopo tutto il freddo che aveva assorbito in quei giorni di cammino.
Si erano allontanati dalle navi incagliate da solo un paio di settimane (o forse erano tre? Ormai faticava ad avere un senso compiuto del tempo, senza l’alternanza di luce e oscurità), eppure aveva l’impressione di essere in cammino da mesi. Se all’inizio Bruto e gli altri uomini si erano mossi con una certa energia sullo strato di neve che copriva il ghiaccio, adesso li vedeva arrancare stanchi e martoriati, avvolti nei mantelli e in tutto ciò che riusciva a proteggerli dal freddo come goffi pachidermi che non riuscivano nemmeno a sollevare le gambe, preferendo trascinare i piedi scavando solchi nella neve.
Cesare avvertiva una profonda stanchezza nelle estremità, che si trasformava in sferzate dolorose a ogni passo che compiva, eppure per niente al mondo si sarebbe fermato.
Aveva assistito a tanti di quei prodigi, di cui a Roma aveva solo potuto leggere nelle storie del mito antico, da capire che laggiù, ai confini del mondo, la vita era ben diversa da quella che aveva conosciuto. Se un druido riusciva a far tornare in vita i suoi guerrieri trafitti dalle spade, dalle frecce o dai giavellotti, allora significava davvero che c’era un potere superiore in grado di controllare l’ordine delle cose, primo fra tutti quello che regola i rapporti fra vita e morte.
Se l’immortalità era sempre stata un sogno, adesso lui aveva la possibilità di verificare quanto la determinazione, il coraggio e la sfrontatezza potessero riuscire nell’impresa di catturare qualche briciola di un simile potere. Ed era certo che, piuttosto che rinunciare a quel tentativo, si sarebbe lasciato morire in quelle lande spazzate da un vento gelido che non dava mai tregua.
«Torniamo indietro, Cesare» sussurrò la voce di Bruto accanto a lui. «Altrimenti moriremo tutti. Non possiamo resistere a queste condizioni. Non ci sono ripari, non c’è luce, la temperatura è sempre più fredda a ogni passo che facciamo.»
Stremato per la fatica di pronunciare quel lungo discorso, Bruto tacque, annaspando mentre cercava di respirare senza ghiacciarsi i polmoni.
Cesare sapeva bene quello che stava provando. L’unico modo per parlare senza rischiare di congelarsi i polmoni era coprirsi la bocca con una falda del mantello, e respirarci attraverso. Ma anche così, le lame di ghiaccio che scivolavano in gola sembravano voler far scorrere fiumi di sangue, per farvi annegare chi era stato così sciocco da aprire la bocca in quelle condizioni proibitive.
«Se vuoi, torna indietro tu» gli rispose dopo aver masticato con rabbia un lembo della fascia di feltro che si era avvolto attorno al collo e alla bocca per ripararsi dal vento. «Prendi gli uomini più deboli e raggiungi le navi. Mettetevi in salvo.»
«E tu?» chiese Bruto, fissandolo accigliato dal fagotto di stracci che si era avvolto attorno alla testa, e che lasciava scoperti solo gli occhi. «Vuoi davvero continuare? È una follia! Non c’è niente, qui fuori!»
Cesare si bloccò.
«Questo non puoi saperlo» obiettò, cercando di contenere la rabbia, perché sapeva che in fondo anche una parte di lui la pensava come Bruto. «E io non intendo arrendermi, finché avrò un briciolo di forza in corpo.»
«A quel punto sarà troppo tardi, non lo capisci? Se ti indebolisci troppo, il ghiaccio ti uccide. Dobbiamo tornare indietro finché siamo in tempo.»
Cesare respirò un paio di volte, prima di riuscire a trovare le energie necessarie per ribattere. Parlare sembrava essere ancora più stancante che camminare.
«Sono disposto a morire» disse. «Questa volta sul serio.»
«Perché?» volle sapere Bruto, con una luce di sconcerto negli occhi.
Cesare resse il suo sguardo per un po’, poi scosse la testa.
«Davvero non lo capisci?» gli chiese. «Che cosa potrei fare, se abbandonassi adesso la nostra impresa? Con quale coraggio potrei parlare con gli altri, o guardarmi allo specchio?»
Fu costretto a fermarsi, per dare tregua ai polmoni in fiamme. Poi riprese a camminare.
«Te l’ho detto, tu torna pure indietro. Io proseguirò fino a quando non sarà chiaro che mi sto sbagliando.»
Bruto questa volta non replicò. Si limitò ad affiancarlo, borbottando qualcosa di incomprensibile. Gli uomini, intorno a loro, stavano in silenzio, ma Cesare aveva visto che si erano scambiati degli sguardi, scettici e amareggiati. Neppure loro sembravano credere che l’impresa fosse realizzabile.
«Facciamo così» disse dopo un po’, fermandosi di nuovo per dare le spalle al vento. «Proseguiamo ancora un giorno, e vediamo cosa succede. A quel punto, se non troviamo niente, tu e gli uomini più stanchi tornerete indietro. Io e gli altri proseguiremo.»
«Conta qualcosa che io mi dichiari in disaccordo?»
Sotto gli strati di feltro ghiacciato, Cesare sorrise, anche se Bruto non poteva vederlo.
«No. Il mio è un ordine, e voi obbedirete.»
«Come fai a essere sicuro che proseguirete nella direzione giusta? Io non vedo niente. Non sappiamo nemmeno se stiamo procedendo verso nord, visto che le stelle sono scomparse dietro le nubi.»
Cesare gli mostrò la scarsella con la polvere nera che teneva appesa al fianco.
«Saranno gli dei a guidarci. Con questa.»
«La polvere dello stregone forse può trascinarti solo negli Inferi.»
«In questo caso, sarà meglio che ci vada da solo.Tu tornerai indietro.»
Bruto dovette comprendere che per lui la questione si chiudeva lì, perché non replicò, limitandosi a stringersi ancora di più nel mantello.
«Avanziamo ancora per un po’» ripeté Cesare rimettendosi in cammino. «Poi ci fermeremo e costruiremo un riparo. Abbiamo bisogno di mangiare qualcosa.»
Alla fine, grazie all’abilità di uno dei legionari, un gallico della provincia cisalpina, riuscirono ad accendere il fuoco, anche se le stoppie erano umide. Vi si riunirono intorno, stringendosi per mantenere il più possibile all’interno del cerchio il calore delle fiamme e dei loro corpi, e cucinarono un po’ di lenticchie e cipolle, secondo l’uso in vigore nell’esercito romano ormai da secoli. L’acqua da bere era l’ultimo dei loro problemi, visto che continuava a nevicare e che era facile sciogliere nei tegami manciate di quei soffici cristalli di ghiaccio.
«Da quanto tempo siamo in marcia?» chiese Cesare senza rivolgersi a nessuno in particolare. Aveva davvero perso il conto, e si augurò che la stessa cosa non fosse successa anche agli altri.
«Dodici giorni» rispose Bruto. Prima che Cesare potesse chiedergli come facesse a sostenerlo con tanta sicurezza, Bruto si strinse nelle spalle.
«Abbiamo mantenuto una certa regolarità nel ciclo del sonno, e ci siamo fermati per mangiare quando il mio stomaco diceva di avere fame. Non ha mai sbagliato in tutta la mia vita, e dunque non vedo perché dovrebbe averlo fatto adesso.»
«Anch’io credo che siano passati al massimo quattordici giorni» annuì un altro legionario.
«Possibile così poco tempo?» grugnì Cesare. «Avremo percorso solo poche miglia!»
«Camminare sul ghiaccio non è come marciare in pianura» sostenne il gallico che aveva acceso il fuoco. «Credo che in tutto avremo fatto non più di dieci miglia.»
«Dieci miglia in dodici giorni?» chiese sorpreso Bruto. Si voltò a guardare Cesare, tenendosi basso e chinato in avanti come tutti gli altri, per stare il più vicino possibile al fuoco. «Sei ancora convinto di voler procedere a tutti i costi?»
Cesare masticò piano un pezzo di carne secca, poi si decise a fare quello a cui stava pensando già da un po’ di tempo. Prese il sacchetto della polvere nera, lo aprì e raccolse con due dita pochi granelli di quella sostanza tanto misteriosa quanto potente. La mostrò a Bruto e agli altri.
«Proverò a entrare nel regno delle tenebre, per capire se la strada è ancora tracciata davanti a noi. Non so quale effetto mi farà e per quanto resterò imprigionato nell’abisso. Se non dovessi tornare troppo presto, cercate di riportarmi indietro, in qualche modo.»
«Come?» chiese Bruto.
Cesare sorrise. «Non lo so. Ma sono sicuro che un modo lo troverai.»
Detto questo si portò le dita al naso e aspirò i granelli di polvere in un sol colpo.
Non dovette attendere a lungo, prima che i cancelli dell’Averno si spalancassero ancora una volta davanti e sotto di lui.
Si sentì precipitare, ma la caduta fu più breve del solito.
Si ritrovò presto seduto davanti al fuoco, con gli altri che si stringevano nei mantelli cercando di difendersi dal freddo che li assediava.
«Cos’è successo?» mormorò, cercando di capire se si trovasse nel regno degli dei o degli Inferi, oppure se la polvere nera avesse fallito, dandogli solo una breve sensazione di vuoto per poi riportarlo subito nel mondo dei mortali.
Si alzò in piedi e si guardò attorno, mentre gli altri continuavano a fissare il debole fuocherello che faticava a restare vivo. Si sentiva del tutto normale, con il corpo scosso da brividi di freddo e le punte delle dita delle mani e dei piedi ormai insensibili, e ovunque vide solo buio e neve che cadeva impetuosa dal cielo.
Afferrò la scarsella con la polvere di Cardan, ne raccolse ancora un po’ con le dita e se la portò al naso, aspirando con forza. Non accadde nulla, nemmeno quel piccolo salto nell’abisso che prima gli aveva almeno dato l’impressione di aver compiuto il passaggio nel regno misterioso delle creature immortali che governavano l’Averno e i Campi Elisi.
«Maledizione» sibilò, muovendo a fatica le labbra all’interno del fagotto di stracci che gli ricopriva il viso e la barba folta che gli era cresciuta in quei mesi di viaggio.
Fece per richiamare l’attenzione di Bruto e degli altri, e spiegare loro che la polvere nera non aveva più il potere di fargli vedere la giusta direzione da seguire, quando all’improvviso percepì un bagliore con la coda dell’occhio e si voltò di scatto.
Quello che vide lo lasciò a bocca aperta.
Da qualche parte oltre la tenebra qualcosa brillava, rischiarando la notte perenne.
Cesare non ebbe bisogno di stringere gli occhi per scorgere i particolari di quello che si stagliava a poche miglia di distanza da loro, perché riusciva a vederli nitidi e ben delineati nonostante la neve e il vento che sibilava furibondo.
Thule. Non potevano esserci dubbi.
La città degli dei si stagliava con i suoi edifici slanciati e le guglie che sfioravano altezze impossibili, spandendo ovunque un lucore che la faceva brillare come la più luminosa delle stelle. All’esterno Cesare vide i bastioni imponenti che la circondavano e, quando si accorse che la macchia scura che intravedeva era un immenso portale d’ingresso, si sentì attraversare dai brividi.
Com’era possibile che non se ne fossero accorti prima? Nel buio che li circondava, la città degli dei risplendeva come un fuoco eterno, ed era davvero molto vicina, forse a meno di mezza giornata di cammino.
«Guardate!» gridò, dando una pacca sulla spalla di Bruto. «La dimora degli dei! L’abbiamo trovata!»
Gli altri restarono seduti ai loro posti, gli sguardi puntati sulle fiamme, ignorandolo.
Cesare avrebbe dovuto infuriarsi, per quell’atteggiamento ostile, ma l’euforia che stava montando sempre più impetuosa dentro di lui lo fece scoppiare a ridere, mentre afferrava il pilum che aveva portato con sé e che ormai utilizzava come un bastone d’appoggio, e si rimetteva in cammino, lasciando a terra le altre sue cose.
«Venite!» ordinò ai suoi, eccitato all’idea di avere finalmente la possibilità di confrontarsi con chi possedeva il segreto della vita eterna. «Raggiungiamo Thule!»
Si produsse quasi in una corsa, ma poi decise che sarebbe stato sciocco consumare in quel modo le poche energie che gli restavano, dunque tornò a camminare, seppure a passo sostenuto.
Thule si ergeva davanti a lui come un diadema dorato che emergeva dal ghiaccio, e l’impressione era che avrebbe potuto toccarla semplicemente allungando la mano.
«Quanto sarà lontana?» chiese a Bruto, che immaginava alle sue spalle, insieme agli altri. «Io credo poche miglia. Ormai ci siamo!»
Aumentò ancora di più il passo, faticando a respirare l’aria gelida che filtrava dal tessuto del mantello che aveva davanti alla bocca, ma convinto che Thule fosse più vicina di quanto avesse immaginato quando l’aveva vista. I bastioni erano perfettamente delineati, così come il grande portale d’ingresso, che adesso vedeva ricoperto da bassorilievi che raffiguravano guerrieri in pose da combattimento mentre affrontavano creature mostruose che emergevano dalla terra o calavano dal cielo.
«Le ho combattute anch’io!» gridò Cesare, sapendo che gli abitanti della città lo stavano osservando. «E ho vinto!»
Ora sapeva che quel portale si sarebbe spalancato davanti a lui, quando lo avesse raggiunto, perché gli dei erano curiosi di incontrarlo e di capire chi fosse quel mortale che era riuscito a compiere un’impresa che solo loro o i loro figli potevano sperare di portare a termine.
Ricominciò a correre a passo leggero, augurandosi che gli altri riuscissero a mantenere la sua andatura, e protese le braccia, come se potesse afferrare Thule e avvinghiarsi a lei per non lasciarla più.
Andò avanti così per un tempo che gli parve lunghissimo, fino a quando, stremato e con i polmoni in fiamme, fu costretto a fermarsi. Si piegò in due, appoggiandosi al pilum conficcato nella neve, e respirò a bocca aperta, sentendo che non sarebbe riuscito a pronunciare una sola parola se gli dei gli fossero comparsi davanti in quel momento.
Quando risollevò lo sguardo, Thule era ancora lì, magnifica e splendente, ma lontana esattamente come quando l’aveva vista per la prima volta. Eppure aveva percorso un bel tratto, di questo era sicuro. Allora perché la città degli dei sembrava quasi allontanarsi a ogni passo che lui faceva?
Riprese a muoversi sentendosi inondare dalla rabbia, ma dopo solo pochi passi ebbe l’impressione che il terreno ghiacciato sotto i suoi piedi si allungasse e dilatasse, e che Thule scivolasse all’indietro, mantenendo sempre la stessa distanza che li separava.
«Che state facendo?» gridò infuriato, avendo l’impressione che i polmoni gli si lacerassero per lo sforzo. Tossì, si piegò verso terra e sputò qualcosa nella neve. Mentre si puliva la bocca, si accorse che quello che macchiava il ghiaccio, messo in risalto dalla luce proveniente da Thule, era sangue.
Cesare scosse la testa, poi scoppiò a ridere. Stava cominciando a capire quale fosse il gioco messo in scena dagli dei: lo avevano fatto arrivare fin lì, costringendolo a scavalcare ostacoli impossibili per qualsiasi altro essere umano, e adesso lo tenevano a distanza, facendogli intendere, con il disprezzo delle creature superiori, che la sua lotta per ottenere la possibilità di ottenere udienza presso di loro non era ancora finita.
«Che cosa volete che faccia?» ringhiò sbarazzandosi delle strisce di feltro che si era avvolto attorno alla testa, perché potessero sentirlo meglio. Ormai non sentiva più freddo, anzi avvertiva un calore bruciante che gli cresceva dentro insieme alla rabbia.
Non arrivò alcuna risposta. Quando provò a muoversi ancora in avanti si rese conto che l’unico effetto che otteneva era di respingere ancora più indietro la città degli dei, e far affievolire il bagliore che la circondava e che la rendeva visibile nelle tenebre.
Cesare urlò tutta la sua rabbia e la sua disperazione, scagliò il pilum come se potesse uccidere Thule con un solo colpo del suo misero giavellotto, poi crollò in ginocchio.
«Io non mi arrendo...» sibilò, sentendo che tutte le forze gli rifluivano nel terreno. «Dovrete uccidermi, se vorrete sbarazzarvi di me...»
«Allora lo faremo» risuonò una voce intorno a lui, costringendolo a balzare in piedi di scatto. Non aveva più il pilum, così estrasse la spada mentre si guardava intorno.
Thule risplendeva ancora, sempre più lontana, ma adesso tre giganti si stagliavano nelle tenebre, frapponendosi al cammino che gli avrebbe consentito di raggiungere la città degli dei.
Non sapeva quale dei tre avesse parlato, ma forse lo avevano fatto tutti insieme, facendo tremare il ghiaccio che aveva sotto i piedi.
Cesare li guardò stringendo gli occhi. Erano creature immense, alte quattro volte lui, con i torsi nudi e i muscoli ben delineati, e impugnavano asce e mazze ferrate, una per mano. In testa calcavano elmi dorati di una foggia mai vista, coronati da creste di lunghe piume che rilucevano nella notte.
«Chi siete?» chiese digrignando i denti. Sentiva di non temere quei giganti, e di essere pronto a combatterli, se non gli avessero lasciato libero il cammino, ma una parte di lui aveva una speranza: che fossero loro gli dei che aveva cercato così a lungo, che finalmente gli si mostravano.
«Noi siamo i guardiani di Thule» risposero parlando come se fossero un uomo solo. «Se vorrai proseguire, dovrai prima abbatterci. O perdere la vita nel tentativo di farlo.»
Cesare li fissò con un sogghigno.
«Non vi sono bastate le prove che ho dovuto superare per giungere fin qui?» domandò. «Cosa volete, adesso? Il mio sangue? La mia anima?»
I giganti non risposero, limitandosi a fare un passo avanti. Si mossero insieme, con coordinazione perfetta, e Cesare sentì il ghiaccio vibrare sotto di lui.
Ancora una volta una rabbia cieca lo avvolse, e lasciando erompere un grido di guerra si scagliò in avanti, sollevando la spada.
«Io non ho paura di morire!» ringhiò. «Sono Gaio Giulio Cesare, e solo la morte potrà fermarmi!»
Mentre correva verso i giganti vide il suo pilum, conficcato nel ghiaccio, lo afferrò e con un unico, fluido movimento, lo scagliò contro uno di loro, mentre con la spada affondava verso la gamba enorme di un’altra creatura, con l’intento di trapassarla da parte a parte. Se fosse riuscito a...
Non aveva ancora finito di pensare a come avrebbe potuto combattere che si ritrovò nel punto di partenza, prima di raccogliere il pilum e sferrare l’attacco.
I giganti lo fissavano immobili, come se aspettassero una sua mossa.
Cesare gridò tutta la sua rabbia e frustrazione.
«Combattete!» urlò. «Fermatemi con le vostre asce, non con la magia!»
«Non c’è nessuna magia, Cesare» gli disse una voce in tono gentile, una voce così terribile che si sentì lacerare dentro, mentre le gambe gli cedevano e lui tornava a crollare sulla neve. «Tu non puoi raggiungere la dimora degli dei, capisci? Nessun mortale può farlo. Non qui, nel regno dei Superni.»
Cesare aveva tenuto gli occhi chiusi, perché aveva il terrore di guardare chi aveva parlato, ma poi li riaprì, e subito guardò colei che era apparsa dal nulla, e che gli parlava da pochi passi di distanza, con alle spalle i tre giganti e, ancora più lontano, il bagliore irraggiungibile della città immortale.
«Perché sei qui?» le chiese con un filo di voce, sentendo che tutto era perduto.
Calpurnia avanzò con i piedi nudi nella neve, si avvicinò a lui e gli accarezzo la testa con amore, stringendosela al ventre. Lui avvertì il suo calore, che filtrava attraverso la leggera tunica che lei indossava come se non patisse il gelo che avvinghiava ogni cosa.
«Ora io appartengo al regno degli dei» gli rispose sua moglie, con un sorriso che la rendeva bella e giovane come quando l’aveva conosciuta. «Cicerone ti spiegherà tutto, ma tu devi tornare da lui e dai tuoi uomini. Questa avventura è finita, capisci? Le creature del Nord non riconoscono le tradizioni della nostra gente, e sono in conflitto con gli dei del nostro mondo.»
Cesare la guardò frastornato. Non sapeva se crollare a terra per disperarsi, o balzare in piedi e correre verso Thule per raderla al suolo con la sua rabbia.
Ma quando lei gli passò la mano calda sul viso, accarezzandolo, comprese che la follia si sarebbe impadronita della sua mente se non avesse cercato di erigere delle barriere e ricordarsi che lui era Gaio Giulio Cesare, l’uomo più potente del mondo conosciuto, che ambiva a raggiungere il regno degli dei per assicurarsi l’immortalità che gli spettava.
«I giganti ti uccideranno, se proverai a muovere un altro passo in avanti» gli disse Calpurnia continuando ad accarezzarlo con amore. «E sarebbe inutile, perché questi non sono i nostri dei, e non potrebbero darti ciò che cerchi.»
«Chi sono, allora?» le chiese Cesare confuso, lottando contro le mille emozioni che lo stavano travolgendo.
«Sono i figli di antiche stirpi di guerrieri del Nord» rispose sua moglie. «Si sono estinti da millenni nel mondo conosciuto, e ora sopravvivono solo qui. Non sanno nulla degli altri dei, e non conoscono i segreti dei mondi dei Superni. Sanno solo combattere e uccidere, questa è la loro eterna condanna.»
Schiantato da quelle parole, Cesare fissò Calpurnia negli occhi, osservandola attraverso il velo delle lacrime.
«E tu?» le chiese. «Dove sei, adesso?»
Lei si chinò a sfiorargli le labbra con un bacio.
«Io sto aspettando di salire ai Campi Elisi» gli rivelò. «Dove ti aspetterò, per glorificare la tua immortalità quando riuscirai a conquistarla.»
«Ma dove?» gridò Cesare, devastato. «Dove posso trovarla?»
«Non qui» ribadì lei con tono deciso. «La tua ricerca è stata coraggiosa, ma vana. A meno che quello che cerchi davvero non sia la morte, per raggiungermi sul cocchio degli dei che ti porterà nei mondi dei Superni.»
Gaio tornò a guardare sua moglie e comprese quello che lei gli stava dicendo.
«No» sibilò stringendo i pugni fino a farsi male. «Non voglio morire. Non ora. Ti raggiungerò, ma da vincitore, come ho sempre fatto nella mia vita.»
Lei sorrise, gli passò ancora la mano sulla barba incrostata di ghiaccio, poi si allontanò.
Cesare avrebbe voluto fermarla, stringersi ancora a lei per abbeverarsi del suo calore, ma all’improvviso il ghiaccio si spalancò sotto di lui, e l’acqua nera e torbida dell’oceano lo risucchiò nei suoi abissi.
Mentre tratteneva il respiro per non riempirsi i polmoni con il liquido ghiacciato, sentì ancora una volta la voce che gli parlava direttamente nella mente.
Ho visto un fiume... un corso d’acqua che contiene il flusso della vita, alle cui sorgenti troverai il segreto dell’anima eterna. È quel fiume che devi raggiungere... è lì che potrai ritrovarmi ancora...
E poi tutto fu nero.
Sentiva una lacrima ghiacciata nell’occhio, così sollevò la mano e si sfregò la palpebra, sui cui avvertì i granelli di ghiaccio che si erano depositati.
«Cos’è successo?» gli chiese Bruto posandogli una mano sulla spalla. «La polvere nera non ha avuto effetto?»
Cesare sbatté gli occhi e lo guardò, poi si girò e constatò che erano tutti seduti attorno al fuocherello posto al centro. In mano lui reggeva ancora il sacchettino con la polvere magica di Cardan.
«Quanto sono stato via?» domandò, mentre le immagini di Thule, dei tre giganti e soprattutto di Calpurnia che lo accarezzava e gli trasmetteva il suo calore, erano ancora ben vividi nella sua memoria.
Bruto si accigliò.
«Non sei stato da nessuna parte» rispose. «Hai respirato la polvere, ti abbiamo visto tossire e poi ti sei asciugato gli occhi. Tutto qui.»
Cesare sorrise. Quale dimostrazione migliore dell’intervento di forze superiori, dopo quello che gli diceva Bruto? Lui aveva visto la dimora degli dei, circondata dall’alone di luce, e aveva parlato con Calpurnia, che...
Si bloccò, sentendosi stringere il ventre in una morsa.
«Mia moglie...» mormorò annichilito.
«Calpurnia? Che cosa c’entra lei, adesso?» Bruto sembrava sconcertato.
Cesare lo guardò, stringendo con forza i denti e gonfiando i muscoli delle mascelle.
Ricordava le parole di Calpurnia, le sue carezze, il suo sorriso. Così come ricordava il punto in cui aveva visto risplendere la città fra i ghiacci.
Si alzò in piedi e si girò verso quello che era sicuro fosse il nord, dove aveva visto Thule, e si rese conto che adesso c’erano solo tenebra e vortici di neve ghiacciata che sferzavano l’aria.
«Dobbiamo tornare indietro» disse, facendo balzare in piedi Bruto e un paio dei suoi legionari. «Non c’è nulla, qui, che possiamo raggiungere.»
«Hai visto qualcosa?» volle sapere Bruto, scrutandolo con attenzione. «A noi è sembrato che tu fossi rimasto sempre con noi, ma forse...»
«Sì» l’interruppe Cesare, gettando neve sul fuoco e facendo segno a tutti di prepararsi per rimettersi in cammino. «Ho capito che qui non c’è niente, solo ghiaccio e morte. E creature antiche come l’alba dei tempi, che è facile confondere con gli dei.»
«Dunque Thule non esiste?» chiese uno degli uomini.
Cesare lo guardò, fece per rispondere, ma poi preferì tacere e rimettersi in movimento, dopo aver afferrato il pilum.
«Gli altri ci aspettano» disse. «Torniamo indietro e facciamo in modo di andarcene da queste terre che non hanno nulla da offrirci.»
In silenzio, Bruto e gli altri raccolsero le loro cose e si accodarono dietro di lui, dirigendosi con aria sollevata verso sud, dove i loro compagni li aspettavano al sicuro, al riparo nel ventre delle navi.