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Mare Ibericum
Al largo della costa Iberica
42 a.C. – 711 ab Urbe condita
Il vento carico di salsedine e minuscole gocce d’acqua sferzava il viso di Cicerone, ma lui non se ne preoccupava. Anzi, il tocco aspro e fresco della brezza marina aveva il potere di ricordargli i giorni in cui anche lui era stato un soldato, quando agli inizi del suo cursus honorum aveva militato sotto Lucio Cornelio Silla e Gneo Pompeo Strabone, ancora dominato dall’ambizione di essere primus inter pares, ovvero il migliore fra tutti coloro che avevano il suo stesso rango, per mettersi in luce e scalare le ripide e difficili pendici del potere. In quei giorni, durante l’assedio della città di Asculum Picenum, lui aveva il comando delle navi che provvedevano agli approvvigionamenti delle truppe e al controllo delle coste. Non aveva mai impegnato il nemico in una vera e propria battaglia, ma adesso che poteva sentire di nuovo il sapore sferzante del sale sulle labbra, ricordava con nostalgia i giorni dell’impeto giovanile, quando tutta la sua storia personale doveva ancora compiersi, e gli ostacoli che gli si paravano davanti non sembravano montagne, ma colli facili da scalare e da affrontare con il piglio del vincente.
Tenendosi a una delle cime fradicie d’acqua, osservò Gaio Giulio Cesare che dal ponte di comando della esareme scrutava il mare davanti a loro, forse immaginando le meraviglie che presto avrebbero incontrato, e si disse che in fondo quell’uomo, nonostante l’età e ciò che aveva passato, assomigliava fin troppo al ragazzino pieno di energia e di ambizione che lui stesso era stato al tempo delle sue campagne militari.
«Cesare non ha mai smesso di guardare avanti» sostenne una voce accanto a lui, facendolo sussultare per la sorpresa. «Per questo siamo qui. E per questo gli assomigliamo così tanto.»
Si voltò e vide Marco Giunio Bruto, che con la schiena dritta e il portamento fiero che gli erano caratteristici stava osservando l’uomo che più di ogni altro aveva condizionato la sua vita. Cesare aveva avuto in gioventù un rapporto clandestino con sua madre Servilia, con la quale molti ritenevano avesse dato alla luce Bruto.
«In questi anni hai imparato anche a leggere nel pensiero?» gli chiese Cicerone.
Bruto scosse la testa.
«Se così fosse, adesso non sarei su questa nave, in balia di un destino che non mi appartiene.»
«E dove saresti?» lo pungolò l’oratore, che aveva colto l’amarezza nelle sue parole.
Bruto lo guardò con una strana espressione.
«Mi verrebbe da dire in Senato, a combattere per la causa che ho tradito» rispose. «Ma mentirei, naturalmente.» Si girò e tornò a scrutare Cesare. «Non ho mai saputo la verità, e forse è questo che mi lacera l’anima.»
«Di quale verità parli? Io ne sto cercando fin troppe, e per ogni risposta che ricevo, altre due domande sorgono ad assillarmi.»
Bruto sospirò. «È davvero lui mio padre? Forse non lo saprò mai. È stato un dittatore spietato, o un imperator magnanimo e lungimirante? Forse neppure i posteri potranno dirlo con certezza.» Poi allargò le braccia a indicare il mare sconfinato che si estendeva a perdita d’occhio attorno a loro. «Siamo partiti spinti da una nuova voglia di riscatto personale, o solo perché ci vergogniamo di ciò che abbiamo fatto in patria? E infine» tornò a fissare Cicerone direttamente negli occhi, «siamo davvero tutti accomunati dal desiderio di grandi imprese che possano renderci immortali, o siamo qui solo perché non possiamo lasciare tutto nelle mani di Cesare?»
Cicerone rimuginò per qualche istante su quello che aveva sentito, poi si voltò e sputò fuori bordo.
«Io non conosco le risposte» ammise. «A nessuna delle tue domande. E anche se qualche idea me la sono fatta, preferisco restare qui a godermi le sferzate del vento, piuttosto che arrovellarmi con dilemmi che solo una persona è in grado di risolvere.»
Si voltarono entrambi a guardare Cesare, che nel frattempo era stato raggiunto da Decimo e Crasso, e con i quali aveva dato inizio a una accesa discussione.
«In ogni caso, adesso capisco molte cose» continuò Cicerone annuendo piano.
«Quali?» volle sapere Bruto.
Cicerone si strinse nelle spalle. «Sono stato davvero cieco, e mi sono fatto ingannare come l’ultimo degli ingenui.»
«Se ti riferisci alle Idi di marzo, sappi che non sei stato il solo.»
L’anziano oratore sventolò una mano in aria, raccogliendo goccioline di acqua salata dal vento umido.
«Non solo quello» ribatté. «Ho cercato invano di strapparti al fascino di Cesare, all’influenza che aveva su di te, ma non ci sono riuscito.» Prima che l’altro potesse replicare, aggiunse: «Intendo anche ora, adesso che ti vedo pieno di dubbi eppure così legato a lui».
Bruto dilatò le narici, ma non disse niente. La sua espressione era più che eloquente, così Cicerone continuò il suo ragionamento cercando più che altro di mettere ordine nella confusione che aveva in testa.
«Capire che il vostro attentato era tutta una messa in scena sarebbe stato molto facile, se io e tanti altri senatori non fossimo stati accecati dal sogno di veder risplendere ancora i fasti della Repubblica.» Scosse la testa divertito. «Tu eri appena stato nominato praefectus urbis, a discapito di Cassio, che ne avrebbe avuto maggiore diritto, e Decimo aveva ottenuto da Cesare il mandato consolare per l’anno successivo. Che razza di nemici avreste potuto essere?» Scoppiò a ridere, e avvertì nel suono della sua risata tutto il disprezzo che provava per se stesso, lui che aveva sempre creduto di saper leggere meglio di chiunque altro nel cuore e nella mente delle persone. «Avrei dovuto capire subito che niente ti avrebbe allontanato dall’uomo di cui ti eri infatuato.»
Bruto lo guardò sorpreso.
«La chiami infatuazione?» gli chiese.
«E tu come? Amore filiale? Fedeltà di spirito? Comunanza di sangue?»
Bruto fece per ribattere, ma poi scosse la testa.
Cicerone colse l’occasione per infliggere un altro colpo a quel ragazzo che era la sua più grande delusione, e forse il suo vanto più sincero.
«Hai idea di quante parole ho speso per te, per cercare di dare risalto alla tua purezza, alla tua onestà politica e morale?»
«Ho letto le tue orazioni» annuì Bruto. «E le ho sempre trovate eccessive.»
«Non discendi forse da quel Bruto che scacciò i tiranni, e dallo stesso Catone, che fu l’ultimo a opporsi davvero a Cesare?»
«Il popolo non sa leggere. Le tue opere sono circolate solo fra coloro che già si erano fatti un’opinione, e non credo che qualcuno avrebbe mai scelto di schierarsi con me per affrontare Cesare.»
«Ma nella finzione l’avete fatto!» protestò Cicerone, che adesso finalmente capiva quel sentore di profonda amarezza che lo nauseava e che nemmeno il vento e la salsedine riuscivano a disperdere. «Avete avuto l’occasione di riscattare voi stessi e la Repubblica, e se non fosse stato per questa... farsa, il popolo vi avrebbe seguito.»
«Tu l’avresti fatto?» gli domandò Bruto con ostentata durezza. «Ti saresti esposto in prima fila?»
Cicerone prese un lungo respiro, osservò la sua anima riflessa in un immaginario specchio e ci vide solo un codardo che pensava più alla sua vita che alla gloria di Roma.
«No» rispose alla fine, sgonfiandosi e sentendo finalmente svanire la nausea, adesso che aveva messo a nudo le sue debolezze. «Cesare sa bene che uomo sono, per questo non ha faticato troppo a convincermi a seguirlo.»
Bruto sorrise. «Direi che l’ha fatto anche con me, e con tutti gli altri che affollano questa flotta di navi.»
«È sempre stato bravo in questo, dobbiamo ammetterlo. Lui sa come attizzare il fuoco della passione.»
«C’è una domanda, però, che mi sto facendo, e a cui non so dare risposta.»
«Un’altra?» sorrise amaro Cicerone. «Non credo che potrò aiutarti nemmeno questa volta.»
«Sai di cosa parlo?»
L’oratore lo affrontò con quella che sperò fosse una smorfia intransigente.
«Se ti chiedi cosa farai, quando avrai l’occasione per sbarazzarti di lui e del peso che senti sulle spalle, allora sappi che il cruccio è anche mio.»
Bruto resse il confronto più a lungo di quanto si sarebbe aspettato, poi i lineamenti del suo viso si ammorbidirono e le spalle si afflosciarono mentre si allontanava senza aggiungere altro.
Vai da tuo padre, avrebbe voluto gridargli Cicerone, e chiedi a lui il perdono che io non posso concederti.
Ma restò zitto, e continuando a rimuginare sui tanti errori che aveva commesso in passato, tornò a rivolgere il viso agli strali del vento, aprendo la bocca per avvertire il sapore salato del futuro a cui stava andando incontro.
Era davvero quello che voleva? O si stava semplicemente arrendendo, una volta di più, al suo animo codardo?
Non lo sapeva. Almeno per il momento.
Ma era sicuro che niente gli avrebbe impedito di mettersi alla prova. Soprattutto adesso che aveva lo sguardo di Gaio Giulio Cesare puntato addosso.
Cesare aveva cercato per tutto il tempo di evitare di guardare Cicerone e Bruto, ma dopo tanta strenua resistenza non riuscì più a farne a meno e, quando si voltò per scrutarli di sottecchi, si accorse che l’anziano oratore lo stava fissando a sua volta.
«Non è facile mantenere le navi vicine, ci stiamo disperdendo troppo» stava dicendo Decimo al suo fianco, e lui si costrinse a riportare l’attenzione sul suo vecchio amico e compagno di mille battaglie, per distogliere la mente dalle domande che lo tormentavano e che riguardavano soprattutto un interrogativo: che cosa mai si stavano dicendo, Cicerone e Bruto?
Cesare sapeva quale influenza avesse Cicerone nei confronti di colui che considerava suo figlio, eppure non poteva che essere soddisfatto di come Bruto aveva reagito durante la falsa congiura e poi in seguito, quando aveva dovuto sostenere per un paio d’anni la parte del cesaricida e combattere contro i suoi stessi fratelli per consentire a Marco Antonio e a Ottaviano di eliminare i dissensi e assumere il potere.
In qualche modo, Bruto era stato traditore dei traditori, e Cesare sapeva anche come doveva sentirsi Cicerone, che fino all’ultimo aveva battagliato per la difesa della Repubblica. Lo aveva conosciuto molto bene, lo aveva frequentato per anni, sopportando i suoi tentativi di persuaderlo ad abbandonare la strada dell’imperium. Aveva letto le sue opere, che contenevano appassionate celebrazioni di Bruto quasi volesse far capire al popolo e all’aristocrazia romana che non avevano bisogno di Gaio Giulio Cesare, perché un uomo più retto, più giusto e più votato al bene dell’Urbe era pronto a lottare per la Repubblica.
Ma Bruto non aveva ceduto alle lusinghe, e anzi gli si era avvicinato ancora di più, sposando senza esitazioni la sua folle idea.
Ma adesso? Adesso che cosa potevano mai raccontarsi quei due, lontano dalle sue orecchie?
«Mi ascolti, Cesare?» lo richiamò Decimo.
«Sì, perdonami» sospirò lui. Lanciò un’occhiata al mare placido che sosteneva la sua flotta e annuì. «Capisco quello che vuoi dire, ma non credo che dobbiamo preoccuparci. In queste acque dubito che incontreremo qualcuno disposto ad attaccarci.»
«Forse è così, però siamo troppo vicini alla costa» insistette Decimo. «Ci possono avvistare, e non sappiamo che cosa questo potrebbe comportare.»
Cesare si strinse nelle spalle.
«Tu che cosa penseresti, se vedessi una simile flotta viaggiare verso nord?»
«Non lo so, ma di certo avviserei i miei superiori.»
«I quali penserebbero a qualche spedizione organizzata da Marco Antonio, o da Ottaviano. Prima che arrivi una conferma passeranno giorni, e noi ormai saremo da tutt’altra parte.»
Decimo, poco convinto, fece per aggiungere qualcosa, ma proprio in quel momento un corno fece risuonare nell’aria salmastra il suo lugubre lamento.
«Che succede?» chiese Cesare, che aveva riconosciuto uno dei segnali di avvistamento concordati con i comandanti delle navi. Si sporse lungo la balaustra del ponte di comando e scrutò nella direzione da cui sembrava fosse arrivato il suono, ma non si vedeva nulla di particolare.
Quando anche un secondo e un terzo corno fecero udire la loro voce, lanciando allarmi da direzioni diverse, Decimo cominciò a urlare ordini agli sbandieratori, perché si mettessero in comunicazione con le navi più vicine per capire quello che stava succedendo.
Non ci volle molto perché una risposta arrivasse, mentre altri corni levavano nel vento i loro lugubri lamenti.
«Pirati!» esclamò Decimo. «Sette navi in rapido avvicinamento!»
«Cosa?» fece Cesare incredulo. «Ma erano stati debellati da Pompeo, cancellati da ogni tratto di mare conosciuto!»
«A quanto pare non è così» ribatté Decimo. «Le vedette sostengono che hanno vessilli cilici, e gli scafi sono dipinti di nero.»
Cesare si accigliò. Aveva già avuto delle brutte esperienze con i pirati, e se l’era sempre cavata brillantemente, arrivando anche a fare uccidere un’intera banda che aveva avuto l’ardire di rapirlo, quando da giovane era stata abbordata la nave su cui viaggiava per recarsi a Rodi a compiere studi di oratoria e filosofia. Però sapeva che era gente disposta a tutto, e senza alcun onore. Non combattevano per la gloria personale o per la loro patria, ma solo per accumulare ricchezze.
«Non oseranno attaccarci» affermò cercando le navi nemiche nella foschia che si addensava al largo, lontano dalle coste. «Siamo molto più numerosi.»
«Ma siamo anche dispersi su troppe miglia, proprio come temevo!» ribatté Decimo. «Potrebbero circondare e attaccare due o tre delle nostre navi, assaltarci, fare bottino e sparire in breve tempo.»
Cesare si rese conto che il suo praefectus aveva ragione, e strinse le mascelle cercando di pensare in fretta. Un tempo non avrebbe dovuto sforzarsi: si sarebbe mosso spinto dall’istinto, da quella capacità innata di cogliere al volo le situazioni e volgerle a proprio favore. Ma adesso il suo cervello era come intorpidito, e si rendeva conto che non riusciva a pensare con la necessaria lucidità. Davvero il modo migliore per iniziare la sua impresa.
«Da che parte arrivano?» chiese infuriato, mentre Decimo comunicava gli ordini agli sbandieratori, che li facevano viaggiare rapidamente da nave in nave, coprendo il vasto tratto di mare lungo parecchie miglia su cui la flotta si era sfilacciata.
Vi fu qualche istante di incertezza, mentre tutti sulla esareme si guardavano attorno tenendo le mani di taglio sulla fronte, per difendersi dal sole alto nel cielo.
Poi le risposte cominciarono ad arrivare.
«Vengono dritte su di noi!» rivelò Decimo. «Hanno scelto il bersaglio grosso!»
Cesare strinse i denti. «Allora non sanno che cosa li aspetta.»
«Avranno gioco facile, invece» ringhiò Decimo. «Questa nave è lenta e pesante, e le navi dei pirati sono agili e molto veloci. Se riescono ad abbordarci, non potremo impedirgli di salire a bordo.»
Cesare restò a fissarlo per qualche istante, poi la rabbia prese il sopravvento sulle sue incertezze. Gridò ordini ai suoi attendenti, perché gli portassero la lorica da combattimento, poi si rivolse a Decimo e ai due tribuni militari che lo servivano sulla esareme.
«Fate portare in coperta tutti i remi che abbiamo a bordo, e recuperate le armi più affilate che riuscite a trovare: falci, spade, pugnali.»
«Che cosa intendi fare?» gli chiese Decimo accigliato. «Senza remi come possiamo cercare di allontanarci, di raggiungere la costa?»
Cesare lo afferrò per le spalle, adesso animato da una strana eccitazione, che gli fece scorrere nel sangue il ricordo dei giorni di battaglia in Gallia, quando con l’intelligenza e l’astuzia era riuscito ad avere la meglio sull’impeto furibondo di nemici che non temevano la morte, e che credevano di poter sconfiggere chiunque.
«Rallentiamo la velocità di navigazione e facciamoci avvicinare dai pirati» spiegò. «In questo modo daremo l’opportunità alle nostre navi più veloci di raggiungerci per darci manforte, mentre noi li teniamo a bada.»
«E come pensi di fare?» domandò Decimo sorpreso. «Se ci abbordano...»
«Non lo faranno» lo interruppe Cesare, sicuro. «Ricordi la battaglia di Morbihan? Anche in quell’occasione siamo riusciti a fermare il nemico con uno stratagemma. Lo applicheremo anche questa volta.»
Decimo aprì la bocca per ribattere, ma all’improvviso sembrò ricordare.
«Le pertiche!» esclamò. «Vuoi usare i remi come pertiche a cui legare le lame!»
«Esatto» annuì Cesare, voltandosi per scrutare il mare.
All’orizzonte, verso ovest, le prime sagome delle navi nemiche cominciavano a essere visibili, più vicine di quanto avesse immaginato.
«Adesso però muoviamoci, perché non abbiamo troppo tempo. Stanno arrivando!»
La prima nave pirata, una trireme dalla prua alta e sottile, con tre rostri predisposti per l’arrembaggio su ciascuna fiancata, arrivò con un certo anticipo sulle altre, che stavano manovrando per completare l’accerchiamento. Decimo aveva già avvisato le navi più vicine a loro perché convergessero in aiuto all’esareme di comando, ma era chiaro che nessuna imbarcazione amica sarebbe riuscita a intervenire in tempo.
Cesare sapeva come avrebbero agito i pirati: dopo aver agganciato con i rostri l’esareme, che non poteva contare su un adeguato numero di arcieri e di legionari, sarebbero saltati a bordo, sacrificando i primi di loro per consentire agli altri di sciamare sul ponte come cavallette inferocite. A quel punto avrebbero gettato i corpi in mare, e poi avrebbero trasbordato sulle loro navi tutto quello che era possibile rubare dal ponte e dalle stive, fino a quando, con l’approssimarsi della flotta giunta in soccorso, sarebbero fuggiti prendendo direzioni differenti, contando sulla velocità delle loro imbarcazioni e sul fatto che sarebbe stato inutile impegnare troppe navi in una lunga caccia dagli esiti incerti.
Questo era certamente il loro piano, ma... non sapevano con chi avevano a che fare. Cesare non poté fare a meno di sogghignare, mentre l’eccitazione dello scontro imminente gli infiammava le vene.
Eccola, la magnifica sensazione di cui si era abbeverato per tanti anni, nelle gloriose campagne di conquista in Gallia, Germania e Britannia, e di cui da troppo tempo sentiva la mancanza.
Ancora una volta si rese conto di avere fatto la scelta giusta, e mentre sollevava il braccio per predisporsi a ordinare la manovra di arginamento della nave pirata, dilatò le narici e immaginò di sentire l’odore del sangue. Un odore afrodisiaco, a cui nessun vero soldato avrebbe mai potuto rinunciare.
I venti arcieri di cui disponevano erano stati predisposti sui due castelli di poppa e di prua di cui era provvista l’esareme, e da quella posizione sopraelevata, all’ordine dei tribuni, cominciarono a tirare in modo preciso e metodico contro i pirati addetti alla manovra del timone e delle vele, ignorando, al contrario di quanto avrebbe fatto chiunque si fosse trovato in una situazione analoga, la massa di soldati dai volti scuri, dipinti di nero, che era pronta a saltare sui rostri d’arrembaggio, una volta che fossero stati calati per agganciare l’esareme di comando.
«Fuori le pertiche!» ordinò Decimo dopo aver ricevuto il cenno di assenso da parte di Cesare, che aveva deciso di lasciare al suo praefectus classis il comando della difesa.
Mentre la nave pirata affiancava l’esareme, una selva di remi si sollevò in aria e poi si protese all’infuori, ciascuna pertica brandita da due rematori dalla parte della pala. Sulla sommità dei remi erano state legate le armi da taglio, che scintillavano nel sole mandando riflessi accecanti.
«Pronti a tagliare!» fu l’ordine successivo di Decimo, mentre dalla nave nemica arrivavano le urla di guerra dei pirati, che sollevando le spade e piccole asce da combattimento ringhiavano come creature demoniache con i volti e i petti nudi dipinti a strisce nere e ocra.
Cesare sapeva che l’intenzione dei cilici era prima di tutto quella di spaventarli, perché, se l’avversario retrocede per paura, allora la vittoria è assicurata.
La nave pirata si avvicinò ancora di più all’esareme, e i rostri cominciarono ad abbassarsi, governati da alcuni pirati che reggevano grosse cime realizzate con canapa intrecciata.
«Arcieri, sui manovratori!» gridò Decimo ai tribuni di riferimento, e subito la pioggia di frecce si spostò sugli uomini che avevano il compito di agganciare le passerelle di assalto contro la fiancata della loro nave. Questo gettò scompiglio fra i nemici, che dovettero rimpiazzare alle corde diversi operatori colpiti, e ritardò di qualche istante il momento dell’abbordaggio.
«Tagliare!» ordinò il praefectus, interpretando alla perfezione il momento favorevole per mettere in atto la loro principale manovra di difesa.
Come un sol uomo i rematori protesero le pertiche verso le sartie e le corde che reggevano le vele della nave nemica, agganciate agli anelli sulla fiancata o ai pali di governo, e grazie alle lame sulla sommità li tranciarono con una certa facilità, liberando con schiocchi e sferzate rabbiose le vele, che lasche nel vento non consentirono più ai nemici di mantenere la stessa velocità dell’esareme.
La nave pirata perdeva terreno, scivolando all’indietro. Gli arcieri continuarono a colpire metodicamente chiunque cercasse di raccogliere le sartie tranciate per tornare a tendere le vele, e ben presto divenne evidente che la manovra di abbordaggio dei pirati era stata compromessa.
Mentre urla di rabbia e frustrazione si levavano dai cilici impossibilitati ad attaccare, Decimo non diede tempo ai suoi uomini di esultare, indicando la seconda nave nemica che si stava facendo sotto da babordo.
«Nascondete le pertiche!» gridò. «Arcieri, al vostro posto!»
Mentre i più giovani fra i legionari si preoccupavano di rifornire gli arcieri di nuovi dardi e di controllare che le lame fossero ben legate sulla cima dei remi, Cesare osservò la nave pirata che avevano reso ingovernabile. Presto sarebbe stata preda delle trireme della flotta che stavano sopraggiungendo in loro soccorso: l’equipaggio, infatti, non avrebbe fatto in tempo a tendere di nuovo le vele per fuggire in mare aperto, e la nera imbarcazione con il vessillo cilicio sarebbe stata catturata. Nel frattempo, però, c’era da ripetere la loro astuta manovra contro la seconda nave pirata che li aveva avvicinati.
«Fuori le pertiche!»
L’ordine di Decimo schioccò nell’aria come un colpo di frusta, con tempismo perfetto. Cesare osservò la nave nemica che si affiancava all’esareme, e rivolse un sogghigno sarcastico ai pirati dipinti di nero e ocra che non immaginavano quello che sarebbe accaduto di lì a breve.
«Io sono Gaio Giulio Cesare!» urlò sporgendosi dalla fiancata della nave, sentendo l’impulso di espellere dai polmoni tutto il fuoco che si era accumulato dentro di lui per l’eccitazione della battaglia. «E voi morirete al mio cospetto!»
Detto questo si ritirò nella sua cabina, senza più interessarsi a quello che sarebbe accaduto là fuori. Sapeva che Decimo non lo avrebbe deluso e che nessuna delle navi nemiche sarebbe scampata alla furia della Legio Caesaris. La loro prima battaglia era già un grande successo, e questo non poteva essere che un segno della clemenza degli dei nei suoi confronti e della loro impresa.
«Aspettatemi» mormorò divertito, rivolgendosi alle divinità che immaginava lo stessero osservando incuriosite, «perché presto sarò da voi!»
Nessuno fra le sette imbarcazioni dipinte di nero dei pirati era riuscito a sfuggire alle trireme di Cesare. Erano state tutte raggiunte, circondate e abbordate dai soldati di più navi alla volta, e i pirati trucidati in modo sistematico, obbedendo agli ordini di Decimo, che erano stati precisi: «Salvate le navi, uccidete gli equipaggi e portateci i comandanti».
Adesso, sul ponte della esareme, uno sparuto gruppo di uomini e donne era schierato con i polsi legati dietro la schiena, costretti a restarsene inginocchiati al cospetto di Gaio Giulio Cesare, che dal castello di prora li fissava con lo sguardo duro e impenetrabile che Cicerone conosceva molto bene. Ben pochi avevano avuto il coraggio di opporsi a quella espressione, sui campi di battaglia o in Senato, e lui sapeva che era sempre stata quella la vera forza di Cesare: l’impossibilità di oltrepassare la barriera ferrea che sapeva erigere con lo sguardo, per capire che cosa gli passasse davvero per la mente.
Adesso, a dover soccombere alle sue occhiate brucianti erano i comandanti delle navi pirata, che pure sembravano uomini e donne preparati a tutto, abbrutiti dalla vita selvaggia che conducevano in mare, sempre a caccia di prede.
Soprattutto due, fra i prigionieri, avevano attirato subito l’attenzione di Cicerone. Un uomo gigantesco, che inginocchiato arrivava quasi alla stessa altezza dei legionari che lo tenevano d’occhio con le picche puntate, e la cui folta capigliatura era annodata in una lunga treccia che gli cadeva fin quasi sul sedere. Aveva i lati della testa rasati, e si potevano notare dei tatuaggi che raffiguravano scene di combattimenti tra navi, e giganteschi mostri marini che uscivano dalle acque. La folta barba era annodata a una spanna dal mento, e terminava con una doppia treccia che gli cadeva sul petto poderoso. Lo sguardo era intenso, pieno di sospetto e di rabbia ma senza traccia di paura, e la cicatrice che gli solcava buona parte della guancia sinistra rendeva la sua espressione molto pericolosa, capace di resistere anche a quella impenetrabile di Cesare.
Il secondo prigioniero che lo aveva incuriosito era una donna.
Cicerone sapeva che fra i pirati vi erano molte femmine guerriere, capaci di combattere a fianco degli uomini con la stessa selvaggia forza e determinazione, ma non ne aveva mai vista una abbigliata in quel modo, con fasce di cuoio che le stringevano il petto e le braccia, e le cosce nude talmente cotte dal sole da avere lo stesso colore della corazza rancida che indossava. Anche lei portava i capelli rasati ai lati della testa e folti in cima, legati in una treccia più corta rispetto a quella del gigante, ma più larga ed elaborata, quasi volesse dimostrare di possedere ancora un briciolo di femminilità. La donna non era bella di viso, a causa soprattutto del naso grosso e storto, come se glielo avessero fratturato più volte, ma aveva un corpo che attirava lo sguardo, perché anche sotto il cuoio che la fasciava si potevano intuire le forme generose.
Ma quello che inquietava erano lo sguardo e l’espressione del viso, che riflettevano un acido sarcasmo pieno di rabbia e di una ferocia senza pari, ben lungi dal volersi sottomettere alle spade che aveva puntate alla schiena o alla smorfia rabbiosa di Gaio Giulio Cesare.
Cicerone disprezzava i pirati, gente senza patria e senza regole che viveva per diffondere disgrazie e pensava solo ad arricchirsi, e più volte in passato ne aveva scritto per stimolare l’attenzione del Senato e dell’aristocrazia romana verso quella piaga che rendeva insicuri i mari. Gli tornò alla mente quello che aveva vergato in un suo libello e comprese, adesso che si trovava al cospetto dei ghigni truci di quegli uomini, di aver avuto ragione. Nel De officiis aveva scritto che il pirata non rientra fra i legittimi nemici di guerra, ma è il comune nemico di tutto il genere umano. Aveva fatto bene dunque Pompeo a sterminarli, e ora Cesare non doveva fare altro che sgozzare quegli ultimi superstiti senza onore e senza gloria.
«Voi sapete chi sono?» tuonò la voce del dittatore dopo che ebbe fissato a lungo i prigionieri. «Sapete chi avete avuto l’ardire di attaccare?»
I pirati mugugnarono qualcosa di incomprensibile, masticando parole ferrose e piene di rabbia con i denti neri e spaccati, ma all’improvviso il gigante latrò un ordine e tutti tacquero.
Tutti tranne la donna, che dilatò gli occhi con espressione famelica, come se si aspettasse una reazione di qualche tipo dal colosso che le stava accanto, e fosse pronta a tornare a combattere.
«Non sapevamo che ci fossi tu, Cesare» rispose l’uomo in un latino perfetto, che sorprese Cicerone. Il pirata non aveva un accento straniero, né delle province italiche. Sembrava che a parlare fosse stato un cittadino di Roma, e questo lo inquietò parecchio.
«Se lo aveste saputo ci avreste attaccato lo stesso?» gli chiese il dittatore con un sogghigno sulle labbra, forse già intuendo la risposta che sarebbe arrivata.
Il gigante esitò solo un istante, poi sputò per terra.
«Se lo avessimo saputo, avremmo radunato più navi, e non ci saremmo fatti cogliere impreparati» rispose, dimostrando una fluidità di linguaggio che poteva appartenere solo a una persona istruita.
Gaio Giulio Cesare rise piano, scambiò qualche parola con Decimo, poi scese dal castello di prua e si avvicinò ai pirati. I legionari di guardia serrarono le fila, pungolando i prigionieri con le punte delle spade e delle lance, per far capire loro che il primo che avesse fatto il seppure minimo movimento sarebbe stato infilzato all’istante.
«Mi piace la tua franchezza» sostenne Cesare ponendosi di fronte al gigante. «E io sarò altrettanto franco con te.»
«Perché perdi tempo in chiacchiere?» grugnì il pirata gonfiando i possenti muscoli delle mascelle.
Cicerone si rese conto che quell’uomo sarebbe stato un formidabile gladiatore. Se lo avessero portato a Roma, avrebbero potuto... s’interruppe trattenendo il fiato, quando ricordò che ormai per lui Roma non esisteva più, se non nei ricordi.
Cesare si piegò in avanti, abbassando il viso alla stessa altezza di quella del gigante.
«Perché ho un patto da proporti» rivelò, facendo sobbalzare Cicerone per la sorpresa.
Il gigante restò impassibile, ma non ribatté, lasciando che Cesare continuasse.
Il dittatore tornò a raddrizzarsi, allungò una mano e si fece passare una daga da un tribuno. Soppesandola si avvicinò a uno dei pirati inginocchiati all’estremità del gruppo di prigionieri.
«Come forse saprai, non sono uomo di molte parole. Preferisco l’azione. E dunque la mia proposta sarà facile da comprendere.»
Si interruppe, guardò la lama luccicante della daga, che doveva essere stata affilata da poco, poi con uno scatto fece compiere una stretta curva al braccio e con un colpo di grande abilità tagliò di netto la testa al pirata che aveva di fronte. Un fiotto di sangue pulsò dal collo reciso mentre il corpo si afflosciava a terra, e la testa volò direttamente in mare, oltre il parapetto fornito di corde di sicurezza.
Due o tre pirati sobbalzarono. Uno si piegò su se stesso per la paura, ma gli altri restarono impassibili, come se si fossero aspettati, prima o poi, di fare quella fine.
«Questa è una possibilità» riprese Cesare mostrando al gigante la daga lorda di sangue. «Dare le vostre teste in pasto ai pesci. E poi anche i corpi, naturalmente, dopo che vi avremo spogliati delle vostre armature, delle armi e degli abiti puzzolenti con cui vi coprite.»
Grugniti più forti si levarono dai prigionieri. Cicerone comprese che Cesare aveva toccato un punto dolente di quegli uomini senza patria e senza legge: potevano essere uccisi, ma volevano raggiungere i loro dei, chiunque fossero, pronti a combattere come avevano sempre fatto, magari per mettersi a razziare anche i Campi Elisi, o l’equivalente secondo il loro credo. Ma se il romano li avesse spogliati e gettati in mare nudi e disarmati, senza la testa a controllare il corpo... nessuno poteva dire che cosa ne sarebbe stato di loro.
«L’altra» continuò Cesare a voce più alta, perché le sue parole fossero chiare, «è che decidiate di mettervi al mio servizio.»
Questa volta il brusio sorpreso che si diffuse sulla nave non provenne solo dai pirati, ma anche dai legionari e dagli ufficiali che gremivano il ponte della esareme.
Solo Cicerone non aveva sussultato, né era rimasto sorpreso: aveva intuito un istante prima che cominciasse a parlare quello che passava per la testa del dittatore. E in qualche modo ne restò divertito, perché dimostrava che la mente di Cesare era ancora lucida e scaltra come quando aveva guidato le legioni di Roma alla conquista del mondo.
«Scordatelo!» ringhiò la donna accanto al gigante, sputando per terra un grumo di catarro che rappresentava tutto il suo disgusto. «Io ti mangerò il fegato, appena potrò!»
Cesare la fissò senza scomporsi, con un sorriso tirato sulle labbra. Le si avvicinò e le passò il filo della lama della daga sul collo, tracciando una sottile striscia di sangue.
«Se ti taglio la testa, scommetto che la tua avvenenza ne guadagnerebbe» disse, e molti fra i pirati sogghignarono, nonostante la situazione in cui si trovavano.
La donna mostrò i denti neri, a corollario di una smorfia rabbiosa che la fece assomigliare più a un cane con la bava alla bocca che a un essere umano.
Cesare la ignorò, poi tornò a rivolgersi al gigante, che doveva avere individuato come il comandante.
«Tu che cosa rispondi? Vuoi provare a mangiarmi il fegato o ti interessa ascoltare quello che ho da dirvi? Da come parli devi essere vissuto a Roma, quindi sai che mantengo la parola.»
L’uomo lo soppesò per più tempo di quanto Cicerone si fosse aspettato, dando l’impressione di valutare con attenzione quello che stava succedendo, poi annuì con un cenno del capo.
«Ti ascolto» rispose, mentre la donna al suo fianco cominciava a strillare come una forsennata, in pieno disaccordo con lui. Tacque subito, però, perché il colosso le diede una gomitata formidabile sul viso, che le ruppe per l’ennesima volta il setto nasale facendo scaturire un fiotto di sangue.
Cadde a terra ululando per il dolore, ma il gigante già non le prestava più attenzione. Fissava Cesare con gli occhi stretti in due fessure, in un’espressione che diceva che era disposto ad ascoltarlo ma senza concedergli un briciolo di fiducia.
Cesare afferrò la donna per le spalle, la fece rialzare e poi tornò a guardare il gigante.
«Voi vi unirete alla nostra flotta» cominciò, mettendo finalmente allo scoperto quello che la sua mente inesauribile aveva elaborato. «Comanderete le vostre navi, che avranno un equipaggio composto da uomini della mia legione, e obbedirete ai miei comandi e a quelli del mio praefectus classis.» Con il braccio teso indicò Decimo. «Se proverete a fuggire, vi inseguiremo fino in capo al mondo e vi uccideremo. Se proverete a derubare qualcuno della legione, sarete crocifissi ai pennoni delle navi.»
«Io ti ammazzo!» gridò la donna, sputando bava e sangue, ma il gigante si girò di scatto verso di lei e la guardò come se volesse farla a pezzi. Senza pronunciare una sola parola, riuscì ad ammansirla, dopodiché tornò a voltarsi verso Cesare.
«Se ti seguiremo, tu che cosa ci offrirai, in cambio?» chiese con stupefacente arroganza, come se si trovasse nella posizione di fare richieste.
Cesare scoppiò a ridere, poi si avvicinò al pirata con la daga puntata in avanti.
Cicerone per un momento pensò che era stata tutta una farsa, e che alla fine Cesare aveva deciso di non concedere alcuna fiducia a quei selvaggi, uccidendoli senza esitazioni. Invece Gaio riuscì a sorprenderlo ancora una volta: girò attorno al colosso, e con un unico colpo tagliò le corde che gli imprigionavano i polsi.
«Se ci seguirete, allora avrete la vostra parte di bottino» affermò mentre il gigante, sorpreso almeno quanto lo era Cicerone, si massaggiava i polsi e si tirava lentamente in piedi. «Sarete pares inter pares, e dunque tutto ciò che sarà nostro sarà anche vostro.»
Adesso che si era eretto in tutta la sua statura, il pirata faceva davvero impressione, perché sovrastava anche il più alto dei legionari romani di tutta la testa.
«Perché ci vuoi con te?» chiese alla fine, ponendo la domanda che anche Cicerone si stava facendo.
«Perché sapete come navigare, e perché potete anticipare la flotta per individuare navi nemiche, in modo da evitare scontri inutili. Nessuno deve sapere della nostra esistenza, e chi meglio delle vostre navi senza vessilli potrà farci da vedetta?»
Cicerone considerò le parole di Cesare. Suo malgrado comprese che il dittatore, ancora una volta, aveva ragione. Si era mosso in anticipo su tutti, e aveva elaborato una strategia a cui nessuno sembrava avere pensato.
«Se catturiamo donne, le voglio anche per me» disse il gigante.
«E per me!» aggiunse la ragazza con il naso fratturato.
Cesare sorrise compiaciuto.
«Naturalmente» rispose. «Le prede di guerra sono di chi le conquista. È sempre stato così, nelle mie legioni, e lo sarà anche adesso.»
Il gigante annuì piano, poi senza girarsi per chiedere il consenso agli altri pirati si batté con forza il braccio sul petto.
«Siamo al tuo servizio, Cesare» proclamò. «Pares inter pares.»
Il dittatore gli diede una pacca sulla spalla e poi si rivolse ai tribuni militari che lo affiancavano: «Liberateli. E rifocillateli».
Detto questo raggiunse Decimo e si diresse con lui nella cabina di comando.
Cicerone restò ancora per qualche istante a osservare i pirati e le loro espressioni, in parte incredule e in parte indecise. Poi scivolò via, per dirigersi verso il suo alloggio. Credeva di conoscere bene Gaio Giulio Cesare, ma quello a cui aveva appena assistito cambiava di parecchio le cose.
E gli fece capire che forse non aveva del tutto sbagliato, nell’unirsi a lui in quella impresa.