12
Castrum Ibericum
Penisola Iberica
41 a.C. – 712 ab Urbe condita
Marco Licinio Crasso consultò le ultime tavolette di argilla che contenevano i rapporti dei mastri carpentieri e del tribuno addetto ai rifornimenti, poi si lasciò cadere sulla grande sedia con schienale curvo che si era fatto costruire appositamente per reggere il peso della sua schiena, sempre dolorante, e bevve un sorso di vino. Tutto sommato doveva essere soddisfatto per i progressi che stavano facendo nel castrum, che sempre più si stava trasformando in una vera e propria città, pronta ad accogliere Cesare e gli altri quando fossero tornati dalla loro trionfale spedizione.
Crasso non aveva dubbi che Gaio, con l’aiuto di uomini di valore come suo figlio Publio, Decimo, Marco Giunio Bruto e Spartaco, sarebbe riuscito a trovare il segreto più ambito dagli uomini fin dall’inizio dei tempi, e sarebbero tornati indietro per condividerlo anche con lui, eppure... eppure non riusciva ad allontanare quel senso di malessere che lo aveva preso fin da quando aveva visto partire la flotta e Cesare lo aveva abbandonato lì, in quella terra inospitale e selvaggia, con compiti che avrebbero inorgoglito chiunque altro ma non lui, che era stato triumviro insieme a Cesare e aveva rinunciato a tutto, pur di far parte di quella straordinaria avventura.
«Se mi dimenticherete, io... io...» Non riuscì a concludere la frase, e con un impeto di furia repressa scagliò il boccale contro la parete, allargando una macchia viola che lentamente cominciò a scivolare fino a terra, lasciandosi dietro le tracce delle impurità di quel vino ottenuto da vecchia uva trasportata per troppo tempo a bordo delle navi. Avevano piantato diverse vigne sulle colline intorno al castrum, ma i più esperti fra i contadini al suo servizio avevano espresso le loro perplessità sul clima e sulla posizione della baia in cui si erano attestati, troppo esposta al vento perché l’uva potesse crescere nel modo migliore.
«Non importa» aveva ribattuto Crasso. «Quando Cesare tornerà berremo il nettare degli dei, e il migliore tra i vini ci sembrerà acqua sporca.»
Lui aveva sempre cercato di sprizzare ottimismo, per fare in modo che i suoi uomini, lasciati lì a lavorare e a rimpiangere i giorni di gloria che aspettavano gli altri componenti della legione, non avessero da lamentarsi troppo della sorte che era toccata loro. Ma adesso l’amarezza e lo scontento traboccavano con fiotti di rabbia che lo rendevano sempre più debole, sempre più irato, sempre più amareggiato nei confronti dell’uomo che credeva di avere amato come un fratello e che poi lo aveva tradito in quel modo.
«Tu sei troppo vecchio» gli aveva detto Cesare, e al ricordo Crasso si alzò in piedi stringendo i pugni e si avvicinò al grande specchio di bronzo collocato su un sostegno di legno.
Si guardò per qualche istante, poi con rabbia si diede un pugno sul ventre sproporzionato rispetto al resto del corpo e si portò le mani sul collo, dove la pelle si afflosciava grigia e increspata dalle rughe. Quella vista bastò a calmarlo, e a fargli capire che forse Gaio aveva avuto ragione: lui sarebbe stato solo di impaccio, nelle terre gelide e difficili del Nord, mentre lì, nel castrum che sarebbe diventata la nuova capitale del regno di Cesare, avrebbe potuto dare il suo contributo per lo splendore della legione e per preparare il terreno alla riconquista del mondo da parte di tutti loro.
Si toccò ancora la pelle flaccida sotto il mento e scosse piano la testa.
«Devi sbrigarti, amico mio» mormorò rivolto a Cesare, ovunque si trovasse in quel momento, «altrimenti potresti non arrivare in tempo per garantirmi di poter essere al tuo fianco per sempre.»
Con un sospiro tornò a versarsi un altro boccale di vino, poi prima che potesse raccogliere altre tavolette per verificare come procedevano i lavori di costruzione del tempio di Giove, di cui lui stesso aveva disegnato la planimetria, avvertì degli schianti all’esterno, urla concitate e, all’improvviso, il suono dei corni di allerta, che gli fece correre lunghi brividi di paura in tutto il corpo.
Corse fuori dall’edificio in cui aveva fatto allestire i suoi uffici e l’alloggio che divideva con i suoi schiavi e i suoi liberti, e cercò di capire che cosa stesse succedendo.
«Siamo sotto attacco!» gridò uno dei centurioni preposti alla difesa del castrum, raggiungendolo di corsa. L’uomo aveva il fiatone, e un rivolo di sangue gli colava dalla tempia, dove qualcosa lo aveva colpito.
«Che succede?» lo interrogò subito Crasso, scrutando verso il mare e accorgendosi che c’erano delle macchie scure sull’acqua, all’interno della baia. Maledisse i suoi occhi, che ormai da qualche anno non gli consentivano più di vedere bene come una volta, e tornò a rivolgersi al centurione: «Parla!».
«Delle navi» rispose questi. «Sono comparse all’improvviso, sbucando dalla foschia, e hanno subito cominciato a bersagliarci con le catapulte.» Si portò la mano al taglio che aveva alla testa e la ritrasse sporca di sangue. «Hanno abbattuto con facilità le mura esterne, e sono sbarcati. Abbiamo cercato di impegnarli, ma...»
«Ma cosa?» chiese Crasso esasperato, continuando a stringere gli occhi per cercare di capire cosa stesse succedendo nella parte inferiore del castrum, quella più vicina al porto che stavano costruendo. Tutta la città si sviluppava sul fianco di un’ampia ma dolce collina che digradava fino al mare, e proprio come a Roma aveva deciso di costruire la dimora di Cesare sul punto più alto del rilievo, accanto alle ville degli altri comandanti e alla sua. Da lassù era possibile dominare tutta la baia, ma non per chi, come lui, ormai non riusciva a distinguere nulla che fosse più lontano di una ventina di braccia.
Il centurione scosse la testa, con la paura che gli tracimava dagli occhi.
«Sono tanti e bene addestrati» riferì. «Sono penetrati nel castrum con facilità, uccidendo tutti i nostri uomini. E adesso sono diretti qui!»
Crasso era allibito. Guardò ancora nella nebbia con cui i suoi occhi impastavano il paesaggio, e si accorse che c’era del fumo nell’aria, e fiamme che lambivano le costruzioni erette con tanta fatica.
«Ma chi sono?» mormorò, senza riuscire a capacitarsi di ciò che stava accadendo. «Pirati? Qualche tribù iberica che ci ha individuato? Come possono essere così tanti e...»
«No» lo interruppe il centurione, sfoderando la spada e voltandosi quando delle urla risuonarono nitide, in rapido avvicinamento. «Sono romani. E da come si muovono sembrano una centuria addestrata proprio a questo scopo.»
«Quale scopo?» volle sapere Crasso, che ormai non riusciva più a pensare con la lucidità che lo contraddistingueva.
«Scovarci e annientarci!» ringhiò il centurione, scattando in avanti per frapporsi ad alcuni uomini armati che comparvero dalla via principale del castrum, quella che Crasso avrebbe voluto chiamare via Sacra, per accogliere nel modo migliore il ritorno trionfale di Cesare. «Scappa, mio signore! Fuggi! Mettiti al sicuro!»
Crasso esitò solo un istante, poi si voltò e corse nell’ala della sua casa che era agibile, e che era già stata decorata all’esterno con colonne, capitelli e statue, realizzati da un giovane legionario che si era scoperto artista e architetto di prim’ordine. Ma dove avrebbe potuto fuggire?
All’improvviso si fermò. Restò immobile al centro della grande sala consiliare con i pugni stretti, rimpiangendo di non avere un’arma con sé, ma sempre più carico di rabbia e furore, capaci di disperdere la confusione e la paura che gli avevano annebbiato la mente.
Come osavano distruggere il suo castrum? Non sapevano con chi avevano a che fare? Non immaginavano che presto la furia di Cesare si sarebbe abbattuta su di loro, per vendicare tutte quelle morti e tutta quella distruzione?
Quando alle sue spalle avvertì il rumore di passi in corsa, che si fermavano a breve distanza da lui, Marco Licinio Crasso respirò a fondo, raddrizzò la schiena e si volse per affrontare i suoi avversari. Voleva capire chi fosse stato così pazzo da mettersi contro il divino Cesare.
«Sono lieto di rivederti dopo così tanto tempo» disse una voce a lui nota, che lo paralizzò per lo stupore. «E devo farti i miei complimenti, perché siete riusciti a costruire una magnifica città. Peccato solo che presto ne resteranno solo le macerie.»
Non c’era ilarità in quella voce, né disprezzo o sarcasmo. Solo la sicurezza tipica di chi è abituato a comandare e sa di essere il più forte.
L’uomo fece altri due passi in avanti e si portò in un punto in cui Crasso riuscì a metterlo a fuoco, anche se lo aveva già riconosciuto. Non era invecchiato molto, dall’ultima volta che si erano incontrati, e l’arroganza che gli balenava dagli occhi scuri era la stessa che gli aveva visto quando, al servizio di Cesare, quel giovane ambizioso era parso a tutti il più fedele guardaspalle che un dittatore potesse desiderare.
«Marco Antonio» sibilò, stringendo a vuoto il pugno intorno all’elsa della spada che avrebbe voluto avere a disposizione, per scagliarsi in avanti e tagliare la gola a quel traditore. «Perché sei qui?»
Il nuovo re di Roma rise divertito.
«Davvero non lo immagini?» chiese a sua volta. Si avvicinò di un altro passo, arrivando a portata della rabbia di Crasso, che però restò immobile, ben sapendo che non sarebbe nemmeno riuscito a toccare quel codardo, prima che le spade dei suoi legionari lo trafiggessero.
«Cesare ha fatto un patto, con te» rispose cercando di condire con tutto il suo disprezzo le parole che pronunciava e che erano la sua unica arma, in quel momento. «Ti ha lasciato Roma, in cambio della libertà.»
Marco Antonio strinse gli occhi in due fessure. «La libertà di conquistare la vita eterna e tornare per reclamare ciò che ha sempre considerato suo» ribatté.
«Lui è Gaio Giulio Cesare!» ringhiò Crasso. «È il signore di tutti noi.»
L’espressione di Marco Antonio cambiò, tramutandosi in rabbia pura, che gli deformò il bel viso cotto dal sole.
«Non il mio!» urlò. «E se crede di poter tenere tutto per sé il segreto dell’immortalità...» Scosse la testa e sghignazzò. «Be’, si sbaglia. Vi sbagliate tutti!» Strinse un pugno mostrandolo a Crasso. «Sono già riuscito a strappargli Roma e la donna più bella che un uomo possa desiderare, Cleopatra. E non mi fermerò certo qui.»
«Non riuscirai a fermarlo, quando tornerà» ribatté Crasso. «E anche tu dovrai inchinarti al suo cospetto.»
Marco Antonio non replicò, restando a contemplarlo per qualche istante. Poi fece un cenno, e un uomo lo affiancò. Era alto, robusto, eppure dava l’impressione di essere anche agile come il più esperto dei gladiatori. Una lunga cicatrice gli attraversava il volto da sinistra a destra, rendendo la sua espressione truce, eppure sotto quella pelle coriacea Crasso intuì che doveva essere stato un bell’uomo.
«Lui è Servio Primicerio, il più fidato dei miei tribuni» lo presentò Marco Antonio. «Si metterà sulle tracce di Cesare, lo troverà e lo ucciderà. Naturalmente non prima di avergli strappato tutti i segreti che mi interessano.»
Crasso scosse la testa.
«Se ti illudi che qualcuno possa dirti dove trovare Cesare, sei uno stolto.»
Marco Antonio sorrise.
«Ce lo dirai tu» affermò. «Prima di morire crocifisso come tutti i nemici di Roma.»
Senza dare il tempo a Crasso di ribattere, fece un cenno a Primicerio, che a sua volta ordinò ai suoi uomini di circondare Crasso e immobilizzarlo.
Lui non provò nemmeno a reagire, perché sapeva che sarebbe stato inutile.
«Non dirò una parola» promise mentre lo portavano via. «Se mi conosci anche solo un poco, sai che dico la verità. Non basteranno le torture a farmi parlare, e quando sarò nei Campi Elisi, farò di tutto per avvertire Cesare di quello che stai tramando.»
Marco Antonio scoppiò a ridere.
«Allora ti terremo in vita il più a lungo possibile» rispose, facendo correre un brivido gelido lunga la schiena di Crasso. «E se non parlerai tu, lo faranno i tanti che abbiamo preso prigionieri e che tortureremo notte e giorno, fino a quando non avremo le risposte che cerchiamo.»