13
Oceanus Magnus
41 a.C. – 712 ab Urbe condita
Il vento era calato. La nebbia si era fatta così fitta che ormai da diverse ore le navi procedevano molto lentamente, mentre le vedette arrampicate sui rostri di prua e sui pennoni degli alberi cercavano di scorgere eventuali pericoli che si profilassero davanti a loro. I richiami scanditi da una nave all’altra servivano a tenere unita la flotta, mentre si procedeva su quei mari sconosciuti tenendo la rotta in base al movimento delle correnti. Non potendo osservare il sole o le stelle, non era facile procedere nella direzione che si erano prefissati da quando avevano lasciato le coste della Gallia, ma Cesare sapeva che i suoi marinai erano esperti e abituati a trovarsi in quelle situazioni difficili, e non dubitava che avrebbero trovato il modo di attraversare il tratto di mare che li separava dalla Britannia senza farli schiantare contro scogli affioranti o, peggio ancora, far perdere loro la rotta, allontanandoli verso le distese sconosciute del vasto oceano. Nessuno sapeva che cosa ci fosse, a ovest, e lui non aveva nessuna intenzione di scoprirlo adesso. Dovevano raggiungere le coste della Britannia e sfruttarle per navigare in sicurezza verso nord, avendo dei chiari punti di riferimento per la navigazione, come riportato sulle carte di Pitea e Imilcone.
«Cosa faremo, quando saremo arrivati a destinazione?» gli aveva chiesto Decimo prima che si alzasse quella nebbia densa e pastosa come fumo, seppure del tutto inodore.
«Quale destinazione?» si era intromesso Cicerone, che era con loro nella cabina di comando dell’esareme, insieme a Bruto e a Publio. «Io ancora non ho capito quale sarà la nostra prossima meta.»
Cesare lo aveva fissato cercando di capire quale fosse l’umore di quell’uomo, che dopo aver abbandonato la battaglia contro l’oppidum gallico si era tenuto in disparte, accigliato e immerso nei suoi pensieri. Quando era stato convocato il Consiglio di guerra, era arrivato per ultimo, a piedi scalzi, con la stessa tunica sgualcita che indossava da diversi giorni e il viso ricoperto da una barbetta grigia a chiazze che lo faceva ancora più vecchio. E soprattutto con una luce sarcastica e diffidente negli occhi che a Cesare non era piaciuta per niente.
«Stiamo seguendo la rotta tracciata dagli antichi navigatori» aveva risposto Decimo, mostrando una carta spiegata sul tavolo. «Passeremo oltre le coste dei Venéti, che da sempre commerciano con i Britanni del Sud, e dopo avere attraversato il tratto di mare aperto che divide la Gallia dalla Britannia, costeggeremo i territori dei Dumnonii, per approdare in una baia abbastanza tranquilla e lontana da insediamenti di questa tribù celtica.»
«E poi?» aveva chiesto ancora Cicerone, guardando Cesare. «Una volta approdati che faremo? Costruiremo un altro castrum e ci lasceremo alle spalle un altro pezzo di flotta? Hai forse intenzione di sbarazzarti a uno a uno di noi, per arrivare da solo al cospetto degli dei?»
Il sarcasmo nelle sue parole era stato evidente, ma Cesare aveva deciso di ignorarlo. Dopo aver lanciato un’occhiata a Bruto, che lo stava fissando con sospetto, in attesa della sua risposta, si era avvicinato al tavolo e aveva puntato un dito sulla vecchia carta nautica, che ritraeva in modo dettagliato le coste della Britannia occidentale.
«Conosco questa gente, so di che pasta sono fatti i Dumnonii» aveva risposto. «Sono selvaggi che praticano riti sanguinari, e che seguono ciecamente i dettami dei loro druidi. Ma possiedono anche un barlume di civiltà, il che significa che potremo intrattenere delle relazioni con loro, e cercare di fare degli scambi per ottenere cibo e, soprattutto, informazioni.»
«Perché dovrebbero trattare con noi?» si era inserito Publio, versando del vino in alcune coppe che poi aveva distribuito. «Hanno combattuto ferocemente, durante le tue spedizioni in Britannia, e il risultato è che non sei riuscito a fare di quelle terre una provincia romana. Immagino che non abbiano un buon ricordo delle legioni.»
«Inoltre» aveva aggiunto Bruto, «queste popolazioni vivono nella parte più a sud della Britannia, che è una terra immensa, non si sa dove finisca. Come possono esserci utili per ciò che troveremo a Nord?»
Cesare aveva annuito. Quelle domande se le era poste anche lui, e aveva già trovato le risposte.
«Conosco un uomo» era stata la sua rivelazione, che aveva fatto sorgere espressioni di sorpresa sui volti di tutti. «Un druido. Un potente mago con cui ho trattato la pace e che si è dimostrato abbastanza saggio da salvare la sua gente in cambio di informazioni. Se l’ha fatto una volta, sono sicuro che mi ascolterà ancora.»
«Un druido?» aveva chiesto perplesso Cicerone. «Vuoi dire che ci stiamo affidando a un uomo che hai visto l’ultima volta più di dieci anni fa, e che a quest’ora potrebbe essere morto? E poi, che informazioni potrebbe darci sulla Britannia del Nord? Su quei territori oscuri dove nessuo si è ancora spinto tornando vivo per riferirne?»
Cesare aveva sospirato, cercando di restare calmo.
«Ovadico, questo è il nome di quel druido» aveva risposto. «Era stato catturato da un mio tribuno, Quinto Atrio, che gli aveva estorto alcune importanti informazioni.»
«Per esempio?» l’aveva sollecitato Bruto.
«Per esempio il fatto che ogni anno i druidi celti si radunano in una grande foresta del Nord, un bosco da loro considerato sacro e conosciuto solo dai maghi più potenti, in cui si scambiano conoscenze e scoperte, oltre a tutto ciò che accade nelle parti più remote del loro mondo. È così che un druido del Sud può venire a conoscenza di ciò che accade nei territori del Nord, e sa come procurarsi le informazioni che ci serviranno per il nostro viaggio.»
Nessuno aveva ribattuto alle sue parole, e Cesare aveva continuato a spiegare quale rotta avrebbero dovuto seguire per raggiungere il più in fretta possibile i territori dei Dumnonii, ma poi si era alzata la nebbia. Decimo aveva ordinato alle navi di ammainare le vele e procedere lentamente, restando in contatto tramite le grida di richiamo delle vedette.
Adesso, mentre si guardava attorno senza riuscire a scorgere nulla che non fosse la materia lattiginosa di quella bruma che sembrava scaturita direttamente dall’Averno, Cesare si augurò di non finire in prossimità delle coste dei Venéti, con cui aveva da sempre un conto aperto, dopo che li aveva sanguinosamente sconfitti. Non era sicuro che adesso, nonostante fossero cittadini sottomessi a Roma, fossero disposti ad accoglierlo in pace, quando lo avessero riconosciuto.
Cicerone restò a contemplare la parete del suo cubiculum per un tempo fin troppo lungo, poi prese una decisione. Risalì fino al ponte superiore dell’esareme, dove sapeva che vi avrebbe trovato Cesare, e cercò di liberare la mente da qualsiasi pensiero o considerazione, per affrontarlo a viso aperto con la sincerità dipinta sul volto e la coscienza esposta. Gli avrebbe confessato che quell’impresa non si confaceva al suo carattere, al timore che nonostante tutto provava per le insidie verso cui stavano viaggiando, e soprattutto al suo desiderio razionale di considerare gli uomini di pari intelletto un gruppo capace di prendere decisioni insieme, discutendole e dibattendole anche con ferocia, ma lasciando che fosse il consesso democratico ad avere l’ultima parola, e non l’ambizione di un dittatore.
Si era fatto ammaliare dalla prospettiva di conservare imperitura la sua anima mortale, e adesso ne pagava lo scotto, con l’accidia che lo martoriava e una paura sotterranea che gli saliva sempre più verso la gola, togliendogli il respiro.
Ne aveva avuta una prova eclatante durante la battaglia in Gallia, e non osava pensare che cosa sarebbe accaduto quando fossero sbarcati nei territori sconosciuti del nord della Britannia, alla ricerca della strada che portava nelle lande proibite degli dei. Dei sconosciuti, forse, che nulla avevano da condividere con quelli severi ma a lui familiari che aveva sempre onorato a Roma.
Con questi pensieri raggiunse il castello di comando e si guardò intorno, alla ricerca di Cesare. La nebbia ottundeva qualsiasi cosa, impedendogli di vedere a più di un braccio di distanza. La respirò a fondo, trovandola gelida e irritante per il naso e la gola, come se contenesse qualcosa di più della salsedine distillata dall’oceano.
Di Cesare non c’era traccia. Pensò che forse era nella grande sala in cui tenevano le riunioni del Consiglio, oppure con Calpurnia, nella sua cabina, a divertirsi insieme a quella donna pirata che ormai sembrava essere diventata la loro amante.
Mosse qualche passo in avanti tenendosi alla balaustra, ma all’improvviso vi fu un boato. La nave venne percossa da uno scossone formidabile, che fece perdere la presa a Cicerone e lo scaraventò a terra.
Cos’era successo? Avevano forse urtato uno scoglio? Ma com’era possibile, lì in mare aperto?
Con il cuore in gola per lo spavento ascoltò le urla che si alzavano in ogni direzione e cercò di rimettersi in piedi. Ma un nuovo scossone fece vibrare il ponte della nave, e lui crollò ancora sulla schiena, senza riuscire a reggersi in piedi.
Se l’esareme aveva colpito degli scogli, o una secca, forse lo scafo si era danneggiato, e adesso rischiavano di affondare. Mentre si rialzava faticosamente, Cicerone ricordò che non sapeva nuotare. Non ne aveva mai avuto bisogno, perché al massimo si immergeva nelle acque placide delle terme del Foro e della sua villa romana, o in quelle dei palazzi degli altri senatori. Quando era stato a bordo di qualche nave, si era sempre comportato con la sicurezza di chi ha fiducia nei mastri carpentieri dell’Urbe e sa che affondare una di quelle imbarcazioni non era facile.
Ma adesso? Adesso che si trovavano in quell’oceano sconosciuto, in prossimità di terre ostili, in cui nessuno lo avrebbe riconosciuto, che cosa sarebbe successo se l’esareme fosse scomparsa tra i flutti?
Mentre intorno a lui le grida si susseguivano concitate, attutite in parte dalla bruma, Cicerone riuscì finalmente a rimettersi in piedi e corse verso il punto in cui aveva intravisto delle figure muoversi tra volute di nebbia eburnea.
«Preparate la balista a vapore! Tutti gli arcieri sul ponte!»
La voce che dominava su tutte era quella di Gaio Giulio Cesare, che ancora una volta aveva preso il comando e sembrava sicuro di sé, pieno di quella protervia che in altre circostanze aveva dato fastidio a Cicerone, ma che adesso, in quella situazione di panico e di incertezza, sembrava l’unico punto di riferimento cui aggrapparsi.
Non c’erano più stati scossoni, e in qualche modo l’anziano oratore aveva capito che Decimo aveva fatto ritirare tutti i remi della nave, per governarla solo con il timone e lasciare che si muovesse al minimo della velocità, trascinata solo dalle correnti.
«Perché la balista a vapore?» chiese sconcertato quando finalmente riuscì a trovare la forza per emettere un filo di voce. Non era sicuro che Cesare lo avesse udito, mentre tutto intorno a loro ufficiali e soldati correvano in ogni direzione, diffondendo gli ordini, così si fece più vicino al dittatore, che era in piedi sulla tolda di comando, le mani bene agganciate alla balaustra e il viso scuro, con l’espressione decisa che ben gli conosceva. Accanto a lui c’erano Decimo e Bruto, Spartaco e alcuni tribuni di cui non ricordava il nome.
«Perché la balista?» urlò Cicerone quando fu abbastanza vicino.
«Non siamo andati contro degli scogli» rispose Decimo scuotendo la testa. «Siamo lontano dalla costa.»
Cicerone lo guardò sorpreso.
«Allora cos’è successo?»
Prima che qualcuno potesse rispondere, un suono si propagò nella foschia, lungo, lento e lamentoso, come il verso di un animale che si stesse stirando le membra. Un animale gigantesco e impossibile, se riusciva a trasformare in frastuono quello che per un cane o un gatto sarebbe stato un gemito strascicato.
Cicerone, gli occhi sgranati, guardò Cesare, e poi Bruto, per cercare una risposta che potesse attenuare il terrore che gli attanagliava le viscere.
«Laggiù!» gridò all’improvviso Decimo, facendolo sobbalzare.
Si voltò verso il punto indicato, a babordo della grande nave, e per un istante non vide niente, ma poi si rese conto che quella enorme massa scura che premeva lungo il fianco della esareme non era causata dalla nebbia, bensì da qualcosa che si muoveva, cauta e diffidente come una bestia uscita dal Tartaro che stesse soppesando la loro nave, prima di attaccarla con le fauci spalancate.
«Che cos’è?» sentì chiedere da Bruto, in un sussurro fatto di spavento e di superstizione primordiale; lo stesso sentimento che avvertiva in gola come lava incandescente.
Gaio Giulio Cesare tenne lo sguardo puntato su quella forma scura che si muoveva appena, sfiorando lo scafo della nave ed emergendo dall’acqua con movimenti lenti, appena percettibili, eppure incredibilmente reali, lì davanti agli occhi di tutti. Senza pronunciare una parola indicò la balista a vapore, che fin dalla partenza aveva fatto montare sul castello di prua, e interrogò Decimo con gli occhi. Il praefectus classis annuì, poi batté il pugno contro il petto di uno dei suoi tribuni e gli fece segno di andare verso la balista, forse per verificare se era pronta per tirare.
L’uomo, che aveva il volto pietrificato dal terrore, osservò per un istante Cesare, vide la decisione che gli animava lo sguardo, e senza dire una parola corse via per attraversare il ponte superiore della esareme e andare a controllare a che punto fosse la loro unica arma in grado di competere con la creatura che strisciava intorno alla nave.
Cicerone stava cercando di non perdere il senno immaginando quali dimensioni potesse avere quel mostro marino, a giudicare da ciò che riusciva a scorgere nella nebbia. Per la prima volta si trovava davanti una delle creature di cui parlavano i poemi antichi, e che riempivano la bocca ai marinai di ritorno dai viaggi nei mari più lontani. Faticava a credere che si trattasse di qualcos’altro, magari una nave pirata che li aveva affiancati, e che stava cercando la posizione migliore per far calare il rostro d’arrembaggio. Scosse la testa e si chiese perché la sua mente, che aveva affrontato con diffidenza e ostilità quelle credenze popolari, adesso non esitasse a immaginare la più immensa e feroce delle creature celata oltre i refoli di nebbia.
Era la paura che trasformava la superstizione in realtà?
Non lo sapeva, e certo non aveva il tempo, adesso, di capire i meccanismi misteriosi della mente umana. Della sua mente.
Quando un leggero scossone fece traballare di nuovo la nave, come un fuscello in balia di una tempesta, Cicerone si lasciò cadere a terra e si rannicchiò su se stesso. Aveva scorto la massa possente della bestia anche dall’altra parte della nave. Dunque la creatura che li stava annusando e saggiando era così grande da riuscire a circondare tutta l’esareme, avvolgendola con il lungo corpo scuro che sembrava appartenere a un serpente colossale.
Chiuse gli occhi, e cercò di ricordare i testi che aveva studiato, in cui si parlava delle creature divine che popolavano i mari.
Possibile che fossero al cospetto di Tiamat, la dea primordiale custode degli oceani, che contendeva a Nettuno le vittime predestinate? Secondo le credenze, fin dai tempi di Babilonia si pensava che Tiamat avesse le sembianze di un immenso serpente marino dotato di grandi corna, e quello che aveva visto scivolare intorno alla loro nave poteva...
Qualcuno si mosse accanto a lui. Cicerone riaprì gli occhi di scatto e vide Cesare impartire ordini ai suoi uomini con cenni delle mani e scandendo le parole in modo che potessero leggergli le labbra, e capì che era stato chiesto di non fare alcun rumore.
Intorno a lui erano tutti in piedi, vigili e aggrappati a qualcosa per tenersi saldi nel caso in cui il mostro avesse attaccato. Lui solo era rannicchiato a terra come un codardo, e questo bastò a provocargli una fitta di dolore lungo tutto il corpo. Con fatica si tirò su, e proprio in quel momento Tiamat decise di abbandonare ogni indugiò e si sollevò dalle acque, sovrastandoli con il suo corpo immenso e terrificante.
In quell’istante Cicerone comprese che la creatura era lì per lui: per punirlo per la sua arroganza, e fargli capire che il suo posto era nel più profondo degli abissi.
Quando il mostro si eresse ben al di sopra dell’altezza del pennone centrale della nave e un nuovo e più forte scossone fece tremare tutta l’esareme, Cesare si attaccò al corrimano. Aspettò di capire se ci sarebbe stato l’attacco, ma quando la creatura tornò ad abbassarsi immergendosi nell’oceano, lanciò una rapida occhiata a Cicerone, lesse il terrore che gli impietriva il volto, e forse anche l’anima, e decise di ignorarlo. Non aveva tempo per i codardi. Non in quel momento.
Finalmente gli dei si sono accorti di me, pensò con uno strano senso di trionfo che contrastava con la paura che gli rendeva molli le gambe. Perché aveva capito che cosa stava attaccando la sua nave, e sapeva che se la furia degli dei si fosse accanita contro di loro, ben poco avrebbe potuto fare per opporsi, perché per quanto arrogante, sicuro di sé e convinto di potersi conquistare un posto fra i signori della terra e dei mondi superiori, aveva ancora un corpo debole e mortale, e poteva fare affidamento solo sull’intelligenza e sul coraggio per affrontare le possenti creature degli abissi o dei cieli infiniti.
Cercando di non parlare troppo forte, perché aveva compreso che il mostro marino li stava ancora studiando, forse per decidere se erano pericolosi e dunque andavano eliminati in un solo boccone, o se invece poteva lasciarli andare, si rivolse a Decimo, che si stava sbracciando per dare ordine agli arcieri disposti su tutti i lati della nave.
«Quando la balista a vapore è pronta falla caricare, ma non tirate. Lo stesso dicasi per gli arcieri.» Lo fissò duramente negli occhi. «Controlla tu stesso. Se i nostri uomini si fanno prendere dal panico, è finita.»
Decimo annuì, pallido come la nebbia acida che li stringeva d’assedio e che forse era il fiato del mostro marino, e si allontanò per dare gli ordini.
Cesare cercò i contorni del serpente oltre la nebbia e all’improvviso si accorse che un muso mostruoso lo stava fissando. Si irrigidì stringendo le mani attorno alla balaustra per impedirsi di crollare accanto a Cicerone, e nascondere la testa fra le braccia come stava facendo lui, e sostenne lo sguardo della colossale creatura.
Non sapeva dire a che cosa assomigliasse: forse alle più orribili rappresentazioni dei suoi incubi, con quegli occhi enormi che baluginavano come gemme scarlatte, sormontati da corna nere che si protendevano all’infuori, capaci da sole di sventrare una nave in un solo colpo. Il muso della bestia era più simile a quello di un serpente che a un toro, ma la nebbia cancellava buona parte dei rilievi e delle protuberanze ossee che lui intuiva, e questo bastò a evitare che perdesse il senno. Perché non si può guardare in volto uno dei più antichi demoni dei mari sperando di restare lucidi e fedeli a se stessi. Le profondità dell’abisso erano pronte ad accoglierlo, e lui lo sapeva bene.
Per questo restò aggrappato alla nave come se potesse diventare una cosa sola con l’esareme, per fare capire a quel mostro che lui non era una creatura fragile e sottomessa, e che sarebbe stato pronto a reagire, se quel servo di Nettuno avesse provato ad attaccare.
La bestia restò a fissarlo per un po’, emettendo un grugnito basso e cavernoso che forse echeggiava solo nella fantasia di Cesare, poi all’improvviso scattò all’indietro, come se fosse stato morso da qualcosa, e si inabissò con un movimento fluido, poderoso, sollevando onde enormi capaci di sballottare l’esareme con forza.
Cesare non riuscì a restare aggrappato alla balaustra e cadde a terra, mentre tutto intorno a lui gli uomini urlavano, forse credendo che fosse arrivato il momento della fine.
Ma lui sorrise, e si sentì riempire di eccitazione.
Girò su se stesso e afferrò Cicerone per le spalle, affrontando la sua espressione di puro terrore.
«Ce l’abbiamo fatta!» ringhiò, scuotendo il laticlavius. «Gli dei ci hanno guardato da vicino e hanno capito che devono portarci rispetto!»
Cicerone lo fissò come se non sentisse nemmeno le sue parole, e Cesare si alzò, mentre la nebbia lentamente cominciava a diradare.
«Io sono Gaio Giulio Cesare!» gridò con tutto il fiato di cui disponeva, mentre gli uomini si giravano a osservarlo. «E sono pronto a combattere contro chiunque cercherà di fermarmi!»
Restò in attesa di un segnale da parte degli dei, forse il ritorno della creatura dagli abissi, questa volta per fare a pezzi lui e la sua nave piena di arroganza, ma non vi fu alcun suono, nessun movimento oltre la nebbia che adesso, sotto le sferzate di un vento sempre più impetuoso, si stava disperdendo in fretta.
Quando ebbe la certezza che Nettuno non si sarebbe più interessato a loro, ordinò di tendere le vele e di far sapere al resto della flotta che presto sarebbero arrivati in prossimità della costa, dove avrebbero potuto scendere sulla terraferma per compiere sacrifici nel nome degli dei che ancora provavano benevolenza nei loro confronti. E per cercare di convincere gli altri che forse era arrivato il momento di cominciare a temerlo.
La nave era piccola, leggera e dunque molto veloce, capace di affrontare i mari in tempesta galleggiando sulle onde come un giunco, quasi impossibile da affondare. Alla manovra c’erano i migliori marinai reclutati presso la flotta di Miseno, e il comandante di quell’imbarcazione senza vessilli e segni di identificazione sapeva che poteva fidarsi di loro per affrontare il mare in qualsiasi condizione di tempo.
Dopo avere guardato a lungo la linea della costa che si intravedeva appena oltre la foschia, decise che era arrivato il momento di ottenere qualche informazione. Ordinò ai suoi attendenti di mantenere la rotta, e di avvisarlo nel caso fosse comparsa all’orizzonte una nave qualsiasi, poi scese di sotto, negli angusti cubicola in cui si stipava tutto l’equipaggio. Quello era l’unico svantaggio di avere una nave così piccola, lo sapeva bene Servio Primicerio, ma l’importante era che fosse in grado di sfuggire a qualsiasi altra imbarcazione. Non avrebbero dovuto ingaggiare battaglia con nessuno, perché la sua missione prevedeva ben altro, e dunque ciò che davvero importava era che la nave potesse correre sulle acque come una quadriga nel Circo Massimo, così rapida e agile nelle manovre da non poter essere raggiunta e fermata da altre imbarcazioni.
Cercando di respirare con la bocca per evitare gli odori pungenti che ammorbavano l’aria là sotto, Servio fece un cenno alle guardie accanto alla porta dell’ultimo cubiculum sul fondo, quello più stretto e maleodorante, e aprì la porta. Dovette piegarsi per non sbattere la testa contro la trave superiore, ma quando fu dall’altra parte si richiuse la porta alle spalle e tornò a respirare con le narici dilatate. Perché era vero che il puzzo, lì dentro, era più forte che in qualsiasi altro angolo della nave, ma era un odore diverso, che in qualche modo riusciva a eccitarlo. Non c’era quell’insieme di sudore, piscio e afrori umani che si amalgamavano in una miscela densa e pastosa, che si appiccicava alla pelle e si riusciva ad attenuare un po’ solo salendo sul ponte superiore, all’aperto, per farsi asciugare dal vento che correva tra il sartiame.
In quella stanza l’odore preponderante era quello del sangue. Ma anche dello sperma, quando le prigioniere che vi venivano recluse dovevano sottostare ai desideri dei loro carcerieri.
Adesso c’era un solo uomo, che non era legato o incatenato perché nelle condizioni in cui si trovava non avrebbe potuto muoversi, e anche se i suoi escrementi erano una pozza disgustosa che si allargava sotto di lui seguendo l’inclinazione del pavimento della nave, la soddisfazione di vederlo rannicchiato su se stesso, tremante come un coniglio impaurito e con il sangue che si era seccato sulle ferite alla testa, sul viso e sulle braccia, dove i suoi soldati avevano infierito per procurare dolore senza rischiare di ucciderlo, era così grande che si sentì pervadere da un senso di eccitazione quasi fisica.
«Ho bisogno di farti alcune domande» disse accucciandosi di fronte a ciò che restava di colui che era stato uno degli uomini più ricchi e influenti di Roma, prima che decidesse di intraprendere una sfida troppo difficile per le sue possibilità. «Come vedi sono solo, dunque non ci sarà più dolore. Potrai parlare in libertà, rivolgendoti a me da uomo a uomo.» Tacque per un istante, fissandolo per capire se l’altro avesse inteso le sue parole, poi allargò un sorriso cattivo, di quelli che sapeva in grado di terrorizzare i suoi prigionieri. «Naturalmente, se deciderai di restartene zitto sarò costretto a far tornare i miei uomini, e questa volta credo che useranno il fuoco e i loro strumenti incandescenti per farti dire quello che potresti confidarmi adesso in tutta tranquillità.»
Servio restò a guardarlo in silenzio per un altro po’, poi allungò una mano e lo scosse.
«Tu sei Marco Licinio Crasso, lo ricordi?» gli chiese. Cominciava ad avere il dubbio di essere stato più pesante di quanto avrebbe dovuto, con quel grasso e vecchio prigioniero. «Dimmi cos’hai intenzione di fare. Vuoi parlare con me o preferisci intrattenerti con i miei uomini?»
Dopo qualche istante di immobilità, Crasso volse piano la testa verso di lui, guardandolo dalle fessure tra gli occhi gonfi come noci e viola come le acque del mare su cui stavano scivolando in quel momento.
«Perché il tuo padrone non mi ha crocifisso?» gli domandò con voce stentorea eppure al tempo stesso decisa, come se non si rendesse conto della situazione in cui si trovava.
«Ha preferito tenerti in vita» rispose Servio con un sogghigno. «E francamente non saprei dire se per te è meglio o peggio.»
Crasso cercò di sputare sul pavimento, proprio davanti ai suoi piedi, ma dalla bocca gli uscì solo un rigagnolo di muco rossastro che gli restò incagliato fra i denti e scivolò sul mento.
«Quando Cesare vi avrà fra le mani, capirete che cosa significa implorare la morte» sostenne con una protervia che in qualche modo sorprese Servio Primicerio. Forse aveva sottovalutato quell’uomo, oppure semplicemente l’aveva sentito urlare e singhiozzare con tanta forza da avere creduto che fosse un codardo. Doveva essere poco abituato al dolore, e quella era stata una normale reazione di paura a ciò che gli avevano fatto. Ma adesso... adesso tutto il suo carattere tornava alla luce, e nonostante si trovasse seduto sui suoi stessi escrementi, non sembrava disposto a piegarsi tanto facilmente.
Servio si alzò e dilatò le narici, cercando l’odore della salsedine fra il puzzo di sangue e deiezioni umane che ammorbava tutto.
«Va bene. Ti lascerò meditare ancora per un po’. Poi tornerò con i miei uomini, e non sarò più così indulgente.»
Si avvicinò a Crasso e si chinò verso di lui, per guardarlo da vicino.
«E ricorda una cosa» sibilò, sentendo la rabbia crescere dentro di lui. «Non è Cesare a cercare me, ma l’esatto contrario. Lui nemmeno sa che io e i miei uomini esistiamo. Tu ci porterai da lui, e sta’ sicuro che nemmeno si accorgerà della mia presenza, quando gli porterò via tutto quello che ha conquistato.»
Fece per rialzarsi, sicuro di avere annientato quel vecchio stolto rannicchiato su se stesso, ma si bloccò sorpreso quando avvertì uscire dalle labbra spaccate di Crasso una debole risata.
«Tu non sai niente di Gaio Giulio Cesare» gli disse il triumviro guardandolo con disprezzo. «Invece lui sa tutto di uomini come te. Ne ha abbattuti a centinaia. E non farà nessuna fatica a disfarsi anche della tua carogna.»
Servio fece per replicare, ma si rese conto che non sarebbe servito a nulla. Quel vecchio era fuori di testa, blaterava cose senza senso e forse nemmeno si rendeva conto di quello che diceva. Il che poteva solo significare che gli sarebbe stato di poco aiuto.
In quel caso, pensò uscendo dalla stanza a passo rapido, sospinto dal desiderio di tornare all’esterno e lasciarsi avvolgere dal vento, lo avrebbe crocifisso davvero a uno dei pennoni della nave. E avrebbe rintracciato Cesare in qualche altro modo, come aveva sempre fatto. Perché lui era bravo, come segugio, e Marco Antonio lo sapeva. Altrimenti non gli avrebbe mai concesso tanta fiducia.
E lui non lo avrebbe deluso per nulla al mondo.