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Formia

43 a.C. – 710 ab Urbe condita

7 dicembre

«Filologo, tranquillizza il tuo padrone. Non siamo spiriti malvagi, né creature emerse dall’Averno. Siamo vivi almeno quanto lui.»

Gaio Giulio Cesare era divertito. Aveva immaginato che Cicerone sarebbe rimasto sconvolto, quando lui gli fosse comparso davanti, ma che addirittura perdesse i sensi...

Era crollato a terra come un pupazzo a cui qualcuno avesse reciso i fili che lo tenevano in piedi, e adesso era sdraiato su un triclinio dove il suo liberto, Filologo, cercava di rianimarlo passandogli sulla fronte un panno bagnato.

Cesare lo guardava con un sorriso di scherno, pronto a ritrovare l’uomo dall’animo impetuoso che ben conosceva, l’uomo che era stato uno dei suoi più acerrimi avversari, negli ultimi anni, e che pure lui aveva imparato ad ammirare, per la capacità di difendere il suo pensiero senza mai tradirlo. Di Cicerone, infatti, si poteva dire tutto tranne che non fosse saldo di principi e disposto a dare anche la vita pur di non rinnegare le sue idee, giuste o sbagliate che fossero. Era con quel genere di uomo che voleva tornare a parlare, e di cui aveva bisogno.

«Padrone, se vuoi del vino, io...» disse Filologo aiutando Cicerone a mettersi seduto sul triclinio.

«No» l’interruppe il vecchio oratore sollevando una mano ma continuando a tenere gli occhi chiusi, come se pensasse che così facendo presto tutto sarebbe tornato alla normalità. «Portami solo dell’acqua.»

Il liberto lanciò un’occhiata a Cesare, che acconsentì perché si allontanasse per provvedere ai bisogni del suo padrone.

«Continuare a ignorarmi non mi farà sparire» disse poi, piantandosi a gambe larghe davanti a Cicerone, subito raggiunto da Crasso e da Decimo. «E nemmeno loro.»

Cicerone prese un lungo respiro, sollevò le palpebre e li guardò.

Cesare scorse subito, in quegli occhi, la luce severa e intelligente dell’uomo che aveva conosciuto e con cui si era aspramente confrontato, e annuì soddisfatto. Aspettò che Filologo fosse di ritorno con una brocca d’acqua e un bicchiere, poi, dopo che Cicerone si fu dissetato, decise che era arrivato il momento di affrontare di nuovo colui che era considerato il più grande oratore di Roma, strenuo difensore della Repubblica, e che mai era riuscito a portare dalla sua parte.

«Ti faccio di nuovo la domanda» lo provocò. «Non avrai davvero creduto che fosse così facile uccidermi?»

Cicerone restò a fissarlo in silenzio, probabilmente ancora troppo sconvolto per riuscire ad articolare una risposta sensata, e Cesare scoppiò a ridere, cercando di attenuare la tensione.

«Portateci del vino!» ordinò ai suoi servi, che avevano preso possesso della villa di Cicerone come se fosse una delle sue residenze sul Palatino. «E sediamoci tutti, così riusciremo a parlare con più calma.»

Cicerone restò immobile a osservarli, scoccando occhiate di fuoco a Decimo e cercando forse di interpretare il senso della presenza dei redivivi Crasso e Publio, che credeva morti da anni.

Cesare non sapeva se il vecchio oratore avesse riconosciuto anche altri della scorta che aveva voluto con sé, fra i quali alcuni tribuni militari che avevano prestato servizio nelle legioni al suo comando prima del passaggio del Rubicone, e diversi centurioni che risultavano morti nella battaglia di Carre, oppure scomparsi con quei diecimila legionari che secondo la leggenda erano stati catturati dai Parti e costretti a combattere nei più lontani territori d’Oriente.

Dopo che fu servito il vino e tutti ebbero bevuto a piccoli sorsi, Cesare decise che era arrivato il momento di tornare alla carica.

«Ho fatto in modo che tu assistessi al mio assassinio, insieme a quei pochi senatori che sono stati scelti per contribuire al riordino della pace a Roma.»

Un lampo attraversò gli occhi di Cicerone.

«Pace?» mormorò con voce roca e cavernosa, scuotendo la testa. «Ma di che parli? Hai idea di quanti morti hanno lordato di sangue le strade? Di quale caos si sia generato dalla tua...» Sollevò una mano a indicarlo, e Cesare annuì.

«... farsa?» chiese, guardandolo negli occhi.

Cicerone aprì la bocca per ribattere, o forse per appesantire ancora di più il tono di accusa nella sua voce, ma poi abbassò la testa mugugnando qualcosa di incomprensibile, masticato tra le labbra con rabbia malcelata.

«Dategli del vino» ordinò Cesare.

Filologo si mosse rapido, e dopo avere versato in un boccale il vino scuro e pastoso di cui la villa di Formia sembrava ben provvista, lo passò a Cicerone, che lo accettò dopo un istante di esitazione.

Mentre l’oratore beveva, Cesare prese un lungo respiro, poi si fece portare uno sgabello da uno dei servi e si sedette, allungando i piedi in avanti come era solito fare quando assisteva alle riunioni nella Curia dal suo scranno dorato.

«Hai idea del fardello che ho dovuto sopportare per tutti questi anni?» disse con voce pacata, riflessiva. Quello era il primo momento, da quando tutto era cominciato, in cui riusciva davvero a fare mente locale sugli avvenimenti incredibili che avevano sconvolto la vita politica e sociale di Roma. E la sua. «Voi mi accusavate di essere un dittatore, ma non vi rendevate conto che in realtà ero uno schiavo. Schiavo della lotta per il potere, signore e padrone di un impero corrotto e senza nerbo.»

«Non c’è mai stato un impero» ribatté Cicerone, guardandolo con un’espressione lucida e determinata. Era tornato pienamente padrone delle sue facoltà, e questo rallegrò Cesare. «Roma è una Repubblica, dittatore, ricordalo.»

«Naturalmente. Per questo sono stato ucciso.» Si girò a indicare Decimo. «Per questo è stato organizzato un complotto, guarda caso proprio dalle persone che tutti credevano mi fossero più care, più vicine.»

Cicerone forse non colse del tutto l’ironia delle sue parole, perché strinse i denti e scosse piano la testa.

«Adesso capisco molte cose» mormorò, allargando una smorfia che, più che di disprezzo, sembrava di delusione e di commiserazione. «Perché ti sei sbarazzato della scorta poco prima dell’attentato, e perché non hai ascoltato tutti coloro che ti mettevano in guardia.»

«Incredibile come le voci circolino anche quando fai di tutto per mantenere il segreto» ridacchiò Cesare. «In realtà non so come avessero fatto in così tanti a venire a sapere della congiura che io stesso avevo organizzato, però non è stato difficile fingere di ignorarli con il mio consueto disprezzo per le umane cose.»

«E il sangue?» insistette Cicerone. «Tutto quel sangue di cui eri ricoperto, che impregnava la tua magnifica toga?»

«In parte era mio, certo» confermò Cesare, «ma scaturito dalle prime pugnalate superficiali che mi sono state inflitte proprio a quello scopo. Casca e Bruto hanno agito consapevoli di avere gli occhi di tutta la Curia puntati addosso.»

«Ci siamo anche feriti a vicenda» intervenne Decimo. «Per spargere più sangue possibile addosso a Cesare.»

Crasso emise una risatina mentre scuoteva la testa. «Bruto è stato accoltellato al polso molto più forte del previsto. A momenti Cassio gli staccava una mano!»

Cicerone li guardava come se facesse fatica a metterli a fuoco. Restò per un attimo in silenzio, poi fissò ancora Cesare.

«Dunque è per questo che ti sei coperto il capo con la toga insanguinata, quando sei crollato ai piedi della statua di Pompeo» mormorò, come se stesse dando una spiegazione più a se stesso, che ai suoi interlocutori. «Non era vergogna...»

«Direi proprio di no» ridacchiò Cesare. «Sono stato portato via così, con il capo coperto, e nessuno ha verificato che fossi davvero morto, ricordi?»

«Ma perché?» tornò a chiedere Cicerone, sconcertato. «Perché tutto questo? A quale scopo?»

«Per Roma» rispose Cesare. «Per il suo popolo. E soprattutto per me e per tutti coloro che sono disposti a seguirmi.»

Questa volta fu il turno di Cicerone di tirare le labbra in un sorriso sarcastico.

«Mi stai dicendo che il duro dittatore, l’uomo spietato e inflessibile che ha tenuto Roma e il Senato sotto scacco per tanto tempo, in realtà fingeva il suo tenace attaccamento al potere per difendere un cuore tenero e altruista?»

Di fronte a quella acida ironia, Cesare sentì montare la rabbia. Ma fu solo un istante, perché subito lasciò disperdere l’irritazione nell’aria stantia di quella villa sperduta in un mondo che sembrava ignorare quale fosse il peso della responsabilità che un uomo come lui aveva dovuto sopportare per tanto tempo.

«No» confessò, quando tornò a sentirsi calmo e rilassato. «Io ho sempre lottato per il potere, lo sappiamo entrambi. Ma nel tempo ho capito una cosa molto semplice, che uomini come te dovrebbero comprendere.»

Fece una pausa, durante la quale restò con gli occhi puntati in quelli di Cicerone, che sostenne con fermezza il suo sguardo, senza però nascondere la curiosità.

Fu l’oratore a cedere per primo e a fare la domanda che Cesare si aspettava: «Che cosa? Che il semplice potere non basta? Che a uomini come te, più vicini agli dei rispetto a qualsiasi altro, interessa sopravvivere persino a se stessi? Vuoi imitare Alessandro il Grande? Vuoi cercare invano l’immortalità, come già Alessandro fece nei più lontani e oscuri territori d’Oriente, arrivando a morire sotto il peso della sua follia? È questo che hai capito?».

Cesare non finse di essere sorpreso dalla capacità di Cicerone di leggergli nella mente e nel cuore. Si sporse verso di lui, cercando di far riverberare dagli occhi e dalla voce tutta l’euforia che lo dominava ormai da tempo.

«È proprio questo che voglio» affermò, suscitando una contrazione di stupore sul volto dell’oratore. «Solo che io non sono Alessandro, non sono così sprovveduto. So dove cercare il segreto dell’immortalità, e quando lo avrò conquistato tornerò nell’Urbe, per rendere eterno il nostro popolo e il dominio di Roma sul mondo.»

Senza rendersene conto aveva allungato il pugno in avanti, stringendo con tanta forza da farsi male alla mano. Piano piano distese i muscoli, prese un altro profondo respiro, poi scosse la testa.

«Non sono pazzo, credimi» disse, anticipando quella che immaginava sarebbe stata la replica di Cicerone. «E, se me ne darai l’occasione, ti dimostrerò che è così, e che quello che voglio fare...» S’interruppe, per indicare gli altri che lo circondavano in silenzio. «Quello che vogliamo fare, non solo ha senso, ma dovrebbe sollecitare la curiosità e il desiderio di conoscenza di uomini come te, che mi auguro di poter avere al fianco in questa impresa.»

Cicerone adesso appariva davvero turbato, anche se Cesare scorgeva in un anfratto di quegli occhi scuri e profondi un barlume della curiosità che, nonostante tutto, anima le menti superiori, e su cui lui contava per trovare un appiglio per farsi ascoltare.

«Io mi sono sentito grande quando ho fatto quello a cui ogni vero romano dovrebbe anelare: combattere e sottomettere i nemici alla potenza di Roma. Ed è questo che intendo perseguire ancora, ma a modo mio, lontano dalle diatribe di un sistema politico corrotto e marcio fin nel midollo.»

«E come?» proruppe Cicerone imporporandosi in volto. «Come puoi arrivare a questo fingendoti morto? E perché blateri di immortalità come un bambino che crede alle leggende più sciocche?»

«Ho dovuto fingere la morte per sottrarmi una volta per tutte alla schiavitù del comando. Il comando politico di Roma, osteggiato da tanti e manipolato da molti altri per interessi personali.» Stava parlando con franchezza, mettendo a nudo la propria anima, e comprese subito che Cicerone adesso lo ascoltava più attento, consapevole che non stesse mentendo o alterando i fatti a suo beneficio. «Voglio tornare a combattere alla testa dei miei legionari, per scoprire i luoghi più lontani e misteriosi del mondo, e soggiogarli al dominio di Roma.» Prima che l’altro potesse ribattere, sollevò una mano per chiedere di poter continuare. «E quando tornerò ai Fori per celebrare il mio trionfo, non lo farò solo come Cesare, come il fantasma di un uomo che è dovuto scendere a compromessi con le esigenze di potere di tanta gente senza nerbo pur di raggiungere i suoi obiettivi. Lo farò da immortale, per regalare a Roma la gloria eterna. E tutti coloro che saranno con me torneranno nell’Urbe da miei pari, perché non ci possono essere gerarchie fra chi supera le barriere troppo strette della vita e della morte.»

Quando terminò di parlare, un pesante silenzio calò nella sala. Nessuno muoveva un muscolo, nessuno sembrava nemmeno respirare.

Cicerone lo fissava immobile, paralizzato forse dalla follia del suo progetto, o estasiato al pensiero di poter cogliere una luce inaspettata, quella della tanto agognata vita eterna che non poteva certo lasciarlo indifferente.

Cesare conosceva bene gli uomini come lui: si battevano per ciò in cui credevano, anche a scapito della propria vita, ma alla fine anche loro inseguivano la celebrità, l’agio e la ricchezza fra i mortali. Tutti elementi che prima o poi sarebbero svaniti nell’oscurità dell’oblio.

Ma ecco che all’improvviso il mondo si ribaltava. Cesare tornava dall’Averno dichiarando che voleva dedicarsi a un compito ben più arduo e sublime di quello a cui qualsiasi essere umano poteva ambire: trovare il modo per rendere eterno l’ego che ognuno alimenta dentro di sé.

«Ma qui, a Roma... c’è il caos, la gente muore. Come possiamo lasciare tutto questo per... per la tua follia?»

Le parole di Cicerone erano state pronunciate a fatica, Cesare lo comprese subito, ma erano il segno evidente della resa del vecchio oratore, che aveva creduto di dover morire e ora trovava un orizzonte insperato aperto davanti a sé.

Lanciò una breve occhiata a Decimo e Crasso, poi continuò.

«Marco Antonio sapeva tutto, e ci ha aiutati fin dall’inizio in questa impresa» rivelò. «E come lui Lepido. Dopo qualche necessaria epurazione, presto anche Bruto e Cassio si fingeranno morti e si uniranno a noi. Dopodiché, come puoi ben immaginare, saranno Antonio e Ottaviano a regnare su Roma, mettendo fine alla guerra civile. Il che ci permetterà di abbandonare tutto a cuor leggero.»

«Ma dove vorresti andare?» Cicerone allargò le braccia sgomento. «Con chi vorresti combattere? Dove cercherai il segreto dell’immortalità? Nei territori più sperduti del mondo ci sono solo popolazioni barbare e belve feroci, oltre alle orrende creature che tutti i nostri miti ci tramandano. Stai forse cercando un nuovo modo per suicidarti?»

«No, ti posso assicurare che non è così» ridacchiò Cesare. «Abbiamo già previsto tutto, e siamo pronti per la nostra prima spedizione. Il segreto dell’immortalità appartiene agli dei, ma anche ai grandi condottieri che sapranno combattere per conquistarlo. Quello che ti chiedo è di mettere da parte per un po’ la tua diffidenza e seguirmi. Ti farò vedere quello che abbiamo organizzato, poi starà a te decidere se venire con noi o fuggire ad Atene per raggiungere tuo figlio. Io non ti fermerò, né ti consegnerò a Marco Antonio e alle sue liste di proscrizione. Hai la mia parola.»

Vi fu ancora silenzio, e questa volta durò più a lungo di quanto Cesare si fosse augurato. Ma alla fine Cicerone scosse la testa, guardò a uno a uno tutti coloro che lo stavano osservando, poi si alzò in piedi.

«Siete tutti pazzi, questo lo sapete già» affermò. «Ma io non credo di essere più assennato di voi. Dunque, Cesare, proverò a seguirti per cercare di capire a quale assurdo gioco stai giocando.»

«Bene» annuì Cesare, compiaciuto.

«Però» continuò Cicerone puntandogli un dito, «prima spiegami una cosa. Perché mi vuoi con te? Perché cerchi la compagnia di un nemico, in questo progetto? Non credi che ti sarò solo di ostacolo?»

Cesare lo fronteggiò con un sorriso.

«Perché ho bisogno di qualcuno che non tema di contraddirmi. Qualcuno così abile e intelligente da avere la mia stessa ambizione, ma capace di guardare le cose sotto punti di vista differenti dai miei. Prerogativa indispensabile per affrontare le incognite che ci aspettano.»

Cicerone restò a meditare per qualche istante, poi guardò Filologo e disse: «Fai preparare tutto ciò che occorre. Partiamo solo io e te, gli altri sono liberi di andare dove meglio credono».

«Anche Tirone?»

«Soprattutto lui.»

Cesare scambiò qualche sguardo soddisfatto con Decimo e Crasso, poi senza aggiungere altro si diresse verso l’esterno della villa, seguito da Cicerone.

Sapeva che quell’uomo non era una persona facile da gestire, ma anche se Decimo e Crasso non erano mai stati del tutto d’accordo con lui, sentiva di avere fatto la cosa giusta a volerlo con loro. Affrontare gli dei per trafugare loro il segreto dell’immortalità non era una sfida che potesse compiere da solo. Aveva bisogno di un’altra intelligenza almeno pari alla sua e, per quanto lo avesse osteggiato politicamente, Cicerone era l’unico che potesse competere con lui. Uniti, avrebbero potuto raggiungere il traguardo.

E lui era ben determinato a conquistarlo a ogni costo.