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Oceanus Magnus
Al largo delle coste della Gallia Celtica
41 a.C. – 712 ab Urbe condita
Nonostante il mare piatto come una lastra di bronzo, su cui il sole si rifletteva spandendo raggi infuocati, le navi della piccola flotta di Gaio Giulio Cesare procedevano a gran velocità, sospinte dal movimento ritmico e poderoso impresso dai vogatori, che seguivano una progressione di colpi scandita dai tamburi dei capivoga.
Decimo aveva dato ordine perché gli scafi solcassero il mare in modo rapido e sicuro, ma senza costringere i rematori a uno sforzo troppo elevato, anche perché a bordo non c’erano schiavi ma soldati della legione, e per quanto vogare fosse un esercizio importante per mantenere in forma gli uomini, sarebbe stato insensato portarli oltre i limiti e rischiare che crollassero per la fatica.
Cesare era sceso già diverse volte nei ponti inferiori dell’esareme per osservare la perfetta sincronia dei vogatori, che, seduti praticamente uno sopra l’altro negli spazi angusti di solito riservati agli schiavi, versavano sudore mentre tendevano i muscoli delle braccia, della schiena e delle gambe. Per orinare avevano a disposizione delle anfore, una per ogni fila di tre rematori, ma fin troppi di loro preferivano farla per terra, dove l’urina si mischiava al sudore sollevando nel ventre della nave un odore acre e pungente, che si insinuava nelle narici fino ad arrivare al cervello.
Nonostante il puzzo, Cesare aveva portato il conforto della sua presenza a tutti quegli uomini che si affaccendavano intorno ai remi, e sapeva che altrettanto avevano fatto i comandanti delle altre navi.
«È importante che capiscano che non stanno scontando una punizione» gli aveva spiegato Decimo, «ma che stanno operando per il bene di tutta la flotta.»
Adesso Gaio si trovava sul castello di comando dell’esareme, insieme ai suoi ufficiali, e osservava il profilo della costa disegnato a poche miglia da dove le imbarcazioni filavano agili e sicure sull’acqua. Avevano individuato solo un paio di piccoli porti di pescatori, e ormai da diverso tempo si scorgevano unicamente grandi foreste che raggiungevano il mare, arrestandosi su contrafforti rocciosi che non consentivano l’approdo.
«Secondo le carte dovremmo essere in prossimità dei territori dei Pictones» disse Decimo battendo il dito su alcune pergamene. «Dovrebbe essere il posto giusto per fermarci e fare razzia.»
Cesare annuì. Dopo avere navigato lungo le coste iberiche, avevano affrontato un tratto di oceano aperto, per poi deviare ancora verso nordest e raggiungere i litorali della Gallia celtica, territori che conosceva bene e che avevano fatto da palcoscenico alle sue più grandi vittorie.
«Perché dobbiamo fermarci ancora?» chiese Cicerone dallo sgabello su cui era seduto, un poco in disparte rispetto a tutti loro, con una coppa di vino in mano.
Cesare lo studiò per qualche istante, poi fece un cenno a Decimo, perché rispondesse lui al laticlavius.
«Dobbiamo fare rifornimenti» spiegò questi raddrizzandosi. «E, dato che non possiamo contare sulle leggi di Roma per sequestrare beni alle popolazioni locali senza sollevare le loro proteste, saremo costretti a combattere.»
«E se dobbiamo farlo» intervenne Cesare, «allora preferisco attaccare una città celtica, come già ho fatto in passato. So come sono fatte le loro fortificazioni, e so come possiamo conquistare le loro città.»
Cicerone restò a guardarli con un mezzo sorriso, poi scosse la testa.
«La situazione è paradossale, non convenite?» disse rivolgendosi a tutti i presenti nella sala, fra cui il sempre silenzioso Bruto, che ostentava una smorfia accigliata mentre disdegnava il vino e se ne stava in un angolo a braccia conserte.
«Perché dici questo?» gli chiese Decimo.
«Perché se i celti Pictones non vi fanno paura, di certo dovrebbero inquietarvi le guarnigioni della Repubblica di stanza da queste parti. Sarà loro dovere difendere le popolazioni conquistate proprio da te, Cesare, e che ormai appartengono alla giurisdizione dell’Urbe.»
Per un attimo vi fu silenzio, poi Cesare scoppiò a ridere.
«Hai ragione» concordò raggiungendo il tavolino accanto a Cicerone, dove c’era la brocca di vino da cui il suo vice attingeva con encomiabile parsimonia. Se ne versò una coppa abbondante, l’assaggiò, convenne che non era davvero niente male, poi riprese a parlare, rivolgendosi a tutti: «Noi non attaccheremo le nostre legioni e non uccideremo soldati di Roma» assicurò. «Individueremo un oppidum dei Pictones, una delle loro città fortificate, e faremo in modo che si arrendano prima ancora di dare battaglia. A quel punto prenderemo ciò che ci serve per continuare il viaggio e torneremo a imbarcarci prima che uno dei loro messaggeri arrivi a qualche castrum di stanza in queste regioni per chiedere soccorso.»
«Come fai a sapere che si arrenderanno?» intervenne bruscamente Bruto, fissandolo torvo. Era chiaro che qualcosa di torbido si agitava dentro di lui, e Cesare ancora non riusciva a capire di che cosa si trattasse. «Potrebbero decidere di combattere, perché quei popoli sono stati sottomessi, ma mai davvero domati, e tu lo sai bene.»
Cesare inspirò profondamente, prima di rispondere, ma Cicerone fu più rapido e lo anticipò.
«Io credo che il nostro comandante sappia benissimo che i galli si difenderanno. E anzi, direi che è proprio lo scontro che Cesare cerca, come ai bei tempi. O dico male?»
Cesare sostenne lo sguardo pieno di sarcasmo del suo laticlavius solo per una manciata di secondi, poi sorrise apertamente.
«Abbiamo bisogno di vedere operativa la legione, o almeno la parte che è con noi» confessò. «E di capire se le macchine da guerra che abbiamo elaborato dai disegni di Archimede saranno davvero utili, quando ci troveremo in territorio ostile.»
«Perché consideri queste terre come territori non ostili?» lo incalzò Bruto, che sembrava essersi schierato con Cicerone per fargli da interlocutore critico. «Sono galli, e il loro valore lo hai celebrato tu stesso nelle tue opere.»
«Non dico che siano senza valore» ribatté Cesare, che adesso cominciava a stancarsi di quella discussione. «Anzi, li ritengo i più formidabili nemici che abbia mai combattuto. Ma ormai sono stati asserviti, e da troppo tempo non lottano per difendere le loro città. La protezione di Roma li ha infiacchiti, e dunque non credo che avranno voglia di combattere per qualche cavallo e le loro scorte di cibo.»
«E per le donne» gli ricordò Decimo con un sogghigno. «Ricorda che agli uomini non possiamo negare la possibilità di sfogarsi un po’, dopo tutti questi mesi di vita in solitudine.»
Cesare sventolò una mano in aria, mentre beveva un’altra sorsata di vino.
«Per questo vedremo» affermò. «Forse non ci sarà bisogno di prendere con la forza le donne dei Pictones. Dopo che li avremo sconfitti, capiranno che un sacrificio minore potrebbe salvaguardarli da altri ben peggiori.»
Decimo scoppiò a ridere, e persino Cicerone sollevò la coppa verso di lui, approvando con un cenno della testa la sua strategia.
Solo Bruto se ne restava rincagnato in se stesso, lo sguardo lontano da quello di Cesare, come se avesse vergogna del confronto con lui.
E questo bastò a inquietarlo profondamente, perché ancora non riusciva a capire quali sentimenti contrastanti si stessero facendo strada dentro colui che riteneva fosse suo figlio. Sentimenti che, di certo, lo riguardavano in prima persona. E di cui non poteva più restare all’oscuro.
In sella al cavallo che lui stesso aveva scelto, fra quelli ancora disponibili per gli ufficiali della legione, Gaio Giulio Cesare raddrizzò la schiena e dilatò le narici. Nell’aria c’era l’odore inconfondibile della battaglia, fatto di tensione, sudore, eccitazione, paura di morire e voglia di conquistare la gloria a cui ogni guerriero ambiva.
Tutte sensazioni che gli circolavano nel corpo come un torrente impetuoso, e che lo facevano sentire vivo, giovane e più forte di quanto fosse mai stato negli ultimi anni.
Il nemico era là davanti, rintanato dietro il recinto fortificato posto sulla cima di una bassa collina, ai cui piedi scorreva un torrente di modeste dimensioni che fungeva a sua volta da difesa naturale per l’oppidum, il villaggio che i suoi esploratori avevano individuato e che era stato deciso di attaccare.
«Mi sembra una città piuttosto grande» commentò Publio Licinio Crasso, che lo affiancava come comandante della cavalleria. «Non sarebbe meglio razziare i villaggi circostanti? Sono prede facili, e possono darci tutto quello che ci serve per proseguire il viaggio.»
Cesare non si voltò a guardarlo. Restò agganciato con gli occhi al possente murus gallicus che cingeva l’oppidum in un abbraccio protettivo all’apparenza insuperabile.
«Ho chiesto io agli esploratori di trovare una città abbastanza grande e fortificata da impegnare la legione» spiegò poi, mentre attorno a lui Bruto, Giunio Scribonio e Cassio Longino si giravano a fissarlo. Solo Spartaco, presente in virtù del suo grado di primus pilus, taceva e guardava dritto davanti a sé, scrutando i loro soldati schierati in una riproduzione in miniatura di una legione al completo. «O almeno quello che abbiamo a disposizione per combattere.»
«Gli uomini sono pronti» grugnì il gladiatore. «E quella città non sarà certo un ostacolo difficile da abbattere.»
Cesare annuì compiaciuto, poi tornò a rivolgersi agli altri ufficiali, sui cui volti vedeva smorfie scettiche.
«Dobbiamo verificare l’efficienza dei nostri uomini, prima di portarli a combattere a nord» disse. «I selvaggi che troveremo in Britannia saranno ben altra cosa, rispetto a questi galli ormai domati e sottomessi.»
«Credi che rinunceranno a combattere quando vedranno che siamo romani?» chiese Bruto. «O che almeno ci assomigliamo?»
«Esiteranno quanto basterà per farci avvicinare» rispose Cesare. «E per predisporre le nostre macchine da guerra.»
«Poi lotteranno» affermò Spartaco con la sua voce dura e piena di terra, come se il vecchio gladiatore fosse ancora abituato a mettere in bocca una manciata del terreno su cui avrebbe combattuto, prima di versare il sangue degli avversari. «Sono galli, ce l’hanno nelle vene.»
«E non vanno sottovalutati» mise in chiaro Cesare. «Attacchiamoli, distruggiamo la loro città fortificata e deprediamo tutto quello che possiamo. Ma risparmiamo i civili, per quanto possibile. Voglio solo capire se i nostri uomini sanno muoversi con l’efficienza che mi aspetto dalla mia legione.»
«Lo faranno» ringhiò Spartaco battendo il braccio contro il petto. «Chiedo il permesso di raggiungere lo schieramento.»
Cesare gli fece cenno di andare, e il vecchio gladiatore si allontanò a passo di marcia per raggiungere il primo manipolo della prima coorte di cui era al comando.
«Andate anche voi» ordinò poi a Publio Crasso e Giunio Scribonio, che in qualità di comandanti della cavalleria avevano i loro uomini schierati in prossimità dell’ala orientale della legione.
«Le macchine da guerra sono pronte» gli fece notare Bruto, indicando i carri che si stavano avvicinando scortati dai soldati addestrati al funzionamento di quelle armi, posti sotto il comando diretto di Cicerone.
Cesare cercò a lungo, ma non vide il suo laticlavius da nessuna parte. Stava per gridare un ordine ai suoi attendenti, perché trovassero il vecchio oratore e lo scortassero da lui, quando Bruto si allungò e gli strinse un braccio, facendo poi un cenno con la testa in direzione del primo dei carri, che era anche il più grande, trainato da due buoi che gli esploratori avevano confiscato ad alcuni contadini di un villaggio in prossimità della costa.
Provvisto di sei ruote per reggere il peso considerevole della macchina da guerra che vi era stata allestita sopra, il carro era anche molto alto, perché Cesare vi aveva fatto costruire sopra una piccola torre di legno, sulla cui sommità, all’interno di una casamatta fornita di ampie feritoie, c’era la balista a vapore che tanto lo aveva affascinato, e di cui non vedeva l’ora di mettere alla prova la potenza devastante.
Ma quello che più lo sorprese era che fra gli uomini che sovrintendevano al meccanismo di lancio c’era il suo laticlavius, Cicerone in persona, che per l’occasione aveva indossato una vecchia lorica di ferro e cuoio che sembrava troppo stretta per il suo corpo ormai gonfiato dagli strali del tempo.
«Che ci fa lassù?» chiese a Bruto, che sembrava essere al corrente di quella bizzarria.
«Mi ha detto che basti tu, al comando dei soldati, e che avendo lui una certa predisposizione per le opere dell’ingegno, l’apporto migliore che poteva dare era quello di mettersi al servizio della legione come manovratore delle nuove armi da sperimentare. Naturalmente, sempre pronto a seguire i tuoi ordini, Cesare.»
Gaio restò a fissare ancora per qualche istante Cicerone che si affaccendava sulla cima della torre di guerra, poi sbuffò e diede uno strappo alle redini del cavallo.
«La prossima volta avvertitemi prima» disse brusco, dirigendosi verso le retrovie dello schieramento, da dove avrebbe assistito alla battaglia.
Bruto non ribatté, limitandosi a seguirlo dopo aver spronato il cavallo con un colpo di calcagni nel fianco.
La legione era schierata secondo le disposizioni che lui stesso aveva descritto nel De bello Gallico, un’opera che tutti i comandanti dell’esercito romano conoscevano, e che tutti avevano imparato ad applicare.
I velites erano predisposti sul fronte più avanzato, affiancati dai cavalieri di Crasso sulla sinistra e da quelli di Scribonio sulla destra. Subito dietro, i manipoli degli hastati, poi quelli dei principes e infine i triarii. Ogni manipolo, seppure composto da un numero esiguo di uomini rispetto a quanto imponevano le sue stesse indicazioni, era affiancato sulla destra dal suo centurione di comando, in posizione avanzata, e da un optio sul fondo dello schieramento. I signiferi con gli stendardi, affiancati dai tesserarii e dai cornicines, procedevano appena dietro i tribuni di comando, fra i quali svettava l’aquilifer che reggeva il vessillo su cui era stata impressa con caratteri dorati l’aquila della legione, con le due spade strette fra gli artigli e più sotto il motto della Legio Caesaris: Post fata resurgo, dopo la morte risorgo.
Fra i corridoi delle coorti schierate in manipoli erano passati i carri con le macchine da assalto, che il dittatore aveva fatto predisporre su alcuni rilievi del terreno perché avessero una posizione privilegiata per attaccare senza subire il tiro degli archi nemici.
Era ormai tutto predisposto perché la battaglia avesse inizio, quando il messaggero che era stato mandato all’oppidum per chiedere la resa arrivò a spron battuto, fermando il cavallo a ridosso di Cesare.
«Ho avuto la loro risposta definitiva, mio signore!» riferì l’uomo. «Non intendono aprire le porte della città e lasciarci prendere quello che ci serve. Si dichiarano cittadini della provincia romana, e ci avvisano del fatto che hanno mandato richieste di aiuto ai castra più vicini, che dovrebbero intervenire molto presto. Nel frattempo, loro sono disposti a combattere fino alla morte, per difendere la loro gente e il loro villaggio.»
Cesare sorrise. Quante volte, in passato, aveva sentito quelle stesse parole? E quante volte, alla fine, lui aveva deriso quegli arroganti che non capivano quando era giunto il momento di arrendersi al più forte?
Ma questa volta non aveva bisogno di convincere il nemico ad abbandonare le armi. Tutt’altro. Lo voleva pronto al combattimento, e a quanto pareva era proprio ciò che avrebbero trovato.
«Sei sicuro che quell’affare funzionerà?» chiese Bruto accanto a lui, accigliato e caustico come sempre. Aveva indicato con un cenno della testa la torre su cui era stata montata la balista a vapore di Archimede.
«L’abbiamo già provata, e con effetti devastanti, seppure mai contro un bersaglio nemico. Comunque non ho dubbi che abbatterà quel muro di difesa.» Aveva parlato con sufficienza, infastidito dal comportamento di Bruto, che proprio non riusciva a digerire.
«Quei bastioni sono del tipo che hai descritto nel De bello Gallico?» gli domandò Bruto.
«Sì, direi proprio che non è cambiato nulla» annuì Cesare. «Sono mura di difesa realizzate senza fondamenta. I galli si limitano a sistemare sul terreno dei pali longitudinali incastrati fra di loro, trattenuti al suolo grazie ad altri pali verticali fissati con chiodi alla struttura principale. Poi riempiono tutto di terra e pietre, e all’esterno ricoprono il muro con sassi tirati a secco. L’apparenza è di estrema solidità, ma in realtà basta poco per abbatterli.»
«Perché non ci limitiamo a costruire una rampa fino alle porte d’ingresso della città? Sappiamo come fare, e tu stesso hai conquistato fortezze apparentemente inespugnabili come Avarico, con questo sistema. Mi sembra più sicuro e collaudato di quelle... armi greche.»
Cesare si voltò a guardare la torre con la balista a vapore, che adesso puntava direttamente verso la fortezza nemica.
«Non abbiamo tempo per costruire la rampa» rispose. «Si tratta di un lavoro impegnativo, e i galli sanno come rallentare i lavori, magari scavandoci sotto gallerie per farla crollare. Ho sperimentato anche questo.» Tacque un istante, sostenendo lo sguardo poco convinto di Bruto, poi continuò: «Con la balista a vapore faremo a pezzi il murus gallicus, dopodiché potremo avanzare per impegnare il nemico. Non ho idea di quanti uomini armati possano disporre, ma a giudicare dall’estensione dell’oppidum, e sapendo come tutti i galli siano pronti a gettarsi in battaglia, quando le circostanze lo giustificano, direi che affronteremo uno schieramento almeno pari al nostro, se non superiore».
«Ma saranno quasi tutti contadini» ribatté Bruto. «Ormai la Gallia è stata pacificata, non hanno più eserciti autonomi.»
Cesare lo fissò come se lo vedesse per la prima volta.
«Hai combattuto anche tu contro questa gente» sibilò. «Dovresti ricordare come sono fatti. Hanno la guerra nel sangue, e non si lasceranno sfuggire l’occasione di combattere ancora una volta, come facevano con fin troppa ostinazione durante la mia campagna di conquista.»
«Chi ti dice che usciranno allo scoperto? Anche con le mura abbattute potranno difendersi meglio restando nella fortezza.»
«Perché sono guerrieri nati!» rispose Cesare, esasperato dall’ottusità che Bruto stava dimostrando. «Usciranno allo scoperto, te lo posso assicurare, con i petti nudi e le loro armi decorate con piume di uccelli. E non mancheranno le donne, e i ragazzini più robusti. Per loro sarà come una grande festa a cui partecipare con lo spirito di una vera razza guerriera.»
Tacque e respirò a narici dilatate, sentendo che ammirava quei galli più di quanto sarebbe stato lecito. O forse ammirava il ricordo che aveva di uomini come Vercingetorige e la sua schiatta, che non si era arresa di fronte alla preponderanza del nemico fino a quando non era stato chiaro che continuare a combattere avrebbe significato solo l’estinzione della sua gente.
«Oppure sarà un massacro e basta» mormorò Bruto.
«Adesso mi hai stancato!» ringhiò Cesare spronando il cavallo e avvicinandosi agli sbandieratori. Individuò il tribuno che era al comando e gli fece segno di cominciare.
Ben presto gli ordini volarono silenziosi in tutta la valle, seguendo il movimento delle bandiere di segnalazione. Le macchine da guerra avanzarono, i corni di battaglia risuonarono, e finalmente tutto fu pronto per dare inizio al combattimento.
Cicerone non aveva impiegato molto per capire il funzionamento di quello strabiliante congegno. Il principio su cui si basava era semplice, eppure solo una mente geniale come quella del greco Archimede aveva potuto trasformare una comune balista nella più devastante delle armi conosciute.
«Alimentate il fuoco!» ordinò quando si rese conto che ormai tutto era pronto per scagliare i dardi micidiali che erano stati approntati dai carpentieri.
Mentre gli sbandieratori dialogavano in silenzio lungo tutta la dorsale di colline su cui si era attestata la legione, Cicerone avvertì un brivido lungo la spina dorsale e si ripromise di scrivere qualcosa a proposito delle sensazioni che un uomo prova in guerra. Non è semplice eccitazione, e nemmeno un miscuglio di paura e voglia di strafare, ma qualcosa di più, un sentimento puro che scaturisce dalla parte più profonda dell’anima e che si diffonde lungo le vene in tutto il corpo, come una mareggiata di acqua bollente che spinge all’azione, e che fa dimenticare i pericoli con cui ogni soldato lanciato in battaglia dovrà prima o poi fare i conti.
Non c’era altra spiegazione per quello che lui stesso provava in quel momento. Aveva voglia di urlare, di lasciar sfuggire la pressione che saliva dentro di lui proprio come stava succedendo nel grande barile di bronzo posto sul fuoco, che faceva scaturire il vapore che presto avrebbe innescato il primo tiro della possente balista.
È questo che significa sentirsi vivi? si chiese. Più delle soddisfazioni del cursus honorum, più della gratificazione di avere un’opera letta da tutta Roma? La devastante voglia di gridare e catapultarsi contro il nemico con la spada sguainata era qualcosa che Cicerone poteva paragonare solo ai momenti culminanti del sesso, seppure in forma molto più coinvolgente, perché obnubilava la mente.
Fece un segno al soldato addetto alla caraffa piena d’acqua che, collegata attraverso un tubo di legno, avrebbe versato il liquido sulla barra di ferro incandescente posta sopra al fuoco. Quando questo fosse accaduto, il vapore sprigionato sarebbe stato racchiuso nel barile di bronzo, e la pressione sarebbe aumentata in modo devastante, fino a spezzare la listarella di legno che separava il tubo di ferro di cui era composta la balista, all’interno del quale era stata posta una pesante sfera di metallo. Cicerone non aveva ancora visto all’opera quella meraviglia dell’ingegneria umana, ma mentre avvertiva il fischio sempre più forte del vapore che si accumulava, comprese che la sfera sarebbe stata espulsa dalla bocca della balista a una velocità impressionante, per catapultarsi contro le mura dell’oppidum come un pugno sferrato da Giove in persona, capace di sfondare qualsiasi cosa. Ma non era tutto, perché oltre alla sfera era stato inserito nella bocca della balista anche un dardo della lunghezza di dodici piedi, fornito di una punta di ferro. Nessuna arma tradizionale a corda sarebbe mai riuscita a scagliare un simile dardo, ma Cicerone non dubitava che la balista di Archimede ce l’avrebbe fatta.
Quando il suono dei corni di guerra si levò nell’aria, comprese che il momento era arrivato.
«Ora!» gridò al soldato addetto all’acqua, che si affrettò a versare tutto il contenuto della brocca nel tubo di legno. Appena arrivata a contatto con la sbarra incandescente di ferro, l’acqua si trasformò sfrigolando in vapore, e andò ad aggiungersi a quello già presente nel barile di bronzo.
Il fischio lacerante della pressione che cresceva impressionò Cicerone, il quale nel frattempo si era posizionato dietro la balista, per puntarla contro il bersaglio. Inquadrò una delle torri di guardia della fortezza nemica, presidiata da quattro arcieri pronti con le loro armi, e attese che il colpo partisse.
«Preparate un altro dardo e un’altra palla di ferro!» ordinò, sapendo che avrebbe potuto ricaricare subito e provare un altro tiro entro breve tempo.
Gli uomini si mossero tutti insieme, e Cicerone li stava ancora guardando quando avvertì netto lo schiocco della listarella di sicurezza che si spezzava per la pressione del vapore, e con uno schianto dalla bocca della balista partirono il dardo, la palla di ferro e anche altri pezzi di legno, a una velocità tale che lui non riuscì nemmeno a seguirne la traiettoria. Vide solo l’effetto che ebbe l’impatto di quei proietti contro la torre nemica, e restò aggrappato alle maniglie di governo della balista con la bocca aperta, incredulo per ciò che stava succedendo.
La sommità della torre aveva ricevuto in pieno la palla arroventata, e si era disintegrata in una nuvola di legno e ferro, con uno schianto che era sembrato il colpo di una mazza gigantesca, manovrata da una qualche creatura divina che aveva deciso di scendere sul campo di battaglia al loro fianco.
Ma anche il dardo aveva raggiunto il bersaglio e, dopo avere trafitto due uomini da parte a parte, tagliandoli quasi in due e spruzzando nell’aria una nuvola di carne e sangue, aveva proseguito il cammino e si era conficcato all’interno di una costruzione che Cicerone riusciva a scorgere appena, ma che dopo qualche istante crollò su se stessa, franando al suolo in un mucchio di macerie.
«Incredibile...» mormorò, sentendosi attraversare da una sensazione di onnipotenza che mai, prima di allora, aveva sperimentato. Si voltò verso la collina su cui Giulio Cesare stava seguendo lo svolgersi della battaglia e incrociò il suo sguardo. Comprese subito quello che il dittatore voleva comunicargli, con il suo sorriso pieno di soddisfazione e di sicurezza: ecco perché erano lì. Ecco perché avevano abbandonato la vita comoda di Roma e le sottili arguzie della politica. Ecco per che cosa valeva davvero la pena vivere. E morire. Per quello che si prova quando si comprende che gli dei ti sono al fianco, e che nulla può impedirti di raggiungere gli scopi che ti sei prefissato.
«La balista è pronta!» gridò uno dei soldati addetti al caricamento dell’arma.
Cicerone si riscosse, tornando a contemplare quello che stava succedendo nella valle prospiciente l’oppidum nemico. Altre due baliste a vapore stavano riversando i loro dardi possenti contro le mura fortificate, e ogni colpo era il pugno di un gigante che faceva a pezzi qualsiasi cosa incontrasse sul suo cammino. Ma c’erano anche altre macchine da guerra, che procedevano lentamente verso la città fortificata, e che presto cominciarono a riversare contro il nemico proietti di pietra e palle infuocate da ogni direzione.
Contemplò quello spettacolo e comprese che nessuno sarebbe riuscito a opporsi alla Legio Caesaris. Se si fossero diretti verso Roma, anziché nei territori sperduti del nord, avrebbero potuto conquistare l’Urbe in pochi giorni, e poi...
Si bloccò, spaventato dai suoi stessi pensieri. Che cosa gli stava succedendo? Possibile che stesse cominciando a ragionare come Cesare, come il dittatore che aveva sempre osteggiato in nome della Repubblica?
Sentendo il sudore colargli dalla fronte, si allontanò di scatto dalla balista come se avesse paura di toccarla e, ignorando i richiami dei soldati che chiedevano istruzioni, si precipitò verso la scala che portava di sotto.
La discese in fretta, poi si allontanò dando le spalle a Gaio che, ne era sicuro, lo stava osservando con un sorriso di scherno.
Quando i cornicines avevano fatto cantare i corni di guerra, diffondendo il segnale che lo scontro era imminente, Cesare aveva raddrizzato la schiena e aveva teso i muscoli di tutto il corpo. I galli erano sciamati dal grande portale d’ingresso del loro oppidum ma anche dagli squarci aperti nei bastioni dalle baliste a vapore e dagli onagri, e urlando come belve infuriate si erano scagliati lungo il versante della collina su cui sorgeva la fortezza.
Un errore imperdonabile, che i tribuni della legione interpretarono subito nel modo corretto. Prima ancora che lui potesse dare l’ordine di predisporre le avanguardie della legione nell’assetto migliore per reggere l’impatto, gli hastati e i frombolieri si erano già portati davanti a tutti, insieme agli arcieri provvisti di arco a medio raggio.
«Prepararsi a tirare!» risuonò il comando, che corse di bocca in bocca mentre il fragore dei carri da guerra dei galli si propagava in tutta la vallata.
Quegli stolti si erano fatti sopraffare dal desiderio di versare sangue, abbandonando un atteggiamento di difesa per lanciarsi allo scoperto, tutti protesi in quell’insulso attacco. Avrebbero così dovuto discendere il versante della collina su cui sorgeva l’oppidum, e poi, dopo avere attraversato il torrente a valle, risalire i rilievi su cui si era attestata la legione, portandosi in una posizione sfavorevole.
Quei guerrieri ottusi, che si erano dipinti il viso e i petti nudi con i colori della guerra, non conoscevano alcuna tattica o strategia che non fosse l’assalto a viso aperto. Vercingetorige era riuscito a controllarne la furia spavalda e con intelligenza aveva convogliato le qualità guerresche dei suoi uomini in manovre di combattimento che avevano impegnato a fondo le legioni di Cesare, ma adesso... non c’era nessun Vercingetorige a guidare quella masnada di guerrieri urlanti, e Gaio non ebbe dubbi che li avrebbero annientati con il minimo sforzo, contando pochissime perdite fra i suoi soldati.
Mentre Spartaco e gli altri centurioni preparavano i velites all’impatto con i carri da guerra gallici, che stavano arrivando a spron battuto, i tribuni diedero l’ordine agli hastati e ai frombolieri di lanciare, e una nuvola di dardi si alzò nel cielo, oscurando per un momento il sole.
I micidiali giavellotti romani, le pietre e i tondelli di ferro scagliati dalle fionde si schiantarono sulla disordinata formazione dei galli in corsa con un effetto devastante, falciando e decimando i guerrieri nemici a decine.
«Avanti con i rostri!» urlò Bruto, che dopo la scomparsa di Cicerone aveva assunto il ruolo di vice comandante della legione. «Segnalate alla cavalleria di muoversi!»
Corniciferi e sbandieratori diramarono gli ordini, e ben presto le barriere di legno provviste di rostri acuminati puntati in avanti a poche spanne dal terreno vennero collocate davanti alla prima fila di velites, per contrastare i carri da guerra gallici. Cesare aveva sempre saputo che, nonostante le leggi romane proibissero ai galli di tenere in funzione quei carri, provvisti di falci sulle ruote per seminare il panico tra i nemici e provocare gravi perdite, gli oppida di tutta la Gallia dovevano esserne pieni, e adesso che li osservava arrivare a tutta velocità comprese di avere fatto bene a non sottovalutare la forza del nemico.
Quando il primo carro giunse sulla cima della collina, precedendo gli altri di qualche lunghezza, Cesare vide che era guidato da un guerriero colossale, che spronava i cavalli con le briglie legate al fianco, mentre nella destra impugnava una pesante spada e nella sinistra una lancia, che protendeva in avanti come un micidiale pungiglione.
«Fermatelo!» gridò Bruto interpretando i suoi stessi pensieri, e i legionari spostarono i rostri per frapporsi alla corsa dei cavalli.
L’impatto del carro da guerra con la barriera predisposta per fermarlo fu devastante, soprattutto a causa della velocità impressa dai due magnifici cavalli neri guidati dal guerriero gallico. I rostri affondarono nelle zampe e nel ventre degli animali, che lanciando nitriti di dolore persero la presa sul terreno e scartarono di lato, facendo letteralmente volare il cocchio oltre lo sbarramento dei rostri, che nel frattempo venne fatto a pezzi dal peso delle bestie che ci franarono sopra.
Cesare vide il carro da guerra nemico cadere sui suoi velites e schiacciare due uomini, mentre il soldato gallico balzava via con agilità un momento prima dell’impatto, cadeva a terra e si tirava subito in piedi dopo avere rotolato fra i legionari ringhiando come una belva selvaggia.
I velites lo impegnarono subito, ma il guerriero, mulinando la picca e la spada, riuscì a tener loro testa per un po’, battendosi come un indemoniato mentre gli altri carri da guerra arrivavano e si catapultavano contro i rostri di contenimento.
Per un momento Cesare ebbe l’impressione che sarebbero riusciti a sfondare, aprendo dei varchi nello schieramento della legione, ma poi udì la voce di Spartaco che abbaiava ordini in sequenza, e si rese conto che tutto stava andando come previsto: i rostri fermarono i cavalli, mentre i giavellotti degli hastati e le pietre dei frombolieri fecero strage dei conducenti dei carri.
In un attimo quella che era sembrata una devastante carica da parte del nemico si concluse in una disfatta totale per i galli, che restarono a terra trafitti prima ancora che potessero ingaggiare il combattimento con i velites delle prime file.
Solo il guerriero che era riuscito a sfondare le linee combatteva ancora, seppure con il corpo ricoperto di ferite da cui sgorgava sangue a fiotti, ringhiando come una enorme bestia impazzita. Aveva già ucciso tre o quattro legionari continuando a restare piantato sulle gambe possenti, mentre sferrava colpi terrificanti con la spada e con la lancia.
«Abbattetelo!» ringhiò Bruto rivolgendosi direttamente ai tribuni militari, ma prima che l’ordine potesse essere diffuso con le bandiere di segnalazione, Cesare vide un uomo correre verso il guerriero gallico, facendosi largo fra i legionari sorpresi e intimoriti da quel bestione inarrestabile.
«È Spartaco!» gridò uno dei tribuni.
Il vecchio gladiatore non sembrava disposto a sacrificare altri uomini per lasciare in vita il gallico. Voleva affrontarlo di persona, e Cesare si tese sul cavallo per l’eccitazione, perché aveva sempre sentito narrare delle capacità di combattimento di Spartaco nelle arene, ma non lo aveva mai visto in azione.
Intorno al guerriero nemico si era nel frattempo creata una zona libera, perché i legionari si erano allontanati per mettersi al riparo dai suoi colpi formidabili.
Spartaco arrivò veloce e silenzioso, e senza dare alcuna istruzione ai suoi uomini si lanciò contro il gallico, che lo affrontò digrignando i denti. Il trace impugnava solo la corta daga e non esitò a farsi sotto, liberandosi con un abile colpo della picca del nemico che cercava di trafiggerlo, per poi ruotare su se stesso, piegarsi sulle gambe e sferrare un affondo verso una delle gigantesche cosce del gallico.
Cesare era a bocca aperta. Sapeva che Spartaco era vecchio, eppure lo aveva visto muoversi con una fluidità e una capacità di coordinamento impressionanti. Senza dare alcuna possibilità al gallico di difendersi, era scivolato nel suo cerchio di guardia e aveva colpito il guerriero, che con un urlo era crollato in ginocchio. Ma non si era fermato: aveva ruotato ancora su se stesso, estraendo dalla cintola un coltello, e dopo avere abbandonato la daga nella coscia del nemico, gli aveva affondato la lama nel collo, all’altezza della giugulare.
Poi si era fatto da parte, mentre l’altro crollava a terra boccheggiando, le mani che premevano sull collo nel vano tentativo di arrestare il flusso del sangue che lo abbandonava, insieme alla vita.
Spartaco non perse tempo ad accertarsi della fine del suo nemico: gridò secchi ordini ai legionari, che si affrettarono a ricomporre le fila mentre ormai la marea urlante dei galli stava per risalire la collina e schiantarsi contro la legione schierata.
Cesare lo osservò mentre correva al suo posto, e comprese quale rispetto quell’uomo avesse guadagnato in tutti i suoi uomini, dopo lo spettacolare combattimento che aveva inscenato. Non aveva dato il tempo al suo nemico di sferrare un solo colpo contro di lui, e con velocità disarmante l’aveva finito muovendosi come se si stesse allenando contro un fagotto di paglia. Un esempio di forza, velocità, tecnica e intelligenza che aveva impressionato tutti, e che adesso sarebbe venuto utile al primus pilus per imporre la sua determinazione agli uomini, nell’imminenza dello scontro con i galli.
Ah, cosa ti sei perso, Cicerone! pensò Gaio mentre i suoni di guerra riempivano la valle insieme alle urla selvagge dei galli e agli ordini serrati dei comandanti dei manipoli che predisponevano gli uomini al combattimento. E cosa ti perderai ancora!
La battaglia si era protratta per buona parte della mattina, non tanto perché la Legio Caesaris si fosse trovata in difficoltà contro l’irruenza dei galli, quanto perché Gaio aveva deciso di risparmiare il più possibile la cavalleria, che dunque non aveva potuto esercitare il suo ruolo dirompente sui fianchi dello schieramento nemico.
«Non possiamo rischiare di perdere altri cavalli» aveva sostenuto Cesare quando Bruto gli aveva chiesto le ragioni di quella scelta. «Siamo qui per rinforzare la legione, non per sfiancarla.»
«Ma i galli sono combattenti feroci!» aveva protestato Bruto. «Se non li colpiamo ai fianchi con le truppe a cavallo sarà più difficile averne ragione.»
«Vorrà dire che Spartaco e i suoi uomini si dovranno impegnare di più» era stata la risposta di Cesare, che aveva considerato chiuso l’argomento.
«Perché non fai collocare a terra le baliste a vapore?» aveva insistito Bruto, più preoccupato di quanto fosse lecito. «Potrebbero fare strage dei galli e seminare il panico. Quei guerrieri non hanno paura di affrontare nemici anche dieci volte superiori di numero, ma quando si trovano davanti congegni meccanici... sembra che non sappiano come difendersi.»
«Sì, questo lo so bene» aveva annuito Cesare. «Ma non c’è tempo per trasportare le baliste a terra, e dalle torri il loro effetto sarebbe minimo.»
«Allora dobbiamo stare attenti, perché non sarà facile fermare quelle belve scatenate.»
In effetti sia lui che Bruto avevano avuto ragione: i galli avevano resistito più a lungo del previsto ai movimenti ordinati dei manipoli romani, raggruppandosi in gruppi di combattenti che si erano difesi restando schiena contro schiena, e che avevano fatto più vittime di quanto Cesare avrebbe voluto. Se Publio Crasso e Giunio Scribonio avessero potuto attaccare con la cavalleria, si sarebbero sbarazzati molto prima del nemico, ma era chiaro che quei guerrieri forsennati avrebbero ucciso parecchi cavalli e cavalieri, prima di farsi trucidare.
Quando gli ultimi galli vennero circondati dalle formazioni serrate dei legionari, che con gli scudi e le lunghe picche li uccisero a uno a uno, Cesare fece scartare il cavallo e si diresse verso la tenda di comando, dove si augurava di trovare Cicerone.
Il prossimo passo sarebbe stato entrare nell’oppidum gallico, depredare tutto ciò che fosse servito per il prosieguo della loro spedizione e tornare alle navi. Sarebbe stato compito del laticlavius organizzare la razzia e preoccuparsi di recuperare cibo, armi, cavalli. Comprese le donne, a questo punto, perché dopo le perdite che avevano subito, occorreva ridare morale agli uomini.
«È stata una bella battaglia» commentò accanto a lui Bruto, mentre raggiungevano il praetorium di comando e scendevano da cavallo. «E devo dire che Spartaco mi ha impressionato.»
«Avrei voluto vederlo combattere nelle arene» annuì Cesare. «Ora comprendo la fama che lo ha sempre circondato.»
«Non mi riferisco solo a come ha ucciso quel guerriero» continuò Bruto mentre entravano nella grande tenda sorvegliata da un cerchio di guardie armate. «L’ho visto combattere in prima linea insieme ai suoi uomini, e incitarli a non dare tregua al nemico. Il suo apporto è stato determinante per ridurre le perdite tra le nostre fila.»
Cesare annuì, mentre si versava del vino da una brocca e si guardava intorno. Cicerone non c’era, e questo contribuì a irritarlo.
«Convoca un Consiglio di guerra» disse a Bruto. «E fai venire qui Cicerone!»
«Eccomi, Cesare» arrivò una voce alle sue spalle.
Si voltò e vide l’anziano oratore entrare nella tenda di comando. «Ero fuori a meditare, e ti ho visto arrivare.»
«Perché ti sei allontanato dalla battaglia?» gli chiese fissandolo torvo.
Cicerone si avvicinò, si versò del vino, bevve a piccoli sorsi, poi gli si fece sotto, fissandolo direttamente negli occhi con una strana espressione.
«Perché siamo qui, Cesare?» gli domandò. «Che cosa stiamo cercando, davvero?»
Gaio lo soppesò per un istante, poi scosse la testa.
«Quante volte ne abbiamo già parlato?» rispose. «Siamo qui per la gloria immortale. E per cercare il segreto della vita eterna.»
«Ma noi siamo già immortali» sostenne Cicerone con un sorriso. «O meglio, il nostro corpo corre verso il disfacimento, si corrompe e brama la morte, forse per ricongiungersi alla materia primeva da cui tutto ha avuto origine. Ma la nostra anima? Non credi che sia immortale? E non ci rende questo, forse, del tutto simili agli dei?»
«Io non ambisco alla morte» replicò Cesare, che non riusciva a capire dove volesse arrivare Cicerone. «Voglio l’immortalità adesso, per rendere invincibile non solo la mia anima, ma anche il mio corpo.»
«Ma sono gli dei a darti la forza per continuare a vivere» ribatté il vecchio oratore. «È la loro energia che regge, governa e muove i nostri corpi, e consente alle nostre menti di organizzare il pensiero.»
«E dunque?» chiese Cesare accigliato.
Cicerone lo fissò divertito.
«E dunque io credo che immortale alla fine sia solo ciò che continuamente si muove, questa forza che imprime un moto ai nostri corpi. E questa forza non può avere fine, perché è indipendente dalla materia, e non si corrompe, non si trasforma in polvere. È dentro di noi, capisci? Non c’è bisogno di raggiungere i confini del mondo per cercarla. Basta guardare alla nostra anima, per scoprire che gli dei sono dentro di noi e dialogano ogni giorno con il nostro corpo e con la materia di cui siamo fatti.»
Cicerone tacque, e Cesare restò a fissarlo in silenzio per qualche tempo.
«Vuoi abbandonare la spedizione?» gli domandò alla fine.
«Al contrario!» rispose Cicerone scoppiando a ridere. «Ti seguirò ovunque ci porterai, dittatore, perché voglio assistere al momento in cui ti renderai conto che non c’è nulla, là fuori. A quel punto, forse, finalmente guarderai dentro te stesso. Perché è lì che si nasconde il segreto dell’anima immortale.»
Detto questo Cicerone posò il boccale di vino sul tavolo, si avvolse nel mantello e uscì dalla tenda di comando, proprio mentre arrivavano Publio Crasso, Spartaco e gli altri comandanti.
«Lo lasci andare?» gli chiese Bruto a mezza voce.
Cesare scosse la testa.
«Credevo di cominciare a comprenderlo, ma quell’uomo resta un mistero.»
«O forse, più semplicemente, vede e sente cose che noi non percepiamo.»
Cesare trattenne una risata. «Un modo elegante per dire che è pazzo?»
Per la prima volta da quando era con loro, Bruto accennò a un sorriso.
«No, Cesare» rispose. «È un modo elegante per dire che forse siamo noi i pazzi.»